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Marzo 2018

Ideologie attuali e schiavitù moderna 

di Maria Luisa Pesante

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È opportuno reintrodurre la schiavitù in Francia? Perché no? Se lo chiedeva nell’anno 1734 il giurista ed economista François Melon di fronte agli ottimi argomenti con cui i suoi contemporanei giustificavano la schiavitù degli africani nelle colonie francesi delle Antille per i grandi vantaggi che essa portava alla Francia. «Reintrodurre la schiavitù è o no un’opzione per la società moderna?» si chiede pensosamente il blogger Enrico Verga il 26 gennaio 2018.

Per la storia, con questa domanda Melon, come molti altri antischiavisti tra Sette e Ottocento mirava a mettere in difficoltà i filoschiavisti, anche se lettori disattenti non lo hanno capito; a che cosa mira, per la cronaca, Verga? Il suo intervento, con tanto di video incorporato, è apparso su «Econopoly. Numeri idee progetti per il futuro», il nuovo blog del «Sole-24Ore», che, secondo l’autopresentazione, «vuole parlare di economia in maniera seria e documentata, come è nello stile» del giornale. Verga tiene blog su vari siti, in modo alquanto trasversale, da «Libero» al «Fatto quotidiano». La domanda è se occorra rispondere a questo testo, e come. Nel video che lo accompagna si parla di provocazione, parola di copertura, furbesca e ambigua: lo dico, ma, se cadrai nella trappola di una reazione seriosamente indignata, potrò negare e sbeffeggiarti; lo dico e, se prenderai sul serio la presunta sfida di un ragionamento non convenzionale, potrò riaffermarlo, con qualche legittimazione. Non vorremmo certo cadere nella facile imboscata del primo senso; ma non è neppure il caso di sentirsi sfidati nel secondo. Il testo in questione è troppo rozzo, e disinformato, o mendace. Però va preso sul serio, e quindi analizzato, come indizio sia di un’operazione ideologica sia di un retroterra sociale che è meglio esporre al pubblico piuttosto che ignorare come se non esistesse.

Il contenuto è presto detto. Constatato che molti lavoratori, a causa di un rapporto precario di lavoro, che non garantisce alcuna protezione per i casi della vita, di una retribuzione infima, del controllo a cui sono sottoposti grazie a tecnologie elettroniche, dell’indeterminatezza del tempo di lavoro, si trovano già in una condizione analoga alla schiavitù, ci si chiede se un contratto di schiavitù non possa essere una soluzione migliore. Esso potrebbe garantire al lavoratore alcuni fondamentali diritti in cambio di disponibilità totale, e incentiverebbe gli imprenditori a investire nel proprio capitale umano, a proteggerlo, come ora non fanno. Per capire il senso di queste affermazioni bisogna fornire loro un contesto. Il testo contiene una lunga citazione che riporta l’«opinione legale» di Stefano Sutti, senior partner dello Studio legale Sutti di Milano, «uno tra i cinque studi legali più importanti del panorama italiano commerciale». Stefano Sutti, oltre che avvocato e docente a vario titolo nell’Università di Padova (Master in Diritto della rete) e alla Statale di Milano (Laurea specialistica in Management dell’imprenditorialità e dell’innovazione), è un noto autore della destra estrema, e collaboratore di varie riviste di questo orientamento, con lo pseudonimo di Stefano Vaj (si veda ad esempio, il suo scritto «per l’autodifesa etnica totale», o la sua collaborazione all’«Uomo libero»; ma il lettore curioso può trovare facilmente online molti documenti). Originariamente in contatto con la Nouvelle droite di Alain de Benoist e l’associazione GRECE, ora sembra legato soprattutto all’Associazione italiana transumanisti, dunque con un interesse marcato per ciò che si chiama “post-umano”: sostenitori della fallacia artificialista (tutto ciò che si può fare deve essere fatto), e quindi favorevole a tutte le pratiche biologiche manipolatorie, esponente di un’ideologia modernista estrema, libertaria (nessun limite alla libertà di chi può) e insieme gerarchica (evidentemente non tutti sono capaci di essere pienamente liberi.)

Qui non si tratta ovviamente di ricostruire la Weltanschauung dell’avvocato Sutti, per importante e onnipresente che egli sia (in agosto, ci informa in rete, ha avuto un incontro con il vice-presidente della Repubblica iraniana), ma di rendere chiaro che il repellente pasticcio di presunta protezione dei lavoratori grazie a loro sottomissione a un contratto di schiavitù, come che sia intesa dai proponenti, non è una stupidaggine da blogger ignorante della storia, ma ha radici in un retroterra culturale preciso che può essere identificato lungo diversi assi. Ne indico due. Il primo è quello tipico delle culture nazi-fasciste dopo la prima guerra mondiale: la protezione di un popolo, un’etnia, una comunità di sangue e terra (oggi si preferisce dire pudicamente territorio) contro le varie minacce straniere che ne minano esistenza materiale e identità culturale. Alcune minacce erano/sono reali (le indennità di guerra nel 1919, le politiche economiche europee oggi); altre erano e sono inventate. Alcuni nemici sono presenti; altri sono fittizi. Ma il nocciolo dell’operazione è che il dramma reale della disoccupazione di massa, o più in generale dell’impotenza dei lavoratori privati di diritti diventa il perno intorno a cui costruire, a suo tempo, un progetto politico esplicitamente totalitario e razzista, e perseguire oggi una strategia di potere in nome di un aggiornato e ben più appetibile differenzialismo ed essenzialismo culturale. Sicché la promessa di protezione sociale viene fatta passare attraverso la premessa di una necessaria protezione etnica. Il secondo asse è quello neoliberale e libertario: nella società alcuni gruppi richiedono protezione, ed è necessario dargliela; ma la protezione non può presentarsi sotto forma di diritti, perché questo implicherebbe limitare la libertà di scelta di coloro che, invece, non hanno bisogno di protezione. Perciò la protezione deve essere pagata con un’esplicita cessione di libertà, unico modo per non minare la libertà dei forti. Quante volte, nei decenni tra metà Ottocento e il secolo successivo, nel Regno unito o negli USA, a mano a mano che i lavoratori conquistavano libertà di azione, diritti a tutele sociali, compensazioni per i danni prodotti dal capitalismo industriale, i liberali non hanno tuonato contro la schiavitù che i limiti di legge posti alla validità dei contratti, oppure i provvedimenti di welfare, imponevano tanto agli imprenditori quanto agli operai, riportando questi ultimi dalla libertà di contratto, ovvero di contrattare qualunque condizione fossero pronti ad accettare, alla servitù dello status. È rimasta emblematica, e cruciale anche per il futuro, la sentenza 1905 Lochner vs New York della Corte suprema che dichiarava incostituzionale la legge dello Stato che imponeva un limite all’orario di lavoro dei fornai, e così spossessava le parti della libertà di stringere i contratti che volevano, qualsiasi fossero.

In effetti, quando Stefano Sutti o Enrico Verga devono esemplificare i vantaggi che la neo-schiavitù offrirebbe ai lavoratori dipendenti, ricorrono al welfare aziendale, che già esiste, in diverse forme, non solo negli Stati uniti, ma anche in Italia. Non è forse un bene per un lavoratore che non ha più, o non ha mai avuto, molti diritti, avere dal datore di lavoro assicurazione sanitaria, schema pensionistico, casa garantita (oh le vecchie case Fiat), asilo per i figli, stabilità di impiego? Beni ovviamente tutti a rischio se il lavoratore non accontentasse l’azienda; ma perché mai dovrebbe averli se in cambio non cedesse qualche cosa? Legislazione sociale e contrattazione collettiva - dice l’avvocato Sutti - sono del resto ormai impotenti di fronte alla globalizzazione. Però «non solo nelle economie tradizionali il singolo lavoratore viene considerato un capitale da proteggere; ma viene tuttora considerato alla stessa stregua anche in società fortemente industrializzate come quella giapponese e di altre parti dell’Asia, dove la contrattualizzazione formale del rapporto secondo il modello occidentale ha fatto venir meno solo fino a un certo punto il vincolo culturale di fedeltà reciproca che si stabilisce ai vari livelli (pas trop d’égalité!) all’interno di una comunità di lavoro stabile e delle unità produttive che la compongono». Se si accede al sito dello Studio Legale Sutti, si apprende che questo modello culturale della fedeltà è il principio che guida lo Studio nella sua politica di reclutamento.

Sarà schiavitù, o sarà solo servitù di tipo feudale, o magari anche qualche cosina di meno? Non è il caso di sottilizzare con gente che, come Verga, non controlla né i concetti né il lessico, ed è capace di scrivere che nell’impero romano gli schiavi avevano «diritto» a questo e quello. E neppure con il Sutti, che apre le rivelazioni della sua opinione legale con la seguente clamorosa falsità:

Per la cultura giuridica delle istituzioni internazionali è a rischio di essere considerato in sostanza schiavitù più o meno qualsiasi rapporto di lavoro esuli dallo schema del contratto di impiego in un’azienda capitalistica a fronte di un salario, o magari dalla fornitura “free lance” di servizi puntuali da un individuo a chi occasionalmente ne voglia ingaggiare i servizi.

Il testo dell’art.1 della Convenzione internazionale sulla schiavitù del 1926, ripetuto in numerosi testi successivi e infine incluso nel Protocollo di Palermo dell’Onu, 2000, e nella Convenzione del Consiglio d’Europa sull’intervento contro il traffico di esseri umani del 2005, è: «Schiavitù è lo status o condizione di una persona sulla quale sono esercitati uno qualsiasi oppure tutti i poteri impliciti nel diritto di proprietà». Quanto alla cultura che circola in quegli ambienti si possono vedere le linee guida Bellagio-Harvard 2012 per la definizione dei parametri legali della schiavitù elaborate dal Research Network on the Legal Parameters of Slavery che affinano e precisano le affermazioni dei vari testi internazionali. Un riferimento al contratto standard di lavoro dipendente non esiste nei testi delle convenzioni internazionali né nelle definizioni di schiavitù né in quelle di istituzioni e pratiche simili alla schiavitù né, infine, in quelle di lavoro forzato. Perché Sutti se lo inventa, presumibilmente contando sull’ignoranza dei lettori? Perché in questo modo può insinuare che in effetti ormai si considera universalmente che la condizione dei lavoratori è una condizione simile alla schiavitù, che è inutile spaventarsi delle parole, e che è meglio risolvere virilmente la penosa situazione di incertezza.

Nel corso di più di un secolo, durante il conflitto tra schiavismo e abolizionismo nei paesi europei che dominavano colonie schiaviste, e poi negli stati delle Americhe che mantenevano la schiavitù anche dopo l’indipendenza dai rispettivi imperi, discorsi di pelosa sollecitudine per le penose condizioni dei lavoratori liberi erano emblematicamente presenti nelle argomentazioni degli apologeti della schiavitù e dei più moderati oppositori della sua abolizione - sollecitudine accompagnata talora anche da proposte di rendere finalmente schiavi pure i lavoratori liberi al fine di proteggerli. Sicché c’è ben poco di nuovo o di stimolante nella proposta del blog. La provocazione sarà forse alla fin fine semplicemente un divertissement di poco spirito? Si sono divertiti almeno i redattori del serissimo «Sole-24 Ore»? In realtà essa sembra qualche cosa di più: un saggiare i limiti dell’ormai indicibile, e spingerli più avanti; un dire di nuovo ciò che nella cultura europea si era deciso di non voler dire mai più, e vedere l’effetto che fa.

 

 Per approfondire:

Jean Allain (ed.), The legal understanding of slavery: From the historical through the contemporary, Oxford, Oxford University Press, 2012, contiene sia un dibattito tra studiosi di diritto oggi sia testi delle varie convenzioni internazionali, peraltro facilmente reperibili in rete.

Il Codice penale italiano, capo III, art. 600, ovviamente ricalca la formulazione delle convenzioni internazionali, sottoscritte dall’Italia.

Gli scritti di George Fitzhugh, Sociology for the South or the failure of free society, 1854, e Cannibals all! or slaves without masters, 1857, sono la più famosa esposizione della proposta di Enrico Verga. Il secondo testo è stato ripubblicato ancora nel 2008, tutti sono reperibili in biblioteche italiane, e in rete con il nome dell’autore.