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Giugno 2018

Francia: la fine del lavoro statutario? 

di Ferruccio Ricciardi

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Dal mese di marzo il traffico ferroviario in Francia è fortemente perturbato a causa del vasto movimento di “scioperi a singhiozzo” promosso dai principali sindacati del settore. Da qui alla fine di giugno si conteranno una trentina di giornate di blocco totale o parziale che hanno contribuito non soltanto a creare enormi disagi e tensioni (in un periodo di vacanze scolastiche e di ponti festivi), ma anche a trasformare il conflitto sindacale nella prima, vera “prova del fuoco” in campo sociale per il governo del presidente Macron. Il ricordo della grande mobilitazione del 1995, che paralizzò il paese e alla fine spinse il governo ad abbandonare la riforma delle pensioni, viene continuamente evocato come spauracchio o fonte d’ispirazione, a seconda dei punti di vista.

Oggi in gioco c’è il progetto di “modernizzazione” del sistema ferroviario francese, che prevede, tra le altre cose, l’apertura alla concorrenza, la conversione della Sncf – la società statale che gestisce il trasporto ferroviario – in una società per azioni e, non ultimo, la soppressione dello status speciale dei lavoratori ferroviari (i cosiddetti cheminot), considerato da alcuni esperti e da una parte dell’opinione pubblica come un privilegio del passato.

Nato a inizio del ventesimo secolo per proteggere e stabilizzare l’impiego dei conduttori di locomotive, esso prevede la garanzia del lavoro e alcune condizioni particolari (automatismi di carriera, regime pensionistico speciale tra cui la possibilità di andare in pensione tra i 52 e i 57 anni, gratuità dei biglietti ferroviari, ecc.). Di là dagli aspetti più strettamente categoriali che la riforma tocca, essa viene presentata dai detrattori come il “cavallo di Troia” per destabilizzare il regime di lavoro statutario (che non avrebbe più senso in un sistema liberalizzato) e, più generalmente, la missione e il significato del servizio pubblico.

Ma chi sono i lavoratori statutari? Espressione che, non senza qualche ambiguità, traduce dal francese statut la qualificazione giuridica di quei lavoratori cui associamo in modo spontaneo la sicurezza dell’impiego, il significato di statutario può apparire tanto vago quante sono le interpretazioni veicolate dal senso comune così come dagli esperti, siano essi giuristi, sociologi o storici.

Henry Maine, giurista e antropologo, a inizio ventesimo secolo opponeva le società arcaiche in cui lo status legale degli individui determina le loro azioni sul piano economico, sociale e politico (grosso modo la società  d’ancien régime, il feudalesimo e il regime schiavistico) alle società cosiddette “libere”, in cui si assiste all’affermazione dell’individuo sul piano giuridico e all’autonomizzazione del diritto (secondo la formula from status to contract). In tal senso, le prime forme di contrattazione collettiva e di welfare state erano sinonimo di un ritorno al passato, caratterizzato cioè dal prevalere dello status legale sulla libertà contrattuale.

Qualche decennio più tardi, il sociologo Robert Castel non esitava a parlare di “status salariale” per indicare la condizione del lavoratore subordinato all’interno della “società salariale” consolidatasi lungo il ventesimo secolo. In tal senso, lo status non sarebbe altro che l’insieme delle regole che determinano la condizione dei lavoratori salariati e che limitano le libertà contrattuali in cambio di protezioni sociali garantite dallo stato.

È proprio la contrapposizione tra status e contratto a offrire gli strumenti concettuali per identificare la frontiera che separa due tipologie d’impiego che, grossolanamente, corrispondono al mondo pubblico e al mondo privato del lavoro. Le forme d’impiego statutarie si contrappongono alle relazioni di lavoro relative alla sfera mercantile e definite dall’istituto del contratto. La condizione statutaria deriva da un atto unilaterale dell’autorità pubblica (amministrazione o impresa) mentre il contratto è il frutto di una negoziazione tra le parti.

Dal punto di vista strettamente giuridico, quindi, il quadro sembra più chiaro. Lo status secondo i giuristi è l’insieme di regole giuridiche, d’origine legislativa e normativa, che fissano sotto forma di garanzie le condizioni d’accesso alla funzione o alla professione, le condizioni di lavoro, lo svolgimento della carriera, la disciplina del personale nel suo campo di applicazione.

Quindi questa nozione ricopre un largo spettro di situazioni: per esempio lo status della funzione pubblica dell’amministrazione statale (come i ministeri) si differenzia dalla funzione pubblica locale o da quella ospedaliera. In materia di sciopero, esiste un obbligo di servizio minimo che investe in maniera diversa i lavoratori, siano essi lavoratori negli ospedali, nei trasporti pubblici, nel servizio delle poste o altrove. Lo status, inoltre, può essere di diritto pubblico o di diritto privato a seconda delle situazioni del personale interessato. Sempre facendo riferimento all’esercizio dello sciopero, la maggior parte del personale delle imprese pubbliche, in Italia così come in molti altri paesi, ha uno status di diritto privato ma questi stessi lavoratori sono dispensati dal depositare un preavviso di sciopero. Non è, invece, il caso per quegli operai dello stato che lavorano in alcuni monopoli (per esempio le ferrovie dello stato prima della liberalizzazione). La tipologia delle forme di protezione statutaria varia in relazione alle logiche (strategiche, securitarie, fiscali e più in generale di servizio) che sottendono la “missione pubblica”.

Questa eterogeneità di posizioni chiama in causa la permeabilità delle frontiere e delle definizioni tra lavoro statutario e lavoro salariato, suggerendo invece la presenza di influenze reciproche, se non addirittura d’ibridazioni, tra le sfere del lavoro pubblico e privato, vale a dire la sovrapposizione, l’alternanza e/o il mescolamento delle logiche proprie del contratto e della condizione statutaria a seconda delle contingenze storiche, dei rapporti di forza tra gli attori sociali e della trasformazione del contesto giuridico-istituzionale. Vediamo un paio di esempi concreti di questo “gioco delle frontiere” – sempre relativamente al caso francese – che mostra, nello specifico, l’emergere di alcune linee di tensione attorno a forme di differenziazione non solo giuridico-normative, ma anche sociali, organizzative ed etniche.

I netturbini della città di Parigi per lungo tempo hanno beneficiato dello status particolare di “lavoratori della capitale”, ovvero di un regime statutario derogatorio (e relativamente più vantaggioso) legato al fatto che la capitale francese, fino al 1975, era gestita direttamente dalla prefettura. Ma negli anni sessanta e settanta, l’attrattività della professione è entrata progressivamente in crisi, perché offriva un trattamento economico inferiore a molti settori privati e perché l’immagine pubblica del mestiere era poco valorizzata. Le contropartite, come la sicurezza dell’impiego, non erano giudicate sufficienti. Si è così fatto ricorso ai lavoratori stranieri, lavoratori non titolari occupati per qualche mese e il cui impiego era caratterizzato da un forte turn-over. Si trattava, in gran parte, di immigrati provenienti dalle ex colonie (Algeria, Africa sub-sahariana), che però, proprio per il fatto di non godere della nazionalità francese, non potevano beneficiare dello status associato al mestiere di netturbino. Questa situazione di discriminazione ha alimentato diversi scioperi e movimenti collettivi che rivendicavano l’allineamento allo status riconosciuto agli altri lavoratori («à travail égal, rémuneration et conditions de travail égales»), contribuendo a smuovere le frontiere tra due gruppi di lavoratori separati non solo dall’aspetto giuridico ma anche dalle mansioni, dall’organizzazione del lavoro e… dalla nazionalità. Queste rivendicazioni perderanno d’efficacia negli anni ottanta e novanta, nel momento in cui la pressione della disoccupazione di massa e le operazioni di privatizzazione parziale del servizio di pulizia della città contribuiscono a modificare, di fatto, le condizioni d’accesso alla professione nonché la percezione pubblica del lavoro di netturbino. Vi è, in altri termini, un ritorno alla valorizzazione dello status associato al mestiere, testimoniato per esempio dalla tendenza a favorire – da parte dell’impresa municipale così come dei sindacati – il passaggio ereditario della professione.

Altro esempio. La vicenda dei ferrovieri di origine marocchina, gli chibani (capelli grigi in arabo), recentemente alla ribalta della cronaca economica, ci riporta al cuore della questione del lavoro statutario, ovvero la maniera in cui le “regole di diritto” sono implementate sulla base dei rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro, del tipo di organizzazione del lavoro e pure dell’uso dell’arma del diritto da parte degli stessi lavoratori. Dopo un lungo contenzioso giudiziario durato circa un decennio, 848 chibani hanno ottenuto un sostanziale indennizzo dalla giustizia francese (per un totale di 170 milioni di euro) per il fatto di essere stati discriminati nell’evoluzione della carriera e nei diritti maturati per la pensione. Assunti come lavoratori contrattuali negli anni settanta con un contratto di diritto privato «per lavoratori stranieri», l’accesso allo status di agente della Sncf era loro precluso. Conseguenza di questa “clausola della nazionalità” rispetto ai lavoratori francesi: gli chibani non potevano versare i contributi previdenziali presso l’istituto della società ferroviaria, non potevano contare sullo stesso sviluppo della carriera e, a parità d’età, non potevano beneficiare dello stesso livello di pensione. E tuttavia, il lavoro effettuato era sovente lo stesso di quello dei colleghi statutari. Una situazione che lascia pensare all’uso di dispositivi manageriali di differenziazione etnica nella gestione della manodopera, come peraltro avveniva nel medesimo periodo in altre realtà del settore pubblico, per esempio alla Régie Renault o nell’industria miniera nazionalizzata delle regioni del nord della Francia.

Come mostrano questi brevi esempi, la categorizzazione del lavoro indotta da una lettura d’ispirazione giuridica non va intesa come qualcosa di cristallizzato, di immutabile, bensì come qualcosa soggetto, nel tempo, a delle modificazioni. Ciò suggerisce di studiare gli istituti dello status e del contratto come dei processi, ovvero come la risultante di rapporti di forza, di negoziazioni, di pressioni provenienti anche e soprattutto dal basso, e non come una fatalità definita, una volta per tutte, dall’alto. In questa prospettiva, le nozioni di precarietà e di stabilità appaiono mobili, plastiche, e formano due poli di un rapporto inscritto in un ciclo storico più ampio, rinviando non a un dualismo pubblico/privato (status versus contratto) ma piuttosto a una sorta di continuum. E dunque la fine del lavoro statutario, così come annunciato dalle logiche neoliberiste di trasformazione dell’organizzazione del lavoro e delle forme di protezione sociale ad esso associate, non è affatto qualcosa di inevitabile o necessario.

 

Per approfondire:

- Robert Castel, Les Métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Paris, Fayard, 1995
- Marie Cartier, Jean-Nöel Retière, Jasmine Siblot (a cura di), Le salariat à statut. Genèse et culture, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2010
- Henry Maine, Ancient Law: Its Connection with the Early History of Society and its Relation to Modern Ideas, London, John Murray, 1861
- Laure Pitti, Catégorisations ethniques au travail. Une instrument de gestion différenciée de la main-d’œuvre, “Histoire & mesure”, n. 3-4, 2005, pp. 69-101