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Ottobre 2018

La storia e la scuola: un presente senza passato

del Direttivo SISLav

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La scorsa settimana ha suscitato sconcerto e preoccupazione nella comunità degli studiosi di storia l’intervento del MIUR (tramite circolare n. 3050 del 4 ottobre 2018 e il documento di lavoro della Commissione Serianni) sulle modalità di svolgimento dell’esame di Stato finale della scuola secondaria di secondo grado nel prossimo anno scolastico 2018-19. Intervento che dà seguito alla legislazione attuativa precedente (decreto legislativo 62/2017, ex legge 107/2015), la quale riduceva a due le prove scritte dell’esame di maturità. Come già successo in passato, circolare e documento arrivano ad anno scolastico avviato, applicandosi immediatamente senza nessuna fase transitoria per gli studenti e i docenti che si trovano ad affrontare l’ultimo anno delle superiori. Tale operazione viene oltretutto avviata senza nessuna riflessione sulle ragioni che hanno portato a modifiche sostanziali di una formula d’esame dalla vita tutto sommato breve; l’ultima riforma, infatti, risale alla legge 1/2007, anche se tutto l’impianto attualmente rivisto discende dalle riforme Berlinguer della fine degli anni ‘90. Questa mancata analisi e verifica del funzionamento pregresso del meccanismo di valutazione ha caratterizzato, peraltro, anche gli interventi normativi della ministra Fedeli e dei governi precedenti.

La modifica ministeriale, in particolare, porta alla soppressione della terza prova scritta interdisciplinare dell’esame di Stato e alla revisione della prima, ora articolata non più su quattro tipologie ma su tre. Fra i docenti di scuola e universitari non è passata inosservata la scomparsa – nella prima prova scritta – della tipologia dedicata a tematiche storico-politiche, secondo un’interpretazione restrittiva delle indicazioni di revisione date dal decreto legislativo 62/2017. Restando inalterata la tipologia letteraria di analisi del testo, la possibilità che una delle tracce proposte permetta un approccio storiografico ci potrà essere solo indirettamente, attraverso le altre due tipologie di scritti, saggio breve e tema di attualità. A differenza dell’esame finora in vigore, d’ora in poi la presenza della storia negli scritti della maturità potrà così essere solo occasionale e comunque in competizione con altre discipline (di ambito artistico, letterario, filosofico, scientifico, sociale, economico e tecnologico, a seconda degli indirizzi).

La storia non sarà più una delle materie trasversali nella costruzione delle competenze degli studenti, cosa paradossale, soprattutto alla luce della rilevanza affidata dalla stessa legislazione più recente alla formazione democratica e civile e alla cittadinanza. Una delle giustificazioni più gettonate per questo taglio drastico starebbe nel fatto che normalmente la tipologia scritta di storia avrebbe trovato scarso gradimento fra gli studenti. Nessuno si è interrogato, però, sul perché questo avvenga e su quale relazione vi sia con la possibilità effettiva di sviluppare una didattica della storia efficace nell’ultimo anno delle scuole superiori, capace di arrivare a toccare temi rilevanti e significativi più vicini alla sensibilità dei discenti. Su tutto questo hanno già espresso sinteticamente la loro opinione e le loro riserve diverse società scientifiche e la Giunta centrale per gli studi storici. Ovviamente, quasi per una regola non scritta del policy making su istruzione e ricerca invalsa negli ultimi decenni, è stato osservato che questi passaggi ministeriali avvengono senza che siano stati preventivamente consultati gli specialisti del settore, né sul versante scolastico né su quello universitario.

La Società Italiana di Storia del Lavoro (SISLav), oltre alla doverosa critica, vorrebbe però fare un passo in più, cioè contestualizzare tale azione all’interno di un processo più generale, segnato dallo svuotamento di senso della cultura storica e dell’approccio storico alla conoscenza cui da anni i cittadini assistono. Tralasciamo la perdita di peso sociale e di valore culturale che la riflessione storica – strumentalmente piegata spesso ad un uso pubblico distorto della memoria – ha subito in questo scorcio iniziale di secolo. Limitiamoci per ora al contributo che la scuola, cioè l’istituzione principe che dovrebbe garantire la trasmissione e l’elaborazione dei saperi, paradossalmente si è trovata a dare suo malgrado in termini di politiche culturali e organizzative imposte dall’alto. È inutile chiedersi perché gli studenti ritengano poco appetibile la storia in sede di esame, quando questa disciplina è stata sempre più svalorizzata, spezzettata e isolata nel quadro dell’offerta didattica. La SISLav, a tal proposito, avanza i seguenti spunti di riflessione:
- la scelta di limitare la dimensione storica nella scuola primaria alla preistoria e all’età antica ha leso la sensibilità e la percezione dell’infanzia verso la comprensione dei fenomeni storici; così si sono abbandonate tradizioni di sperimentazioni didattiche costruite sul rapporto fra grande storia, identità locale e memoria del ‘900, sottraendo oltretutto premesse di conoscenza rilevanti per la storia insegnata nella scuola secondaria di primo grado che parte di fatto dal Medioevo;
- i saperi storici e geografici da tempo non costituiscono più sul piano formale l’arena di costruzione delle competenze fondamentali degli studenti, non solo nella scuola di base ma anche nella scuola secondaria. È una marginalizzazione portata a compimento programmaticamente dalla cosiddetta “Buona Scuola” e dalla legge 107/2015; per altro la graduale scomparsa della geografia dall’istruzione secondaria superiore è premessa per il declino della storia, nella misura in cui non esiste conoscenza storica senza la dimensione spaziale;
- l’abbinamento conseguente con la geografia in quell’ibrido disciplinare non meglio definito che è rappresentato dalla “geostoria” nel biennio delle superiori ha indebolito ambedue le forme del sapere;
- la riduzione delle ore di storia negli istituti professionali segnala anche il carattere socialmente differenziale di certi orientamenti;
- le incertezze e le ambiguità nei meccanismi di formazione universitaria, specializzazione e selezione degli insegnanti, contraddittori nelle loro instabili successioni nell’arco di un ventennio (SSIS, TFA, FIT, abilitazioni per specializzazione vs. abilitazioni per concorso ordinario, ecc.) hanno contribuito ad aggravare il mancato coordinamento fra la definizione dei percorsi di laurea magistrale e quello delle classi di abilitazione all’interno dell’ossessivo e spesso inconcludente processo riformatore che ha attraversato la scuola e l’università negli ultimi anni;
- la crescente contendibilità degli spazi di reclutamento all’interno delle classi abilitanti ai danni degli storici di formazione fa sì che l’insegnamento di questa materia sia terra di conquista per altre discipline (da sempre chi insegna storia a scuola è in misura minima un laureato in storia), fenomeno figlio della mancata specializzazione delle discipline scolastiche che le ultime modifiche in materia hanno accentuato.

Sono solo alcuni dei segnali che mostrano le difficoltà della storia nello spazio pubblico odierno e l’incapacità (o mancata volontà) dimostrata dal governo della scuola di contrastare questa svalorizzazione. Ci sono ragioni contingenti, di cui il basso finanziamento dell’istruzione costituisce una cornice anche nella cronaca di questi ultimi giorni; ci sono dinamiche di più lunga lena, in termini di potere fra le aree disciplinari collegate ai meccanismi di riallocazione delle risorse in campo accademico, che penalizzano in generale le scienze umane e la storia in particolare; ci sono anche ragioni endogene al mondo universitario, che ha sempre sottovalutato la rilevanza degli sbocchi occupazionali dei laureati in storia e delle modalità specifiche di formazione, addestramento e orientamento professionale che gli studi richiederebbero per accedere al lavoro dell’insegnamento.

La preoccupazione però è più grande degli aspetti settoriali. Anche in questi segnali si conferma un dato che è rappresentativo di un fenomeno sociale tale da investire le forme e le strutture di come produciamo e riproduciamo il nostro sapere e in cui la dimensione storica non è più percepita come pregnante, fondativa. Stiamo assistendo alla perdita di profondità critica degli studi sui fatti umani, ormai immersi nel vuoto pneumatico a-spaziale e a-temporale dell'eterno presente e dell'incipiente futuro. Spazio (geografia) e tempo (storia) non risultano più centrali nella formazione né sono più ritenuti utili a contestualizzare la conoscenza. L’indifferenza diffusa contribuisce a questa crisi e non è solo italiana, ma a sua volta essa è generata da precise scelte che, passando dalla scuola, la amplificano. Al di là del biasimo, come storici – e come storici del lavoro in particolare – dobbiamo cominciare a interrogarci su cosa sta succedendo e su cosa è possibile fare. Cominciamo a discuterne, non in astratto ma là dove la storia incontra le coscienze e le personalità in formazione, e insieme alle rappresentanze di docenti e studenti chiediamo, nel frattempo, di rivedere ed emendare sia la circolare 3050 sia il documento della Commissione Serianni.