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Febbraio 2017

Nessuna idea nuova per il diritto del lavoro italiano 

 di Antonio Loffredo

 

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Una certa insoddisfazione caratterizza il rapporto di molti giuristi con il diritto del lavoro contemporaneo, che io stento a riconoscere come la materia a cui mi ero appassionato in gioventù; tale sgradevole sensazione mi ha fatto avvicinare alla storia di questo diritto, cedendo inizialmente alla tentazione di rifugiarmi in essa, nella speranza di incontrarvi principi e valori che non ritrovo attualmente. Invece, così come il protagonista del film Midnight in Paris di Woody Allen quando viaggia negli anni ’30 della Parigi da lui mitizzata scopre che chi ci viveva sognava invece un’altra epoca precedente altrettanto idealizzata, anche io ho dovuto smettere di mitizzare la materia e accettare che il diritto del lavoro non era nato come strumento per tutelare esclusivamente i più deboli, ne ho colto la ratio compromissoria, la matrice politica ambivalente che contiene al suo interno la “formalizzazione giuridica dei rapporti di potere” (Garofalo 1999), il duplice e contraddittorio obiettivo di dare voce al lavoro ma anche di non fargliela alzare troppo (Romagnoli 1995). Non è un caso che la storia del proprio diritto se la siano scritta per lungo tempo gli stessi giuslavoristi, forse anche per provare a dare origini nobili a una disciplina giovane e operaia, con un’operazione simile a quella di Virgilio che con l’Eneide aveva avuto il compito di attribuire eroiche e antiche radici alla stirpe augustea.

Il metodo storico mi ha aiutato, invece, proprio a ridimensionare il ruolo dei giuristi nel suo sviluppo, imparando a leggerne la storia come quella di un diritto che ha sì trovato nei suoi studiosi dei “fini tessitori” (Romagnoli 2009) ma ha visto i suoi protagonisti più innovatori (ovviamente non giuristi) crearlo al di fuori delle aule della legge. Tale insegnamento è molto utile nell’interpretazione del presente, soprattutto in un momento di crisi economica e di gravi difficoltà sistematiche della materia, perché mi ha ricordato che il diritto costituisce un elemento secondario delle vicende sociali, una sovrastruttura sulla quale non riporre eccessive aspettative. Se questo è vero, allora, neppure lo si può caricare di troppe responsabilità, come quando gli si imputa la colpa di creare disoccupazione con i suoi vincoli, che altro non sono se non diritti faticosamente guadagnati con decenni di lotte.

Per questi motivi, la costruzione di un “nuovo” diritto del lavoro viene ammantata spesso dall’obiettivo di una modernizzazione, obiettivo piuttosto inquietante se declinato in assenza di memoria storica; infatti, diversi progetti politici o riforme normative (sia nazionali sia europee) del diritto del lavoro dichiarano espressamente di tendere a una sua modernizzazione (dal Libro Verde dell’UE sulla flexicurity al Jobs act italiano) ma la loro idea di modernità assomiglia molto a quella del diritto del lavoro dei primi decenni del XX secolo.

Proprio al diritto del lavoro era stato attribuito il compito di fare da modello in base al quale costruire un nuovo tipo di società (Baylos Grau 1991): “il paese deve avere il volto del lavoro” dichiarava, non senza una certa enfasi, Giorgio La Pira nell’Assemblea Costituente per mostrare il luogo privilegiato che al lavoro e al suo diritto veniva riservato dalla Carta fondamentale nel modello di società democratica che si stava disegnando (M.D. Santos Fernandez-A. Loffredo 2014). È evidente, pertanto, che il declino del loro valore riflette anche quello delle democrazie e delle Costituzioni che le hanno tenute vive e unite. La crisi dello Stato Sociale degli ultimi decenni ci ha portato, lentamente ma inesorabilmente, verso un dominio incontrastato di un (presunto) realismo della cultura giuridica (Vardaro 1989) che, in nome della tutela del mercato, ha radicalmente trasformato la materia, allontanandola dall’impulso fondamentalmente progressista proveniente dall’attuazione del principio costituzionale di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, c. 2.

Il diritto del lavoro repubblicano aveva imboccato un cammino egualitario che, anche nel suo periodo d’oro, culminato con lo Statuto dei lavoratori nel 1970, era stato d’oro solo per alcuni perché aveva approntato una tutela pensata prevalentemente per un lavoratore maschio, assunto a tempo pieno e indeterminato da un’azienda medio-grande del centro/nord (Ghezzi-Romagnoli 1990), escludendo dalla sua protezione intere categorie di lavoratrici e lavoratori che, con il passare degli anni, si sono sentiti abbandonati al loro destino anche da parte del soggetto che aveva la responsabilità di rappresentare il lavoro nella società: il sindacato.

Del resto, il diritto del lavoro italiano porta con sé questo vizio fin dalle origini, cioè da quando scelse come interlocutore privilegiato un lavoratore prototipo che non rappresentava una realtà maggioritaria nel paese; tale opzione, tuttavia, era legata al (non trascurabile) dato che questa categoria di prestatori era anche quella che riusciva meglio ad aggregare collettivamente le proprie rivendicazioni (Gaeta 2013). Peraltro, nonostante quanto sostenuto dalla retorica leghista pseudo-federalista, vivere in alcuni territori del nostro paese ha da sempre comportato anche differenze di tutele sia normative sia economiche; allo stesso modo, i salari (e le condizioni di lavoro) femminili e maschili non si sono mai equiparati nonostante le formali enunciazioni contenute nelle Carte costituzionali e nei Trattati internazionali. Questo tratto escludente del diritto del lavoro repubblicano può anche parzialmente spiegare il motivo per cui, quando negli anni ’90 è iniziata la fase del graduale smantellamento delle tutele, in nome di una normativa più flessibile che avrebbe garantito maggiore occupazione, non ci sia stata una sollevazione popolare: una parte non indifferente del mondo del lavoro italiano non si sentiva (giustamente) tutelata da quel diritto, a tal punto da vedere (a torto) chi rientrava nel suo ambito di applicazione non come dei normali cittadini titolari di sacrosante garanzie giuridiche ma come dei privilegiati e chi li rappresentava come dei soggetti del potere invece che di contropotere.

Tale sensazione di disagio è stata efficacemente cavalcata da chi ha voluto giocare politicamente su questa dualità di tutele ed è stata anche teorizzata a livello globale contrapponendo ai disoccupati l’efficace immagine della cittadella degli insiders; la sua stessa esistenza, secondo i sostenitori di questa teoria, avrebbe impedito di tutelare chi non rientrava in essa (Ichino 1996), quasi come se il riconoscimento dei diritti fosse legato ad una somma algebrica superata la quale non sarebbe possibile garantire ulteriori diritti. Questa retorica alternativa dei diritti si scontra frontalmente, peraltro, con le analisi di autorevoli studiosi dei diritti sociali fondamentali (Ferrajoli 1999; Abramovich-Curtis 2006), secondo i quali tale riconoscimento deve necessariamente avvenire in maniera universale se vuole essere effettivo.

Questo percorso di de-costituzionalizzazione del diritto e del contratto di lavoro è stato seguito anche dal legislatore del nuovo millennio, che ha scelto di ignorare la possibilità di un riconoscimento dei diritti fondamentali del cittadino e del lavoratore che prescinda dalla tipologia di contratto stipulato, scelta che avrebbe potuto costituire una modalità più efficace ed equa di tutela per i lavoratori moderni (Romagnoli 1997). Il doppio binario di tutela, uno per il lavoratore prototipico e l’altro per alcune figure sociali con maggiori difficoltà nel mercato del lavoro (donne, giovani, meridionali, lavoratori delle piccole imprese, extracomunitari), ha visto questo secondo binario modificare il proprio connotato caratteristico negli ultimi decenni a seguito dell’identificazione tra lavoro e contratto; esso si è spostato da quelle categorie sociali a una serie di tipologie contrattuali (precarie), abitate prevalentemente dagli stessi gruppi, che hanno attribuito identità sociali penalizzanti e si sono sostituite a quelle classiche derivanti dalla professionalità di ognuno. Infatti, se la condizione professionale aveva sempre prevalso su altri aspetti della persona, a tal punto che nella società si veniva identificati attraverso il proprio mestiere – si diceva di una persona che è un operaio, è un benzinaio, è un professore – attualmente, nella percezione sociale, un altro elemento è considerato maggiormente indicativo della situazione personale e, in fondo, di vita degli individui, ovvero la propria condizione contrattuale: si dice sempre più spesso che qualcuno è un interinale, un co.co.co., un free lance, creando notevoli problemi identitari e una significativa frammentazione dell’interesse collettivo dei lavoratori, tradizionalmente formatosi intorno alle professionalità e all’esistenza di diritti soggettivi uguali o simili.

Questo fenomeno dimostra come negli ultimi decenni si sia accentuata la sostanziale identificazione tra contratto, lavoro e la stessa persona (Simitis 1990), determinando conseguenze sociali e giuridiche sempre più gravi. L’ultima dimostrazione in ordine di tempo di questa assoluta egemonia culturale del contratto individuale nel dibattito giuridico e politico è la riforma del diritto del lavoro del governo Renzi, denominata jobs act che si è soffermata ancora una volta sul lato dell’offerta di lavoro: oltre all’ennesima modifica in pejus di alcuni contratti già pluri-riformati, come quello a termine e l’apprendistato, essa ha introdotto il cd. contratto a tutele crescenti, un beffardo gioco di parole contenente non a caso il sostantivo contratto, pur non trattandosi di una nuova tipologia contrattuale bensì di una semplice (ma profonda) riduzione delle tutele contro il licenziamento ingiustificato. Il provvedimento è molto grave non solo perché determina una notevole regressione nelle tutele delle lavoratrici e lavoratori italiani ma perché esso incide sulle conseguenze di un atto illegittimo: lo pseudo-nuovo contratto si può sciogliere ogni volta che esista una causa considerata legittima dall’ordinamento ma, pagando un piccolo indennizzo, anche per motivi che l’ordinamento giuridico ritiene illegittimi.

Peraltro, l’effetto spiazzante della norma si collega anche a una sua irrazionalità intrinseca, in quanto le differenti tutele contro il licenziamento illegittimo sono determinate dal giorno di assunzione: infatti, la nuova e più ridotta tutela riguarda solamente i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 mentre a tutti gli altri si continua ad applicare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, secondo un criterio assolutamente casuale e fortemente discriminatorio per le nuove generazioni.

Il jobs act è un altro frutto amaro del predominio della retorica neoliberista nel dibattito giuslavorista, deleterio sul piano delle tutele e inefficace sul piano occupazionale. L’aumento irrisorio dell’occupazione a tempo indeterminato registrato nel 2015, infatti, si doveva fondamentalmente a una stabilizzazione di lavoratori atipici (ora però liberamente licenziabili con un piccolo indennizzo) ed era legato ai notevoli sgravi contributivi finanziati con la fiscalità generale; prova ne è il fatto che i suoi effetti sono stati percepiti sin dai primi mesi dell’anno, quando sono partiti gli incentivi ma ancora non era entrato in vigore il contratto a tutele crescenti, e si sono interrotti appena gli incentivi sono finiti. A prescindere da ciò, comunque, la fallacia della ricetta deriva principalmente dal fatto che si tratta, ancora una volta, di un approccio che vuole incidere sul lato debole del rapporto, il lavoratore, senza alcuna possibilità di successo neanche a breve termine, vista l’esperienza negativa di oltre venti anni di politiche occupazionali dello stesso genere, che hanno prodotto solo disoccupazione e precarietà.

 

Riferimenti bibliografici

Abramovich- C. Curtis 2006
       Los derechos sociales en el debate democratico, Ediciones GPS, Madrid

Baylos Grau 1991
       Derecho del trabajo: modelo para armar, Trotta, Madrid

Ferrajoli 1999
       I diritti fondamentali nella teoria del diritto, in «Teoria Politica», p. 49

Gaeta 2013
       Il lavoro e il diritto. Un percorso storico, Cacucci, Bari, p. 20

Garofalo 1999
       Un profilo ideologico del diritto del lavoro, in «Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali», p. 13

Ghezzi-Romagnoli 1990
       Il rapporto di lavoro, Zanichelli, Bologna, p. 58

Ichino 1996
       Il lavoro e il mercato, Mondadori, Milano

Romagnoli 1995
       Il lavoro in Italia, il Mulino, Bologna, p. 21

Romagnoli 1997
       Dal lavoro ai lavori, in «Lavoro e diritto», p. 3

Romagnoli 2009
       Giuristi del lavoro, Donzelli, Roma, 2009

Santos Fernandez-Loffredo 2014
       La vita del paese deve avere il volto del lavoro, in L.  Gaeta (a cura di), Prima di tutto il lavoro. La costruzione di un diritto all’Assemblea Costituente, Ediesse, Roma, pp. 55 ss.

Simitis 1990
       Il diritto del lavoro e la riscoperta dell’individuo, in «Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali», I, pp. 113 ss.

Vardaro 1989
       Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in L. Gaeta-A.M. Marchitiello-P. Pascucci (a cura di), Itinerari, Franco Angeli, Milano, 262 ss.