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Marzo 2017

Passaggi d'epoca 

 di Umberto Romagnoli

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Nell’arco di un secolo, o giù di lì, il sistema produttivo ha sprigionato coercizioni di segno opposto – uniformante l’una, deflagrante l’altra – che hanno gettato un’infinità di uomini e donne nella condizione di aggirarsi con mappe invecchiate in un mondo divenuto improvvisamente ostile. La prima si dispiegò in vigenza delle codificazioni dell’800; la seconda, che ha cominciato a manifestarsi nella lunga fine-secolo che abbiamo appena vissuto, non ha ancora raggiunto il suo esito conclusivo. Entrambe trasgressive, sono entrambe vincenti. «Non ci sono condizioni alle quali l’uomo non possa assuefarsi – si legge in una pagina di Lev Tolstoj –, specialmente se vede che tutti coloro che lo circondano vivono nello stesso modo».

Per questo è realistico presagire che anche l’attuale fase di transizione finisca per concludersi come si concluse quella precedente, al termine della quale l’organizzazione dell’intera società si rispecchiò nel modello dell’organizzazione produttiva dominante. D’altronde, posto che nella prima modernità la società si riorganizzò mediante la giuridificazione di regole del lavoro ispirate al principio di razionalità materiale incorporato nelle strutture della grande produzione di serie, perché la società post-industriale non dovrebbe adeguarsi ad un diverso modo di produrre e di lavorare? La domanda non è soltanto retorica. Il fatto è che la storia non si può esorcizzare.

Da noi, la coercizione uniformante che aveva frantumato il divieto legale di obbligarsi ex contractu a «svolgere la propria opera all’altrui servizio» senza limiti di durata (art. 1628 c.c. 1865) venne legalizzata dal codice civile del 1942: «il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto» (art. 2097).  Peraltro, già a cavallo tra l’800 e il ‘900 il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato si era guadagnata la desiderabilità sociale che non poteva avere agli occhi degli artigiani (o discendenti da artigiani) che, ammassati nelle manifatture, idealizzavano il lavoro libero-professionale di cui avevano memorizzato i piccoli privilegi e gli status-symbol che ne facevano un’aristocrazia senza quarti di nobiltà.

Ciò vuol dire che, a legislazione invariata, la prassi delle assunzioni sine die in deroga al divieto legale di rifeudalizzare su base consensuale i rapporti sociali si era generalizzata in ragione dei concreti vantaggi che ne ricavavano i diretti interessati. Da un lato, l’imprenditore arricchiva la cassetta degli attrezzi per governare le maestranze in conformità a regole che normalizzavano l’uso standardizzato della forza-lavoro nelle macro-strutture della produzione manifatturiera. Dall’altro, il dipendente trovava motivi di soddisfazione nella ricompensa che riceveva per i sacrifici della libertà personale che doveva sopportare per introiettare l’imperativo della regolarità dei ritmi del lavoro etero-organizzato e adattarsi alle rigidità della disciplina della fabbrica. La ricompensa consisteva nell’insieme dei benefici ricollegabili alla tendenziale stabilità del rapporto contrattuale: continuità del reddito, prospettive di carriera, fiducia nel futuro e dunque, in una parola, sicurezza. 

Non per caso, la coercizione uniformante non incontrò solamente passive resistenze. Infatti, alla creazione del nuovo ordine parteciparono attivamente coalizioni degli stessi individui che non potevano fare altro che subirlo. Diversamente, resterebbe un mistero come mai il contratto collettivo sia stato la creatura giuridica più corteggiata e coccolata dai governanti della prima metà del ‘900. Essi avevano lucidamente intuito come una regolazione consensuale che mimava la legge e ne mutuava la sostanza autoritaria fosse esattamente ciò che occorreva per promuovere la diffusione di un modello di contratto/rapporto di lavoro afflitto da un largo deficit di condivisione sociale: semplificava i problemi della gestione della manodopera e, al tempo stesso, offriva la possibilità di comprarne il consenso mediante prove concrete di come una sciagura possa trasformarsi in un’opportunità.

Anche la coercizione deflagrante è stata legalizzata, in un contesto fertilizzato da quote di consenso sociale canalizzato per via collettivo-sindacale. E questo, per quanto non sia risolutivo, non è un trascurabile indizio: come l’indesiderabilità sociale del contratto di lavoro a tempo indeterminato ha potuto soltanto ritardare la sua legalizzazione, così la sua  desiderabilità sociale potrebbe non bastare ad impedirne il tramonto. Il tragitto, però, è appena iniziato, come si desume dal fraseggio del legislatore che, quantunque la flessibilità coi suoi sinonimi o derivati padroneggi il discorso pubblico e privato, continua a ripetere il mantra del “rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro” e non si trattiene dal qualificare espressamente come “dominante” il contratto che lo istituisce. Il fraseggio è spregiudicato, visto che le statistiche dell’Istat testimoniano la vitalità dello smisurato sventagliamento di forme di rapporto di lavoro distanti dal modello standard, ma non è delirante.

La verità è che in una visione di breve periodo – l’unica a trovare posto nei programmi elettorali – agli attuali governanti è meglio occultare che, come intuì Luciano Gallino, la coercizione deflagrante potrebbe finire per fare dei contratti di lavoro sine die un “numero chiuso”. È conveniente perché è rischioso eccitare l’istinto di sopravvivenza che si risveglierebbe in una quantità incalcolabile di individui se si sentissero dire che le basi materiali della cultura del lavoro possibile in una società industriale si stanno sgretolando e che si volta pagina. Preferiscono pensare che cicli avversi si sono presentati anche in passato, ma la catastrofe non c’è stata. In effetti, non poter fare il medesimo lavoro per tutta la vita nel medesimo luogo oggi è traumatizzante quanto lo è stato, a ridosso della rivoluzione industriale, non poter lavorare se non alle dipendenze altrui. Insomma, ha osservato Aris Accornero, sentirsi dire che «è la crisi a chiedere la flessibilità e a riesumare l’instabilità» risparmia l’angoscia di sapere che l’una e l’altra sono «richieste dalla fine del lavoro massificato e uniformato, quello che aveva dato tante sofferenze ma anche tante certezze».

Del resto, anche i documenti dell’epoca in cui infuriava la coercizione uniformante rivelano la continuata presenza e persino un eccesso di ruolo della locatio operis, ossia del tradizionale veicolo del lavoro autonomo, nello stesso momento in cui ne certificano la corruzione nel cottimo come tecnica retributiva. Per questo, in altra occasione ho parlato di «paranoia eufemistica» come cifra stilistica delle regole del lavoro nell’età della proto-industria. L’uso inflattivo della primitiva figura negoziale dà ragione a Karl Polanyi: «ciò che è inefficace nell’arrestare completamente una linea di sviluppo non è per questo completamente inefficace». Specialmente quando il volante della storia è in mano di altri.

Sta di fatto che, qui ed ora, esistono milioni di dipendenti over 50-55 anni, cioè il grosso della popolazione attiva, che l’attaccamento alla routine lavorativa – per logorante che possa essere – ha reso ostili a pratiche di flessibilità. Le subiscono come una minaccia e le vivono come un dramma; altrimenti, sarebbero obbligati a cambiare non solo il modo di lavorare, ma anche il modo di pensare. Ecco cosa è e a cosa serve lo studiato fraseggio legislativo smentito dalla realtà occupazionale. È un sedativo che viene somministrato per rassicurare. Tranquillizzare. Far sognare che la flessibilità buona o è quella degli altri o è propaganda terroristica. D’altra parte, è stato Fernand Braudel a dirci che «la società è sempre piena di ombre antiche, di miti, di fantasmi» e i giuristi dovrebbero sapere che la regolazione del lavoro, come peraltro l’interpretazione che ne danno, ha contribuito a far vivere la società anche in ritardo, magari ricorrendo a finzioni, espedienti, stratagemmi. Il contributo è importante perché aiuta ad attenuare lo spaesamento fornendo soluzioni note a problemi ignoti; provvisorie perché disfunzionali al progetto di società che si sta realizzando, ma capaci di ammorbidire l’impatto del nuovo che avanza.

Pertanto, quello cui assistiamo è un acceso scontro per l’egemonia culturale della libertà dell’agire economico, dove il massimo di libertà coincide con la libertà di monetizzare tutto e dunque di rimercificare il lavoro, riportando alle origini il diritto che da lui prende il nome. Le sue fiamme quindi non potevano non lambire l’istituto-simbolo delle sicurezze giuridiche a cui, dopo lo statuto dei lavoratori, permetteva di accedere (sia pure con numerosi distinguo) il contratto di lavoro a tempo indeterminato: la reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato. La quale non è mai stata la manifestazione di morbosità ideologica che denunciano in molti. Piuttosto, è la secca traduzione dell’idea che gli economisti si sono fatta del lavoro e che piace tanto anche agli imprenditori.

Se il lavoro è un fattore della produzione che si compra e si vende, perché stupirsi che al lavoratore sia riconosciuta la facoltà di azionare un meccanismo d’intensità protettiva ricalcato su quelli di cui, in base all’ordinamento civilistico e processualistico, si giova il proprietario per riprendersi la res che gli è stata tolta abusivamente? Il fatto è che l’istituto della reintegrazione rappresenta la più acuminata ritrascrizione in chiave normativa del generale convincimento che il lavoro è un bene, l’ingiusta privazione del quale mette il comune mortale non solo nella condizione di non avere: perde il senso della propria utilità e, con esso, il senso dell’auto-stima che può dare la possibilità di sbarcare il lunario coi propri mezzi. È innegabile infatti che innumerevoli generazioni siano state educate a pensare che niente può essere considerato più vitale della possibilità di lavorare e di conservare lo status di lavoratore. Per questo, è sembrato a lungo impossibile sopprimere l’art. 18 varato nel 1970 e rimaneggiato vent’anni dopo.

Se decidesse di portare sulle scene il massacro legislativo di cui è stato oggetto nel giro di tre anni (tra il 2012 e il 2015) un commediografo incline ad imitare G. Bernard Shaw ne suddividerebbe la narrazione in due parti: nell’atto I racconterebbe la dissacrazione della norma statutaria e nell’atto II la sua eutanasia, accompagnata da uno straziante addio.

Ci sarà l’occasione per farne il riassunto.