Al presente

Una memoria europea della schiavitù?

di Myriam Cottias

 

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L’importanza della storia della schiavitù nello sviluppo dell’Europa è innegabile. Questo a tutti i livelli di valutazione. Il primo è economico: lo zucchero, il caffè e il cioccolato prodotti dagli schiavi/e nelle colonie europee nell’Atlantico e nell’Oceano Indiano, nel XVII secolo, hanno costruito la potenza economica dell’Europa equilibrando le bilance commerciali dei principali paesi schiavisti. I grandi conflitti europei e soprattutto la guerra dei Sette Anni (1756-1763) hanno avuto conseguenze coloniali che hanno giocato un ruolo importante nella formazione delle frontiere dei paesi europei.

Il secondo aspetto riguarda il carattere di massa dei fenomeni storici indotti dall’instaurazione delle colonie schiaviste, ossia nello specifico la tratta del commercio degli esseri umani: tra il XVI e il XIX secolo, più di 12 milioni di donne e uomini, ai quali si aggiungono 7 milioni di persone morte nei tragitti a piedi che le portavano nei porti dell’Africa, sono state deportate dall’Africa dell’Ovest. Tuttavia, è tra il 1700 e il 1850 che il 72% di loro attraversa l’Atlantico, il Middle Passage, mentre un milione di uomini e donne vengono deportati nell’Oceano Indiano. Fino all’inizio del XVIII secolo, la tratta è organizzata da un atto di commercio internazionale spagnolo, l’«Asiento». Dietro pagamento di un canone, la Spagna attribuisce a privati o a compagnie di commercio, l’esclusiva sul mercato degli schiavi. Il Portogallo, l’Inghilterra, l’Olanda e la Francia l’hanno detenuto successivamente. Tutti i paesi europei partecipano, in effetti, a questo sinistro commercio grazie alla circolazione di capitali che concorrono all’organizzazione delle campagne di tratta o che le assicurano contro i rischi connessi alle operazioni.

Il terzo livello ha delle conseguenze sino al periodo contemporaneo. Dalla fine del XVIII secolo, la sistematizzazione del lavoro degli schiavi nelle economie moderne, fondate sulla circolazione di persone e di capitali, ha indotto a una concezione del mondo eurocentrica in rapporto alla quale si definiscono le periferie. L’Europa è il centro di tutti gli ambiti del pensiero e delle decisioni sulla concezione dell’alterità. L’esperienza coloniale schiavista, in effetti, dona una nuova semantica alla nozione di razza. Da un marcatore di appartenenza a un gruppo, a un insieme, il termine inizia progressivamente a designare delle persone che hanno la «stessa» apparenza fisica e, all’origine,  lo «stesso» statuto civile, quello di schiavo o di proprietario di schiavi. Combinato comunque allo statuto servile o a quello di «libero», il termine ha fondato localmente, in ogni colonia delle Americhe, una gerarchia razziale secondo un continuum in cui il «Bianco-libero-proprietario di schiavo» è messo in posizione di superiorità rispetto al «Nero-schiavo» collocato in basso alla scala. Nei discorsi, tutte le categorie intermedie sono decise e situate in base a dei criteri in cui il fattore razziale (più o meno «bianco») preme sul fattore sociale (più o meno ricco). Questa identità, sovrapposizione perfetta tra colore, statuto civile e razziale, è di fatto complicata. Attraverso il métissage delle popolazioni, le eredità di proprietà, le competenze economiche, i talenti e l’inventiva individuale, la fluidità di fatto tra individui di statuto civile differente, le violenze sessuali esercitate contro le donne schiave, sono emerse e sono state create categorie complesse.

La Santo Domingo del XVIII secolo ha conosciuto degli affrancati, «liberi di colore» infinitamente più ricchi dei «Bianchi».Nella metà del XIX secolo, in Martinica e Guadalupa, gli schiavi possedevano altri schiavi. Alcuni «Bianchi» dipendevano dal salario che il loro schiavo guadagnava esercitando dei piccoli mestieri nel milieu urbano. Nell’età contemporanea queste categorie razziali costruite nel contesto schiavista polarizzano le analisi e le esperienze sociali, anche se la filiazione di queste tassinomie non è stata per molto tempo riconosciuta.

Dalla storia alla memoria passando per l’oblio

Dalla fine degli anni ’90, l’«oblio» e il «silenzio» sono state delle leve che hanno fatto emergere e rivendicare la «memoria della schiavitù» come memoria viva, radicata nel passato ma con un significato che si perpetua nel presente. A livello delle varie nazioni, questa memoria si è posta come riconoscimento necessario per ricostruire una coerenza nazionale, sotto la pressione delle eredità della storia della schiavitù e della colonizzazione. Ovunque ha avuto conseguenze, come il rivendicare egualitarismo e l’interrogarsi sull’organizzazione concreta del potere. A livello globale la riscoperta della memoria ha permesso di denunciare le asimmetrie dei rapporti politici e culturali nel mondo e ha polarizzato, con i pro e i contro, una identità «nera» sovranazionale. Si sono così formulate richieste che si collocano come transnazionali, basandosi sul concetto di «diaspora africana».

Rompere il silenzio è uno degli argomenti centrali del programma dell’UNESCO, «La Route de l’Esclave : résistance, liberté, héritage», lanciato nel 1994 a Ouidah, in Benin, grazie alla richiesta dello stato di Haiti. Il programma, dalla sua creazione, ha lanciato una sorta di tabella di marcia della memoria. In Europa, la messa sotto silenzio, a livello istituzionale, dei fenomeni di tratta e di schiavitù è stato concomitante con il fatto che il continente europeo si è costituito come sfera emblematica dell’abolizionismo e della libertà come valore etico. Nel 2007 in Gran Bretagna, nel momento del bicentenario dell’abolizione della tratta degli Africani, il paese si reinventa come «abolizionista» e non come «schiavista». La memoria nazionale si è costruita in conformità con l’immagine di un paese campione nella morale abolizionista che ha mostrato il cammino alle altre potenze occidentali. In Francia la tratta e la schiavitù atlantica razzializzata non è stata inserita nei discorsi sulla costruzione dello Stato e della Nazione, mentre l’abolizione della schiavitù viene presentata come una delle pietre angolari della Repubblica francese.

Con delle temporalità differenti, a seconda dei paesi, da trent’anni a questa parte, la pressione delle associazioni di uomini e donne reclama la storia della schiavitù denunciandone l’oblio; quindi sono state fatte pressioni in diversi Stati perché questa storia venga riconosciuta, in nome dell’uguaglianza tra tutti i cittadini. Istanze simili sono state formulate a livello europeo.

Le commemorazioni: un tempo efficace della memoria?

Le commemorazioni costituiscono una delle risposte delle istituzioni internazionali, europee e nazionali, alle domande di riconoscimento del crimine della tratta e dello schiavitù. Dagli anni Duemila, il numero di date commemorative è aumentato in modo molto importante. A livello internazionale, il 25 marzo è la Giornata internazionale in memoria delle vittime della schiavitù e del commercio degli schiavi transatlantici per le Nazioni Unite, mentre il 23 agosto è la Giornata internazionale per la commemorazione della tratta degli schiavi e della sua abolizione dell’UNESCO (in riferimento al sollevamento degli schiavi di Santo Domingo nel 1791).

A livello europeo, la scelta da parte di ogni stato è stata conflittuale, rivelando una tensione tra i dispositivi istituzionali e le associazioni dei « discendenti degli schiavi ». In Francia, il regime memoriale sulla schiavitù coloniale riposa su sei testi legislativi e normativi, ma istituisce il 10 maggio come «Journée des Mémoires de la Traite, de l’Esclavage et de leurs Abolitions» in seguito alla legge del 10 maggio 2001, che «riconosce la tratta negriera e la schiavitù atlantica e nell’Oceano Indiano come crimine contro l’umanità» ; ma un’altra data nazionale in omaggio delle vittime della schiavitù coloniale, il 23 maggio, è stata aggiunta da poco.

I Paesi Bassi hanno istituito ogni 1° luglio le keti-koti (dai fers brisés del Suriname), come commemorazione della fine della schiavitù nella ex Guyana olandese e nelle Antille Olandesi. In Gran Bretagna, il Black History Month permette di organizzare eventi culturali senza che ci sia una data nazionale di commemorazione. L’insieme di eventi ufficiali costituisce un riconoscimento politico, ma è difficile misurarne gli effetti sociali. La commemorazione non tiene tanto in considerazione i ricordi portati dagli eredi di questa storia, ma esprime l’uso politico che si fa del passato. Più che una geografia globale della memoria della schiavitù, che creerebbe una condivisione di conoscenze e di esperienze, le commemorazioni sembrano, al contrario, chiudere la storia della schiavitù dentro frontiere strette e narrazioni che non tengono conto delle conflittualità. La « riconciliazione» e il « vivere insieme» che sono presentati nei paesi europei, sono un modo di spogliare la questione del suo contenuto politico creando uno spazio che si vuole non antagonistico.

I luoghi della memoria della schiavitù in Europa

Nel corso del XX secolo, la deportazione dall’Africa verso le Americhe, la riduzione in schiavitù, la circolazione atlantica di popolazione nera, sono state costituite come esperienze creatrici in seno alla diaspora «nera». Considerate alla luce di nozioni quali quella di métissage e di «transculturazione», di «creolizzazione» e di «ibridismo», costruite loro stesse sull’«incontro», sulla «opposizione violenta”, sulla «creazione» culturale, sulla «reinterpretazione», sono state stabilite genealogie transnazionali. La musica, la danza, la letteratura, la religione sono espressioni cognitive dell’«Atlantico nero» che cercano di mettere in relazione l’Africa dell’ovest e centrale con le Americhe ignorando le frontiere nazionaliste. In questa «contro-cultura della modernità», secondo la nozione di Paul Gilroy, la memoria gioca un ruolo essenziale; una memoria della schiavitù transcontinentale i cui discorsi, immagini e patrimoni si influenzano regolarmente, da una parte e dall’altra dei continenti, grazie alla circolazione delle informazioni attraverso le nuove tecnologie di informazione (NTIC).

In Europa sono stati creati alcuni spazi museali o patrimoniali. L’International Slavery Museum di Liverpool è stato il primo ad aprire in Europa e resta il solo ad essere così importante per il suo progetto e la sua attività di mediazione scientifica e pedagogica. Intorno all’abolizione della schiavitù sono stati creati, tra gli altri, il Mémorial de l’abolition di Nantes, il Monumento nazionale della schiavitù nel Oosterpark di Amsterdam, il Mémorial ACTe a Point-à-Pitre in Guadalupe. Altri sono in elaborazione come l’Antigo Mercado de Escravos, il vecchio mercato degli schiavi di Lagos. Altri musei partecipano alla valorizzazione della memoria, come il Musée des Ducs de Bretagne a Nantes, il Musée d’Aquitaine a Bordeaux, il Rijksmuseum ad Amsterdam, il Muséo marittimo della Norvegia a Oslo o ancora il museo Soul of Africa di Essen in Germania.

Questa lista non esaustiva di monumenti patrimoniali è in qualche modo la prova e il riconoscimento della diversità delle popolazioni europee che si caricano di questa storia. Sono le stesse che hanno manifestato perché le statue, negli spazi pubblici, non glorifichino i personaggi storici schiavisti, ma siano completate da statue che testimonino la partecipazione della popolazione afro-europea all’elaborazione della cultura europea: Anton Wilhelm Amo, Ignatus Sancho, Olaudah Equiano, le Chevalier St. George, George Polgreen Bridgetower, Alexandre Pushkin, Alexander Dumas, Samuel Coleridge-Taylor, Joséphine Bakhita, le sorelle Nardal, Edouard Glissant, Maryse Condé, per citarne solo alcuni.

Porre tale questione a livello europeo e non più nazionale potrebbe permettere un’attenuazione delle tensioni, per una ridefinizione più inclusiva della cultura e dell’identità europea.

(testo tradotto dal francese da Giulia Bonazza e Nicoletta Rolla)

 

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