Le condizioni di lavoro dei giovani:

come sono cambiate e come stanno cambiando?

di Ugo Trivellato

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Nel nostro paese la disoccupazione giovanile e, più in generale, le condizioni di lavoro dei giovani sono tra le principali preoccupazioni collettive. E sono preoccupazioni di vecchia data. L’emergere di una specifica attenzione alla disoccupazione giovanile si colloca, infatti, intorno alla metà degli anni ’70. Volgono alla fine les trente glorieuses, che in Italia sono chiamati, significativamente, con un nome diverso: “miracolo economico”. Alla crescita economica senza precedenti si accompagna il miglioramento della condizione dei lavoratori. Ne è segno lo Statuto dei lavoratori (1970), che stabilisce la regolazione pubblica del lavoro e una marcata protezione dei lavoratori, rafforzata dal ruolo che assume il sindacato. Una protezione, però – vale la pena segnalarlo –, diseguale, per la persistenza dell’impianto categoriale, diversificato per settore, dimensione d’impresa, territorio – e per stratificazione di norme e pratiche –. Due interventi di rilievo riguardano specificamente i giovani: è istituito l’apprendistato (1955); è introdotta la scuola media unica e, contestualmente, l’obbligo scolastico è esteso a otto anni (1962). L’apprendistato, per giovani di 14-20 anni, prevede lo scambio tra l’obbligo per il datore di lavoro di insegnare al giovane un mestiere, col supporto della sua partecipazione a corsi di formazione, e il minor costo dell’apprendista derivante dal basso inquadramento e dagli sgravi contributivi. Per un verso guarda al modello tedesco della ‘formazione duale’; per un altro verso risponde alla domanda di manodopera qualificata che viene dal settore industriale in forte crescita. E conosce una notevole diffusione. La nuova scuola media, unica e obbligatoria, ha i tratti di una riforma lungimirante; le lentezze nella sua attuazione – e la lunga coda della dispersione scolastica –, dovute largamente a inadeguatezza di risorse, non ne inficiano la portata.

 

Uno scorcio all’evoluzione delle condizioni di lavoro dei giovani

Nel corso degli anni ’70 il quadro comincia a cambiare. L’economia mondiale conosce le prime rilevanti crisi cicliche del secondo dopoguerra, innescate dagli shock petroliferi del ’74 e del ’79, mentre prende corpo la “terza rivoluzione industriale”, contraddistinta dall’affermarsi delle tecnologie dell’informazione, dall’apertura dei mercati internazionali e dalla globalizzazione. Per l’Italia, che fatica a tenere il passo delle economie avanzate, inizia la lunga stagione del progressivo rallentamento del ritmo di crescita. Ne richiamo tratti essenziali, scandendoli in tre periodi che risultano dalle cesure della crisi valutaria del 1992 e della Grande Recessione del 2008.

1975-91 Intorno alla metà degli anni ’70 la dinamica demografica, guidata dalle generazioni del baby boom (nel 1964 i nati raggiungono il picco di oltre un milione), e fattori culturali – l’emancipazione femminile – inducono un significativo aumento dell’offerta di lavoro giovanile. D’altra parte, a fronte di un’economia incapace di generare un sufficiente numero di posti di lavoro l’azione pubblica e le relazioni industriali, frenate dall’inerzia dell’impianto categoriale e in una temperie di netta affermazione del ruolo del sindacato, privilegiano misure di protezione della stabilità dell’impiego. Di conseguenza, aumenta la polarizzazione dei lavoratori lungo il crinale dell’età: fra gli occupati ‘nel fiore dell’età’ e anziani (insider) e i giovani (outsider). L’evidenza del divario fra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello degli altri lavoratori è illuminante: nel 1977 è disoccupato il 21,7% dei 15-24enni, a fronte del 3% dei 25-74enni. Il crescente peso della disoccupazione giovanile induce prime, parziali iniziative di riforma della regolazione del lavoro. In larga parte, esse mirano a favorire l’ingresso dei giovani nel lavoro con contratti atipici, che ne rendono conveniente l’assunzione da parte delle imprese tramite la riduzione del costo del lavoro (con sgravi contributivi o con crediti d’imposta) e, per un altro verso, prevedono la partecipazione del giovane ad attività formative. Dal 1977 al ’90 si succedono vari provvedimenti, che riguardano soprattutto i Contratti di formazione e lavoro – la tipologia che si consolida – e vi affiancano incentivi per l’imprenditorialità e il lavoro autonomo dei giovani. Viene poi istituito il contratto a tempo parziale. In tal modo, dopo la metà degli anni ’80 si riescono a contenere i peggioramenti dei tassi di occupazione e di disoccupazione, segnatamente dei giovani. E il Pil pro-capite cresce ancora in misura soddisfacente. Tutto ciò a prezzo del maturare, fra fine anni ’70 e inizi anni ’90, di forti squilibri di finanza pubblica.

1992-2007 I primi anni ’90 sono turbolenti e segnati da importanti novità. Nel settembre 1992 l’Italia è investita dalla crisi valutaria – una crisi tutta endogena, figlia della crescita del debito pubblico –, che porta all’uscita dallo sme e alla traumatica svalutazione della lira. Nel biennio 1992-93 il paese esce dalla crisi col concorso determinante della moderazione salariale, garantita dagli accordi tra governo e parti sociali. Per la regolazione e le politiche del lavoro si impongono incisive riforme, attente agli orientamenti dell’ue (che col trattato di Amsterdam considera “promoting employment as a matter of common concern” ed elabora la European Employment Strategy, 1997) e dell’oecd (Job Study, 1994). In Italia, accantonate le prospettive della ‘grande riforma’, che per l’insieme della spesa sociale sono delineate dalla ‘Commissione Onofri’ (1997; Guerzoni, 2008), si procede con una fitta serie di interventi normativi (tra i quali si segnalano il ‘pacchetto Treu’, 1997, e la cosiddetta ‘legge Biagi’, 2003), che si susseguono dal 1994 al 2003 e definiscono un corposo insieme di riforme. Riforme – si è detto (Sestito, 2002) – “al margine” e “parziali”: al margine, perché riguardano soprattutto i (ri)entranti – giovani, donne che tornano al lavoro dopo la maternità, immigrati – e lasciano, invece, immutata la regolazione dei contratti standard di lavoro dipendente a tempo indeterminato; parziali, perché non sono accompagnate da una contestuale revisione del welfare. Il modello al quale si guarda, con disinvolta semplificazione, è la flexicurity danese.

In primo luogo, le riforme istituiscono una pluralità di contratti di lavoro contraddistinti da maggiore flessibilità. Di questi nuovi contratti parecchi hanno vita effimera o, rivisti, valgono per lavori di nicchia. Di indubbio rilievo è, invece, l’introduzione del lavoro interinale (poi chiamato contratto di somministrazione). In secondo luogo, vi sono revisioni dei contratti esistenti. Spicca la revisione del contratto a tempo determinato, che, recependo una direttiva dell’ue, abroga la casistica ‘chiusa’ delle ragioni che consentono all’impresa di stipularlo. Continuano poi gli interventi in tema di contratti “a causa mista”, la seconda causa essendo quella formativa. Viene ancora modificato il Contratto di formazione e lavoro, che però declina rapidamente. Ed è rivisto un paio di volte l’apprendistato, tra l’altro con la previsione di un “apprendistato di alta formazione” per giovani fino a 29 anni, che tuttavia ha poco seguito. Al di là della law on the books, la prospettiva di un canale di formazione ‘duale’ (che comprenda anche gli Istituti Tecnici Superiori) viene quindi via via meno e l’attrattiva dell’apprendistato finisce per poggiare per larghissima parte sull’abbassamento del costo del lavoro. In terzo luogo, si adottano sparse, temporanee misure per incentivare l’assunzione o la stabilizzazione dei giovani tramite sgravi contributivi o crediti d’imposta. L’impegno riformatore investe anche i servizi per l’impiego nella prospettiva di farne strumenti ‘attivi’ di politica del lavoro, ma con esiti mediocri: certo, ogni persona che cerchi lavoro stipula un “patto di servizio” col Centro per l’impiego; ma, fatte salve le (modeste) eccezioni del caso, la portata delle misure di informazione, orientamento formativo e professionale, assistenza al job matching, monitoraggio resta esigua. In sostanza, si afferma un mix fatto di de-regolazione tramite modifica/moltiplicazione dei tipi di contratto e di riduzione delle politiche attive del lavoro all’area dei sussidi alle imprese.

A valle della crisi del 1992-93, l’occupazione riprende a crescere già dalla metà degli anni ’90, a ritmi abbastanza sostenuti, e il tasso di disoccupazione giovanile via via si riduce. Le coorti di giovani che si affacciano al mercato del lavoro hanno dimensioni decisamente più contenute di quelle del baby boom (sono tra i sette- seicentomila) e più istruite: beneficiano, quindi, di un progressivo miglioramento della probabilità di accesso al primo impiego. Ma in un contesto economico e di condizioni di lavoro insoddisfacente. La ripresa della crescita dell’occupazione coincide, infatti, con una fase di forte rallentamento della crescita economica e della produttività del lavoro, che frena la dinamica retributiva complessiva e, anche per effetto delle riforme, si traduce in una riduzione delle retribuzioni relative delle nuove generazioni di lavoratori. Alle minori retribuzioni si accompagna, inoltre, una crescente instabilità delle condizioni di impiego nella fase iniziale della carriera lavorativa, con tempi molto lunghi di transizione verso forme di lavoro più stabili.

2008-18 La Grande Recessione si manifesta in Europa nel 2008-09 e colpisce l’Italia in modo severo e prolungato: il double dip si materializza nel 2011-12, col secondo picco negativo indotto dalla crisi dei debiti sovrani. L’indirizzo basilare adottato per le politiche del lavoro può essere riassunto in un’affermazione: questo è il tempo degli interventi d’urgenza, non delle riforme. La spesa per le politiche passive del lavoro – lungamente addotta come prova regina, nei confronti europei, della modestia delle stesse – tra il 2008 e il 2009 raddoppia, rompendo quelli che in precedenza sembravano argini invalicabili. In questo modo, peraltro, una sorta di confusa riforma, in precedenza sempre rinviata per ragioni di bilancio, avanza e si protrae nella prassi, con le ‘estensioni in deroga’ di cassa integrazione, indennità di mobilità e indennità di disoccupazione, per rispondere comunque alla crescita della disoccupazione in genere e di quella di lunga durata in specie.

L’Italia esce dalla recessione soltanto nel 2014, con il Pil a prezzi costanti che torna a crescere, sia pure marginalmente. Siamo alla storia degli ultimi anni, alla quale guardo per poche, scarne notazioni sulla disoccupazione giovanile e sulla regolazione del lavoro. Le evidenze sul divario fra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello degli altri lavoratori sono, ancora una volta, illuminanti: nel 2014 è disoccupato il 42,7% dei 15-24enni, a fronte del 10,6% dei 25-74enni. Palesemente, il confronto con le analoghe stime riferite al 1977 sarebbe fuorviante: allora si era in una fase di discreta crescita economica; il 2014 ha alle spalle i sei anni della Grande Recessione. Tuttavia, un tasso di disoccupazione giovanile che è quattro volte quello dei 25-74enni colpisce, e induce riflessioni e interrogativi, anche perché non trova riscontri nei paesi avanzati.

Gli interventi salienti in materia di regolazione e welfare del lavoro sono due, entrambi contraddistinti da un ambizioso disegno riformatore, che lo stesso lascito della Grande Recessione richiede: la ‘riforma del lavoro Fornero’ (2012) e il Jobs Act (2014-16). Del primo intervento l’esito duraturo è l’Assicurazione Sociale Per l’Impiego (aspi): rivista (e con acronimo mutato) e affiancata da altre misure, mantiene l’impianto originario, che definisce un’assicurazione contro la disoccupazione finalmente allineata a standard europei. Del Jobs Act richiamo due tasselli, tra i più significativi: (i) è introdotto un nuovo contratto a tutele crescenti (crescente essendo l’indennità di licenziamento) che mira a ridurre il contenzioso sui licenziamenti – e i costi per l’impresa che ne sono associati –; (ii) con l’obiettivo di dare un forte stimolo all’occupazione, per gli anni 2015 e 2016 le imprese che assumono con il contratto a tutele crescenti lavoratori (entro un’amplissima categoria, non lontana dalla popolazione degli attivi) godono per 3 anni di un consistente sgravio dei contributi previdenziali, massimo per le assunzioni effettuate nel 2015 (8mila € l’anno, quindi totale per salari lordi dell’ordine di 26mila €). Non sorprendentemente, la misura ha successo: trova larga accoglienza da parte delle imprese e favorisce un notevole aumento dell’occupazione (molto più che la riduzione dei costi di licenziamento associata al contratto a tutele crescenti: Sestito e Viviano, 2015). La dinamica del Pil italiano ne trae un qualche beneficio, ma, comparata con quella dei paesi europei avanzati, resta modesta. La ricetta ‘flessibilità più sussidi alle imprese’, impiegata in dosi massicce, non porta il paese fuori dalle secche della stagnazione. 

 

Questioni sulle quali riflettere

Da questa sommaria carrellata sull’evoluzione del lavoro per i giovani vengono molteplici interro gativi intorno a questioni cruciali: sul sentiero di sviluppo del paese e sulle condizioni dei giovani. Ne propongo tre. La prima questione verte sulla persistenza della stagnazione dell’economia italiana. Per i paesi avanzati del “villaggio globale” lo stare peggio, o meglio, si definisce in termini relativi. E l’indicatore, pur imperfetto, col quale si misura la situazione economica di un paese resta il Pil pro-capite a parità di potere d’acquisto (ppa). Ebbene, avendo come termine di confronto la variazione percentuale del Pil pro-capite/ppa dell’ue-28, esso mostra che l’Italia ha imboccato la strada della variazione negativa del Pil dalla metà degli anni ’90 e l’ha percorsa sostanzialmente con lo stesso ritmo negli anni rispettivamente precedenti e successivi allo scoppio della Grande Recessione (del Hoyo, 2017; vedi anche recenti saggi sul ‘declino’ dell’economia italiana segnalati nella bibliografia). La spiegazione macroeconomica è nella stagnazione della produttività. Ma da che cosa dipende la stagnazione della produttività? Che ruolo hanno i mutamenti istituzionali, politici e sociali? Come agiscono, e in quale direzione, la regolazione del lavoro e le politiche del lavoro? E vi sono tratti di questi processi che investono in modo particolare i giovani? Esemplifi cando, è al mix al quale ho accennato – de-regolazione tramite modifica/moltiplicazione dei tipi di contratti di lavoro combinata con politiche attive fatte soltanto di sussidi alle imprese – che vanno ricondotte la (peraltro moderata) crescita dell’occupazione e la perdita di competitività del sistema produttivo? Oppure sono altri i fattori portanti di un percorso che è ormai di stagnazione?

La seconda questione verte sulla formazione, scolastica ed extra-scolastica, dei giovani. È un tema che, dopo l’iniziale accenno all’istituzione della scuola media unica obbligatoria, ho tralasciato. Ma che emerge, prepotente. Dagli anni 2000, infatti, il processo di avvicinamento dei livelli di formazione dei giovani italiani a quelli dei paesi europei avanzati rallenta. Il nostro sistema scolastico procede faticosamente per frequenti, mediocri riforme settoriali, tant’è che si ritrova, ancor oggi, con una scuola dell’obbligo della quale è problematico cogliere la ratio: obbligo scolastico “di almeno (!?) dieci anni”; accertamento delle conoscenze dopo otto anni (esame di licenza media); assenza di cicli di istruzione secondaria superiore di durata biennale, che portino, cioè, a soglie di conoscenza/ competenza definite alla conclusione dei dieci anni. D’altra parte, l’ipotesi di attivare un canale di formazione ‘duale’ è sostanzialmente caduta. L’esito è l’accumulazione di un forte ritardo dei livelli di formazione dei giovani italiani rispetto a quelli dei coetanei dei paesi europei avanzati. Tipicamente, i confronti sui livelli di istruzione nei paesi avanzati sono condotti guardando alle distribuzioni dei 30-35enni per titolo di studio. Si prestano bene anche analisi, pur sommarie, sui neet (Neither in Employment nor in Education or Training), svolte guardando al tasso di neet – la percentuale di neet sulla popolazione di 15-29enni – nel quadro distribuzione dei giovani congiuntamente per formazione (sì/no) e occupazione (sì/no). In tal modo mettiamo in luce le relazioni fra ‘vuoti’ e ‘pieni’: fuori di metafora, fra il tasso dei giovani né in formazione né in occupazione, i neet, e i tassi dei giovani in formazione e in occupazione.  Il prospetto che segue presenta i tre tassi in questione e la percentuale di studenti lavoratori per tre paesi – Italia, Olanda (il paese dell’ue col più basso tasso di neet) e Spagna – nel 2018.

Paese

Tasso di neet

Tasso di formazione

Tasso di occupazione

% studenti lavoratori

Italia

23,5

50,8

30,8

  4,2

Olanda

  5,4

64,4

71,0

40,8

Spagna

15,1

57,8

37,2

10,1

Restando al tema della formazione, il prospetto ci dice che in Italia sono coinvolti in attività di formazione – scolastica o extra-scolastica – poco più della metà dei giovani: sono oltre tredici punti percentuali in meno rispetto all’Olanda e sette punti percentuali in meno rispetto alla Spagna, il secondo paese, dopo l’Italia, usualmente classificato tra i ‘mediterranei’ per le caratteristiche del welfare. Ci dice, inoltre, che l’Italia si distingue per la marcata separatezza fra sistema della formazione e sistema del lavoro: soltanto 8 studenti su 100 lavorano, mentre in Olanda sono oltre 63 su 100 e in Spagna 17 su 100. Importa notare, poi, che le distanze dell’Italia dall’Olanda e dalla Spagna sono venute crescendo nel tempo. (Guardando ai tassi di occupazione e di neet, tra l’Italia e Spagna e Olanda emergono divari ancora più forti nelle condizioni rispetto al lavoro, sui quali non indugio.) Quali sono stati gli snodi di un processo che non mi pare improprio qualificare di divergenza, mentre la retorica continua a parlare di ‘investimento in capitale umano’ e di convergenza dei sistemi di formazione? Quando si sono manifestati? E quanto si differenziano fra Nord e Mezzogiorno e fra classi sociali?

La terza questione prende le mosse dalla preoccupazione che le nuove generazioni possano sperimentare condizioni economiche peggiori di quelle della generazione dei loro genitori. La preoccupazione emerge già nei primi anni 2000 e si diffonde col manifestarsi della Grande Depressione. E diventa un interrogativo di ricerca: quanto a occupazione e condizioni di lavoro – e più in generale a condizioni di vita – le generazioni di giovani che si affacciano al lavoro oggi stanno peggio delle generazioni di giovani che si sono affacciati al lavoro qualche decennio fa? Rispondere a questo interrogativo in maniera argomentata è impegnativo: richiede un appropriato disegno della ricerca e dati adeguati. Anche perché abitualmente l’interesse di ricerca è più ampio, duplice: certo, sulla diversa storia che vivono generazioni diverse; ma anche sulle diverse conseguenze che hanno shock, eventi rilevanti diversi. I tre lavori preceduti da un asterisco, nei riferimenti bibliografici in calce a questa nota, offrono evidenze per rispondere a interrogativi di tal fatta, riferiti ad ambiti che ruotano attorno (e in un caso non sono circoscritti) al lavoro e con tagli di analisi diversi.

Una sintesi delle conclusioni di Bazzoli et al. (2018), riferite a uno studio su piccola scala – la Provincia Autonoma di Trento –, è un esempio delle risposte che un’analisi per generazioni può offrire (e, indirettamente, degli interrogativi in merito ai quali può fornire credibili evidenze).

“(a) Lo studio delle storie lavorative di due coorti di giovani trentini, entrati nel lavoro nei ventenni intorno, rispettivamente, al 1984 e al 2001 e seguiti nei successivi otto anni, mostra che già la prima coorte ha conosciuto una mobilità di lavoro piuttosto alta. La mobilità è cresciuta in misura considerevole nella seconda coorte.

(b) Questa evoluzione si caratterizza non già per l’ampliamento della frangia più debole dei giovani – i lavoratori precari – o per il deterioramento delle loro storie lavorative, bensì per un processo di crescita diffusa dell’instabilità e della frammentarietà. Lo spazio della precarietà si è dilatato, segnatamente a larga parte del pubblico impiego e del lavoro autonomo.

(c) Tale processo presenta tratti di moderata differenziazione per genere e, invece, di forte divario tra livelli di istruzione. Dal confronto fra le due coorti, sono i giovani diplomati e laureati – questi ultimi in misura più accentuata – i più penalizzati, in termini sia di tempo complessivo di lavoro sia di instabilità/frammentarietà degli episodi di occupazione.

(d) A questo peggioramento della mobilità di lavoro non si accompagna alcuna variazione della mobilità di carriera, che resta assai bassa. L’inerzia della mobilità di carriera suggerisce che l’incremento della mobilità di lavoro, così come si è configurato, non induce maggiore accumulazione di competenze e di relazioni sociali, fattori che abitualmente concorrono alla mobilità ascendente di carriera.”


 

Riferimenti bibliografici

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Capussela A. (2019). Declino. Una storia italiana, Roma: luiss University Press.

Ciocca P. (2018). Tornare alla crescita. Perché l'economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla, Roma: Donzelli.

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Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale (1997). Relazione finale, Roma: 28 febbraio 1997. [nota come ‘Commissione Onofri’].

del Hoyo J.L.D., E. Dorrucci, F.F. Heinz and S. Muzikarova (2017). Real convergence in the Euro area: A long-term perspective, ECB Occasional Paper Series No. 203.

Fullin G. e E. Reyneri (2015). “Mezzo secolo di primi lavori dei giovani. Per una storia del mercato del lavoro italiano”, Stato e Mercato, 35(3), p. 419-468

Guerzoni L. (a cura di) (2008). La riforma del welfare. Dieci anni dopo la “Commissione Onofri”. Bologna: il Mulino.

Schizzerotto A., U. Trivellato e N. Sartor (2011) a cura di, Generazioni disuguali. Le condizioni di vita dei giovani di ieri e di oggi: un confronto, Bologna: Il Mulino.

Sestito P. (2002). Il mercato del lavoro in Italia. Com’è. Come sta cambiando, Bari-Roma: Laterza.

Sestito P. e R. Turrini (2019). Molto rumore per nulla. La parabola dell’Italia, tra riforme abortite e ristagno economico, Kindle Unlimited.

Sestito, P. and E. Viviano (2015). Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers) n. 325, Rome: Bank of Italy.

Silva F. e A. Ninni (2019). Un miracolo non basta. Alle origini della crisi italiana tra economia e politica, Roma: Donzelli.