Discussioni #2

Alida Clemente  e Francesco Scalone discutono:

John Hatcher, Judy Z. Stephenson (eds.), Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, Londra, Palgrave MacMillan 2018

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Il volume curato da John Hatcher e Judy Z. Stephenson potrebbe apparire, a primo acchito, un attacco frontale all’ortodossia quantitativistica che ha dominato la storia economica negli ultimi decenni in parallelo all’ affermazione dell’egemonia angloamericana – e cliometrica – sulla storiografia europea. I saggi che compongono il volume, di fatti, smontano con grande acribia e accuratezza metodologica le procedure e i dati che sono alla base delle stime di lungo periodo del tenore di vita: quelle, per intenderci, sulle quali interpretazioni influenti e ampiamente accolte della storia economica europea e globale - dalla tesi di Robert Allen dell’economia degli alti salari come precondizione della rivoluzione industriale alle analisi della Grande Divergenza (Allen 2001, 2009, 2015; Özmucur e Pamuk; Pomeranz) - sono state prodotte negli ultimi due decenni. A partire dal titolo, il tono provocatorio e iconoclastico del volume non può che incuriosire quanti, istruiti al mestiere di storico, hanno vissuto la stagione della quantificazione a tutti i costi con distanza e perplessità, senso di inadeguatezza ed estraneità rispetto a una trasformazione della disciplina che non era semplicemente di metodo, ma di episteme. Il volume soddisfa molte aspettative di un simile lettore, ma non tutte. Spiegherò il perché, dopo aver illustrato le principali argomentazioni dei saggi che lo compongono.
In primo luogo l’obiettivo polemico del volume, ben identificabile a partire dal titolo, è l’uso delle serie di lunghissimo periodo di salari monetari e prezzi come misura dello sviluppo economico, del tenore di vita e delle disuguaglianze. Il titolo parafrasa con palese ironia quello dei celebri studi pubblicati a metà degli anni Cinquanta da Phelps-Brown e Hopkins, responsabili, loro malgrado, dell’avvio di una stagione di studi in cui le serie dei salari reali sono state assunte come materia prima dell’analisi dello sviluppo nella lunghissima durata, dal XIII al XIX secolo. Le ragioni per cui quelle serie non potevano fungere da proxy del tenore di vita sono diverse, e ampiamente esaminate nei saggi contenuti nel volume. E sono in gran parte le stesse ragioni per cui gli autori medesimi di quei pionieristici studi degli anni Cinquanta ne avevano, inascoltati, messo in guardia da un utilizzo superficiale e improprio. Possiamo per esigenze di sintesi raggruppare in tre categorie gli elementi di debolezza individuati: quelli che attengono alla rappresentatività delle fonti, quelli che attengono alla costruzione delle serie di dati, e infine i limiti di interpretazione e di contestualizzazione dei dati.
Il primo problema, ben illustrato da Hatcher (2018), è la rappresentatività del salario come forma di retribuzione del lavoro nel mondo preindustriale. Le serie dei salari reali sono costruite a partire da dati tanto facilmente rintracciabili negli archivi quanto poco rappresentativi, ovvero le paghe giornaliere dei lavoratori edili e quelle dei lavoratori agricoli occasionali. Non solo le due categorie di lavoratori costituiscono una minoranza del mondo lavorativo dell’età preindustriale, ma i dati utilizzati sono ricavati da pochi e circoscritti archivi istituzionali e arbitrariamente generalizzati, in un mondo in cui le differenze tra una regione e l’altra, un’istituzione e l’altra, e all’interno della medesima gerarchia del lavoro, erano enormi. Questo limite di partenza, il più lapalissiano a chiunque abbia una cognizione dell’organizzazione sociale del mondo preindustriale, viene esaminato in relazione a diversi contesti: in riferimento alla Cina Qing, ad esempio, Deng e O’Brien sostengono l’inaccettabilità delle serie utilizzate dagli analisti della Grande Divergenza, in quanto frutto della proiezione di dati locali sull’intero territorio nazionale in un contesto in cui il lavoro salariato riguardava il 3% della forza-lavoro urbana, e prezzi e salari erano diversissimi tra una regione e l’altra. In riferimento al lavoro agricolo, ancora Hatcher (2018b) dimostra come i lavoratori occasionali costituissero una assoluta minoranza della forza-lavoro agricola, tanto più esigua quanto più indietro si va nel tempo: eppure la retribuzione dei contadini senza terra è stata utilizzata come standard salariale dell’intera popolazione agricola in un’epoca in cui la proletarizzazione era di là da venire e il lavoro agricolo era basato sulla piccola proprietà indipendente, generando madornali distorsioni come la tesi della Golden Age del lavoro del XV secolo, pur accettata da grandissima parte della comunità scientifica.
Un secondo limite metodologico, che spesso sconfina nella sfera dell’errore e della manipolazione dolosa, riguarda la costruzione delle serie a partire dai dati grezzi. Le serie di lungo periodo sono costruite assemblando serie parziali relative ad istituzioni, ambiti e contesti diversi, prodotte, cioè, con modalità di conteggio, registrazione e quantificazione che difficilmente seguono, nel tempo e nello spazio, standard uniformi. La serializzazione costruisce così una omogeneità artificiosa dando un’appagante ma chimerica sensazione di comparabilità tra epoche e luoghi distanti. Il difetto più diffuso e invalidante delle serie esistenti, a quanto pare, è l’utilizzo dei compensi dei capomastri e degli appaltatori come base per la costruzione delle serie dei salari. è ciò che è avvenuto nel caso milanese, esaminato da Luca Mocarelli, dove le serie salariali ampiamente utilizzate nelle comparazioni internazionali, elaborate a suo tempo da de Maddalena, sono costruite a partire dai compensi dei capomastri impiegati nella costruzione della cattedrale di Milano. Judy Stephenson (2018) va ancora più a fondo nella disamina degli errori interpretativi che inficiano le serie salariali comunemente utilizzate, mostrando come spesso le voci lette come paghe giornaliere, e utilizzate come salari monetari, non fossero affatto paghe, ma compensi che l’istituzione committente riconosceva all’appaltatore per la fornitura di lavoro specializzato. La ricostruzione delle somme pagate effettivamente dagli appaltatori ai lavoratori, ammesso che si trattasse di salari a giornata – ciò che non costituiva affatto la normalità per la gran parte dei lavoratori – richiederebbe la disponibilità dei conti degli appaltatori e dei subappaltatori che compaiono nei libri paga delle istituzioni committenti, e che purtroppo mancano. Quelli disponibili, tuttavia, sono sufficienti a rivelare un margine eccessivo di errore nel calcolo del ‘salario medio’: l’estrema articolazione delle tipologie e della gerarchia del lavoro, la differenza di retribuzione tra lavoratori non qualificati, semi-qualificati (i labourers, spesso letti come lavoratori non qualificati, ma in realtà assistenti degli artigiani specializzati), e lavoratori specializzati, la varietà di tipologie contrattuali – pagamento a consegna, a tempo, e solo in ultima istanza a giornata – rendono del tutto irrealistiche le stime del salario medio per l’età preindustriale.
L’ulteriore passaggio nella costruzione delle serie dei salari reali risiede nel calcolo del reddito annuo a partire dal salario giornaliero. Dal momento che non esistono dati empirici che consentano di calcolare il numero di  giornate annue di lavoro, il loro computo è frutto di una speculazione puramente arbitraria: ciò risulta particolarmente distorcente nel caso del lavoro agricolo, caratterizzato da una spiccata stagionalità e dall’impossibilità, mostrata ad esempio da Joyce Burnette attraverso l’analisi empirica di conti di fattorie inglesi negli anni Trenta dell’Ottocento, di individuare un qualche modello uniforme nelle modalità di impiego, retribuzione e offerta stagionale di lavoro.
Ulteriore distorsione, sottolineata ancora da Mocarelli per il caso milanese, riguarda le serie dei prezzi dei beni che costituiscono il denominatore del rapporto, meno presenti nella trattazione ma non meno importanti nel computo finale. Il calcolo del salario reale si fonda infatti sui prezzi di un paniere di beni essenziali, di cui la voce più importante, quella del pane, è spesso surrogata, per la maggiore disponibilità di dati, dalla sua materia prima, i cereali. Come Mocarelli fa notare, tradurre il prezzo dei cereali in prezzo del pane aggiungendo un mark-up è operazione del tutto arbitraria (si veda in merito anche De Vries), poiché se il primo era frutto delle oscillazioni della produzione, il secondo era, in molti contesti europei, frutto di una decisione politica, che interveniva con maggior forza proprio nelle fasi in cui il prezzo dei cereali superava un livello critico. Ne consegue, nel caso milanese, la tendenziale sottovalutazione dei salari reali nelle fasi di aumento dei prezzi dei cereali, e la conseguente sopravvalutazione del declino economico italiano del Settecento.

Oltre ai limiti intrinseci delle fonti e agli errori di costruzione dei dati, gli autori alludono a limiti più sostanziali che investono l’impianto interpretativo e, a mio avviso, la base epistemologica delle ricostruzioni quantitative dello sviluppo. La manipolazione dei dati sopra illustrata non deriva dalla mera esigenza di disporre di serie omogenee, ma da un insieme di presupposti teorici che sono il frutto della compressione della storia economica dentro le categorie interpretative di una economics che è andata progressivamente definendosi come una scienza senza tempo. La storia macroeconomica presuppone un unico mercato del lavoro e dei beni, ritenuti intercambiabili e omogenei e valutabili nell’equivalente universale della moneta. Si dà per scontato non solo che esista un mercato del lavoro così come i modelli economici contemporanei lo contemplano, ma anche che il consumo sia funzione del reddito e dei prezzi dei beni e che l’andamento dei salari reali sia sufficiente a stabilire le precondizioni del tenore di vita. Presupposto essenziale di questi modelli è l’individualismo economico: l’utilizzo del salario del lavoratore singolo, del male breadwinner, come base per ricostruire il tenore di vita generale della popolazione, si fonda su un concetto del tutto astratto di lavoratore nonché su una certa distorsione dei meccanismi sociali dell’economia di Antico Regime, dove, in misura ancor più accentuata che nell’età industriale, l’unità di analisi del reddito non può che essere la famiglia, di cui il salario del singolo lavoratore capofamiglia, ammesso sia realistico, costituisce solo una parte. A ciò si aggiunge l’assunzione del mercato come meccanismo prevalente di allocazione delle risorse, ivi compreso il lavoro. Quasi tutti i saggi, e in particolare quelli di Stephenson (2018, 2018b) sul lavoro urbano e Muldrew e Burnette sul lavoro agricolo, dimostrano empiricamente la complessità dei contratti e delle forme di remunerazione, la stratificazione estremamente articolata dell’offerta di lavoro, e la dimensione del tutto minoritaria del pagamento monetario a giornata. A ciò si aggiunge un ulteriore problema di fondo, affrontato da Muldrew nel primo dei saggi a sua firma: quello della legittimità della definizione di un salario monetario in contesti fondati su una strutturale carenza di liquidità, sulla centralità del credito e di forme di remunerazione del lavoro non monetarie. Si parla, in pratica, di una economia in cui il cash nexus presupposto dalle ricostruzioni di lungo periodo non c’è, in primo luogo perché non c’è il cash. Ne deriva che le paghe registrate in equivalente monetario erano soltanto la base di partenza di una negoziazione di forme di compenso che andavano dai pagamenti in natura, all’accesso alle terre comuni, a scambi non di mercato che garantivano, per lo più, l’accesso al cibo. Nel saggio conclusivo l’analisi di Muldrew e King si spinge oltre, e mostra l’inconsistenza non solo del concetto di salario come forma di retribuzione del lavoro, ma anche del termine labourer per indicare il lavoratore salariato, che è un prodotto peculiare della civiltà industriale del XIX secolo, benché non più ritenuto, sulla scorta della New Labour History, la sua cifra esclusiva e dominante (a tal proposito, Bonazza & Ongaro). L’economia di antico regime è di contro un complesso mosaico di meccanismi di scambio non monetario – anche laddove essi vengono quantificati, nei documenti contabili, in moneta di conto – di economia del credito, di discontinui e irregolari guadagni familiari, di sussistenza e di autoconsumo, di mutualità e forme di welfare, di accesso non di mercato ai beni primari, che rendono il calcolo dei salari reali un’operazione non solo complicata, ma oziosa. Se la mancanza di liquidità, una economia di fortuna e un sistema di remunerazione basato su consuetudini locali e dinamiche relazionali sono gli elementi strutturali dell’economia di Antico regime, misurare quest’ultima a partire dalle categorie concettuali dell’economia contemporanea, frutto della razionalizzazione e della trasformazione della prima, è un’operazione che distorce il passato e ignora la trasformazione sociale, o, in altri termini, la storia.
Il modo in cui gli autori dei saggi mostrano empiricamente l’erroneità dei dati e delle loro procedure di elaborazione e di utilizzo è estremamente efficace. Ma cosa c’è oltre la pars destruens? I curatori del volume sono in merito molto chiari: obiettivo del volume non è screditare la quantificazione, né abbandonare il progetto di un calcolo dei salari reali sul lungo periodo, bensì correggere le serie esistenti, renderle più realistiche a partire da una considerazione meno superficiale del significato delle informazioni che le fonti offrono allo storico. Ciò significa, essenzialmente, optare per una quantificazione più ‘esatta’, cercando nuovi dati e costruendo nuove serie, e utilizzando le tecniche econometriche e di elaborazione dei dati più sofisticate di cui si dispone oggi rispetto agli anni Cinquanta. Nel contestare la tesi della Golden Age, ad esempio, Hatcher ritiene che il computo dei redditi di tutte le categorie del lavoro agricolo e non solo di quella, minoritaria, dei lavoratori occasionali, restituirebbe un quadro sufficientemente realistico. Il fatto che i curatori non si muovano affatto al di fuori dell’orizzonte quantitativo è del resto mostrato dalla fiducia che essi ripongono nelle stime del PIL a partire dai volumi di produzione (Broadberry), che portano acqua al mulino dei detrattori delle serie tradizionali e della storiografia che si è esercitata su di esse (Hatcher 2018). Va anche aggiunto che quest’ultima non si è affatto sottratta al dibattito, come mostra il serrato botta e risposta tra Allen (2019) e Stephenson (2019) sulla misura dei salari reali nella Londra moderna, ospitato dalla Economic History Review.
E tuttavia il volume costituisce, secondo chi scrive, uno strumento prezioso per riflettere non solo sulla erroneità dei dati o delle procedure finora praticate, ma soprattutto sul senso e i metodi dell’analisi storico-economica e del lavoro. Se da un lato, infatti, vi si pone una mera questione di realismo e correttezza delle serie di dati, dall’altro si insinuano nel volume spunti più radicali di contestazione delle categorie concettuali e interpretative di fondo che motivano la costruzione di quelle serie storiche. Ben venga una riflessione critica sulla quantificazione che sia utile a correggerla, ma se si riflette sul cosa si quantifica, prima che sul come, occorre giustificarne la rilevanza in relazione al contesto e alle domande. Alla luce delle riflessioni finali di Muldrew, la revisione delle serie salariali non elude il problema di quanto sia utile, ai fini della comprensione storica, misurare per il passato variabili che semplicemente non esistono, o esistono diversamente dall’oggi, al solo scopo di produrre una rappresentazione omogenea e astratta dello sviluppo; di quanto si rischi di rendere invisibile, imponendo un’omogeneizzazione forzata delle fonti, ciò che lo storico dovrebbe invece rilevare e interpretare, ovvero i meccanismi di allocazione delle risorse altri dal mercato, la trasformazione sociale ad essi connessa, il senso, il ruolo e le strutture del lavoro in Antico Regime (e magari, ciò che ad esse assomiglia nel mondo del lavoro contemporaneo). Il confronto, dunque, non è - come sostiene Hatcher - tra quantitativi e non quantitativi, ma non è neanche, forse, a voler tirare le somme delle medesime argomentazioni dei saggi, tra serie giuste e serie sbagliate. Il discrimine è piuttosto tra una storia economica che analizza il passato alla luce delle categorie dell’economics e una storia economica che analizza l’economia del passato juxta propria principia (Andreozzi; Clemente). Ricordando, con Polanyi, che “restringere la sfera del genus economico agli specifici fenomeni di mercato vuol dire eliminare dalla scena la maggior parte della storia umana” (p. 28), e che riconoscere il limite della fonte può essere molto più utile, ai fini della comprensione di quella terra straniera che è il passato, che non aggirarlo per produrre a tutti i costi un dato, purché sia.


Alida Clemente
Università di Foggia

Bibliografia citata

- Robert C. Allen, The great divergence in European wages and prices from the Middle Ages to the First World War, “Explorations in economic history”, n. 38(4), 2001, pp. 411-447.
- Robert C. Allen, The high-wage economy of pre-industrial Britain, in The British Industrial Revolution in Global Perspective, Cambridge: Cambridge University Press 2009, pp. 25-56.
- Robert C. Allen, The high wage economy and the industrial revolution: a restatement, “The Economic History Review”, n. 68 (1), 2015, pp. 1-22.
- Robert C. Allen, Real wages once more: a response to Judy Stephenson, “Economic History Review”, n. 72 (2), 2019, pp. 738-754
- Daniele Andreozzi, a cura di, Quantità/qualità: La storia tra sguardi micro e generalizzazioni, Palermo, New Digital Press 2017.
- Giulia Bonazza e Giulio Ongaro, a cura di, Libertà e coercizione: il lavoro in una prospettiva di lungo periodo, Palermo, New Digital Frontiers 2018.
- Henry P. Brown e Sheila V. Hopkins, Seven centuries of the prices of consumables, compared with builders' wage-rates, T. Fisher, Unwin 1956.
- Joyce Burnette, Seasonal Patterns of Agricultural Day-Labour at Eight English Farms, 1835-1844, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018, pp. 195-226
- Alida Clemente, Il racconto del mercato globale e la crisi della storicità. Sul ritorno della storia economica, “Storica”, n. 72, 2018, pp. 7-53.
- Jan De Vries, The Price of Bread: Regulating the Market in the Dutch Republic (Cambridge Studies in Economic History - Second Series), Cambridge, Cambridge University Press 2019.
- Kent Deng e Patrick K. O’Brien, The Tyranny of Numbers: Are There Acceptable Data for Nominal and Real Wages for Pre-modern China?, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018, pp. 71-94.
- John Hatcher, Seven Centuries of Unreal Wages, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018, pp. 15-70.
- John Hatcher, Unreal Wages: Long-Run Living Standards and the ‘Golden Age’ of the Fifteenth Century, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018b, pp. 227-266.
Sheila V. Hopkins, Seven centuries of building wages, “Economica”, n. 22 (87), 1955, pp. 195-206.
- Luca Mocarelli, What Is Wrong with the History of Wages: Or the Divide in Economic History - A Reappraisal Suggested by Eighteenth-Century Milan, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018, pp. 95-116.
- Craig Muldrew, What Is a Money Wage? Measuring the Earnings of Agricultural Labourers in Early Modern England, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018, pp. 165-194.
- Craig Muldrew e Steven King, Cash, Wages, and the Economy of Makeshifts in England, 1650-1800, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018, pp. 267-306.
- Süleyman Özmucur e Şevket Pamuk, Real wages and standards of living in the Ottoman Empire, 1489–1914, “The Journal of Economic History”, n. 62 (2), 2002, pp. 293-321.
- Karl Polanyi, The Livelihood of Man, New York, Academic Press 1977. Trad. it. La sussistenza dell’uomo, Torino, Einaudi 1983.
- Kenneth Pomeranz, The great divergence: China, Europe, and the making of the modern world economy, Princeton, Princeton University Press 2009.
- Judy Z. Stephenson, In Search of the Average Craftsman: Understanding Skilled Work and Wages in the Early Modern Building Trades and Wider Economy, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018, pp. 117-142.
- Judy Z. Stephenson, The Pay of Labourers and Unskilled Men on London Building Sites, 1650–1770, in Seven Centuries of Unreal Wages. The Unreliable Data, Sources and Methods that have been used for Measuring Standards of Living in the Past, a cura di John Hatcher e Judy Z. Stephenson, Londra, Palgrave MacMillan 2018b, pp. 143-164.
- Judy Z. Stephenson, Mistaken wages: the cost of labour in the early modern English economy, a reply to Robert C. Allen, “Economic History Review”, n. 72 (2), 2019, pp. 755-769.

 


 

Lo studio dei living standards delle popolazioni del passato riveste un’importanza cruciale per l’indagine storico economica, in quanto strettamente connesso alla definizione di una misura della più generale performance economica. In particolare, la ricostruzione dei livelli di vita nel passato offre un riscontro empirico per approfondire le ipotesi relative all’equilibrio malthusiano, all’evoluzione storica delle disuguaglianze o ai processi di crescita economica.
Ma non solo, le ricerche relative al tenore di vita in epoca storica forniscono anche un’importante base conoscitiva per spiegare fenomeni centrali in altre discipline come la storia sociale, l’antropometria o la demografia storica. Ad esempio, solo per citare alcuni ambiti di ricerca, l’analisi delle tendenze dei salari reali, nel lungo quanto nel breve periodo, hanno contributo a studiare l’efficacia delle istituzioni caritatevoli o della legislazione per attenuare gli effetti della povertà (Solar), a valutare l’impatto dell’industrializzazione sui livelli di vita delle classi lavoratrici (Feinstein).
Già da decenni, si dibatte su possibili misure alternative dei living standard a quelle espresse in termini puramente monetari, come i salari reali appunto, espandendo il campo d’indagine dal dominio economico a quello bio-fisiologico ed antropometrico. Per una rassegna completa delle misure biologiche (speranza di vita, statura, indice di massa corporea e resti scheletrici) utilizzate in storia economica, si rimanda alla rassegna di Richard Steckel. Le misure monetarie degli standard di vita, come il reddito e i salari, non sono solitamente disponibili per periodi di tempo più antichi o per le società premoderne. Muovendo da approcci interdisciplinari, informazioni spesso frammentarie provenienti da archivi o reperti archeologici forniscono la base per ricostruire l'evoluzione del benessere dell'umanità. Le misure biologiche hanno infatti il vantaggio di una diretta comparabilità nel tempo o attraverso culture differenti; cosa che invece non accade per quanto riguarda misure come il potere d'acquisto dei redditi, i salari o la ricchezza (Steckel). In base a questo approccio, i living standard riflettono lo stato nutritivo, la salute e i livelli di sopravvivenza delle popolazioni, in quanto manifestazione di un processo di accumulo del capitale fisiologico attraverso le generazioni e il corso di vita degli individui (Fogel) e, quindi, passando di madre in figlio, dalla vita intrauterina fino alle età senili. In questi termini, peso e altezza individuale forniscono un’ulteriore misura degli standard di vita, almeno per l’età preindustriale, prima di quella evoluzione del corpo contemporaneo definita come tecno-fisiologica (Floud et al.).
In realtà, la misura dei living standards nelle epoche passate ha svolto un ruolo cruciale anche nella spiegazione di fenomeni relativi ad aree cruciali della storia demografica, come i meccanismi di crescita delle popolazioni o la dinamica della natalità e della mortalità. Ormai da vari decenni, uno degli interessi dei demografi storici ha riguardato l’impatto degli standard di vita sui livelli di sopravvivenza, fecondità e nuzialità delle popolazioni storiche in Europa (Galloway 1986, 1993), tra cui anche l’Italia (Breschi e Malanima, Breschi). Le analisi hanno visto l’utilizzo di modelli di regressione “a ritardi distribuiti” per serie storiche, svelando l’esistenza di una specifica struttura temporale nella risposta del sistema demografico a seguito di un cambiamento relativo ai livelli dei living standard. Nel breve quanto nel medio periodo, uno shock, o meglio una repentina fluttuazione degli standard di vita misurati in termini di prezzi e salari, aveva un impatto immediato sulla nuzialità, con un maggior ritardo sulla fecondità, e con un ulteriore effetto differito sulla mortalità. Repentine diminuzioni dei livelli di fecondità a seguito di un deterioramento dei living standard prima della transizione demografica sono stati interpretati come indizi relativi all’esistenza di pratiche contraccettive anche in epoca storica (Bengtsson e Dribe).Utilizzando modelli econometrici multivariati (vector autoregressive model) si è ipotizzato che gli effetti della relazione potevano agire anche nella direzione opposta, là dove le componenti demografiche impattavano a loro volta sugli standard di vita (Nicolini 2007). Il dibattito sulle risposte del sistema demografico alle fluttuazioni dei salari reali non si è ancora esaurito e continua a basarsi sull’analisi econometrica delle serie storiche (Pfister e Fertig). In anni recenti, inoltre, progetti comparativi, fondati sulla ricostruzione micro-demografica delle biografie individuali di popolazioni europee ed asiatiche, hanno ulteriormente svelato il ruolo cruciale dei living standards come determinanti dei livelli di sopravvivenza (Bengtsson et al.) e le scelte riproduttive in epoca preindustriale (Tsuya et al.).
Per quanto diversificato, questo filone di studi ha una comune matrice teorica nella verifica del paradigma malthusiano, soprattutto là dove viene postulata l’esistenza sia di freni “preventivi” e “positivi” alla crescita della popolazione in relazione a soglie di sussistenza e livelli dei living standard.
Appare dunque evidente come l’utilizzo di serie storiche relative a salari e prezzi ha rappresentato la pietra angolare in numerosi studi di demografia storica. Per questo motivo, quanti – come chi scrive – sono impegnati in ricerche storico demografiche non possono che leggere con interesse il volume curato da John Hatcher e Judy Z. Stephenson, in cui viene ridiscussa la validità delle misure dei living standards, così come sono state proposte fino ad oggi. Come spiegano nell’introduzione i curatori del volume, il desiderio di giungere rapidamente a conclusioni univoche ha fatto sottovalutare in passato il problema della rappresentatività dei salari reali ricostruiti sulla base di informazioni facilmente reperibili. Come dimostrato da John Hatcher nel capitolo iniziale del volume, gran parte delle serie storiche disponibili relative ai salari inglesi sono state in gran parte ricostruite riferendosi ai lavoratori dell'edilizia e ai braccianti agricoli, basandosi su congetture riguardanti il numero di giorni lavorati ogni anno. In realtà, questi segmenti di lavoratori sono comunque piuttosto peculiari e scarsamente rappresentativi del resto della popolazione di riferimento, in quanto trascurano i redditi prodotti dai lavoratori non salariati. La critica di Hatcher riguardo alle serie dei salari reali costruite in passato non riguarda solo le fonti utilizzate, ma anche i metodi statistici di aggregazione, esclusivamente basati sul calcolo di medie, mediane o mode riferite a lavoratori appartenenti a diverse specializzazioni, senza tenere conto della variabilità intrinseca tra i diversi gruppi di lavoratori. Partendo da assunti simili, nel secondo capitolo “The Tyranny of Numbers”, Kent Deng e Patrick O'Brien dimostrano i limiti del dibattito sulla “grande divergenza” nello sviluppo economico tra l'Europa occidentale e l'Impero cinese, appunto perché fondato sul confronto improprio tra l’andamento dei salari reali. Secondo i due autori, la serie cinese dei salari reali fa infatti riferimento ad una proporzione di manodopera salariata che non era consistente abbastanza per essere rappresentativa di tutto il mercato del lavoro.
Le distorsioni che affliggono la misura degli standard di vita riguardano anche il caso italiano, come mostra Luca Mocarelli nel suo capitolo “What is Wrong with the History of Wages” incentrato sulla serie dei salari reali ricostruita facendo riferimento agli operai edili della Milano settecentesca. Tale serie, come evidenziato da Mocarelli, non solo risulta viziata da numerose lacune relative alle fonti, ma ha gravemente esagerato la convinzione che i livelli salariali italiani fossero significativamente più bassi di quelli in altri contesti europei. In realtà, la distorsione appare insita nel termine di paragone a cui rapportare i salari: i prezzi all'ingrosso dei cereali e non il prezzo al dettaglio del pane che subiva aumenti in misura significativamente minore perché regolato dalla autorità cittadine. In modo provocatorio, Mocarelli richiama l’attenzione sul fatto che qualsiasi sia il processo di interpolazione dei dati resta assai difficile porre rimedio a mancanze simili, che affliggono direttamente la validità della fonte. Se i salari milanesi sono stati sottostimati, quelli londinesi dei lavoratori edili nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, sono stati invece sopravvalutati. Judy Z. Stephenson mostra infatti come i salari reali ricostruiti dagli storici precedenti in realtà non erano “salari”, ma l'importo addebitato dagli appaltatori ai clienti per il lavoro svolto, mentre invece i lavoratori percepivano importi diversi in base alle loro abilità e qualifiche. La conclusione di questo capitolo è dunque quella che i “salari giornalieri” su cui poggia lo studio dei living standard nell’Inghilterra preindustriale non sono attendibili in termini di importi, numero di uomini o giornate di lavoro.
Considerando la stima degli standard di vita dei braccianti agricoli occasionali, nel capitolo “What is a Money Wage? Measuring the Earnings of Agricultural Labourers in Early Modern England”, Craig Muldrew ricostruisce la composizione del salario dei lavoratori agricoli in Inghilterra nella prima età moderna, dimostrando come non si trattasse di somme pagate direttamente in contanti, ma di emolumenti comprensivi anche di una varietà di servizi, offerta di cibo e altri benefici in natura (pascolo gratuito, spigolatura, legna da bruciare, etc. etc.). In questi termini, non è più possibile concepire il salario reale dei lavoratori agricoli come rapporto tra le somme in contanti percepite e il costo di un paniere di merci assunto come universalmente rappresentativo dei consumi dell’intera popolazione. Inoltre, come spiegato da Joyce Burnette, i salari rurali risentivano molto invece delle fluttuazioni dovute alla natura stagionale dei lavori agricoli, smentendo la credenza comune secondo cui i braccianti agricoli nelle fattorie inglesi godevano di un lavoro ben pagato durante tutto l'anno.
Ancora John Hatcher, in uno dei capitoli finali “Unreal Wages: Long-Run Living Standards and the ‘Golden Age’ of the Fifteenth Century”, osserva che l’aumento del tenore di vita registrato durante la famosa “Golden Age” del quindicesimo secolo è sì avvenuto, ma senza quell’aurea di prodigio economico attribuito dagli storici tradizionali. Contrariamente a quanto ormai comunemente condiviso, le fortune delle classi lavoratrici in questo periodo difficilmente possono essere considerate rappresentative degli standard di vita relativi alla popolazione nel suo insieme, soprattutto perché ampi settori della società non derivavano il proprio reddito unicamente dai salari o trovavano le proprie fonti di sostentamento esclusivamente acquistandole sul mercato.
Le critiche e le argomentazioni imbastite dagli autori dei saggi presentati nel volume risultano tanto più cruciali perché intaccano l’attendibilità delle principali raccolte di dati relative alla storia economica in Gran Bretagna, e più in generale in Europa e Asia. Gli stessi autori mostrano allo stesso tempo l’esistenza di un ampio margine di miglioramento riguardo non solo alla raccolta dei dati, ma anche ai metodi applicati per la determinazione dei salari reali. L’auspicio dei curatori appare dunque quello di un più generale cambiamento di prospettiva, muovendo dalla quantità alla qualità, e quindi dal desiderio di disporre di numerose basi di dati alla necessità di ridurre lo spettro delle fonti a quelle maggiormente attendibili.
Ad ogni modo, per quanto riguarda le applicazioni statistiche, anche relative all’impatto che le fluttuazioni dei salari reali possono aver avuto in epoca storica sul sistema demografico, resta da approfondire l’ampiezza del divario tra “vecchie” e “nuove” serie, ovvero tra quelle ricostruite in passato e le nuove elaborate alla luce delle considerazioni esposte nel volume. Quanto potranno modificare il quadro storico acquisito in precedenza i nuovi indici dei salari reali? Il volume pur ponendo alcune questioni di fondo, non ne chiarisce tutti gli interrogativi che ne scaturiscono. L’approssimazione che affligge gli indici dei salari reali riguarda certamente i valori assoluti, ma in che misura ne compromette le variazioni di breve e lungo periodo? Da questo punto di vista sarebbe necessaria un’analisi statistica più sistematica delle correlazioni tra le nuove serie correttamente ricostruite e le vecchie compromesse dalle distorsioni dimostrate nel volume.
Questi interrogativi non riguarderebbero i soli storici economici, ma coinvolgono anche gli altri storici quantitativi che, come detto in precedenza, indagano nel proprio dominio anche l’evoluzione degli standard di vita. In questi termini, la natura multidimensionale di quanto si intende misurare – i livelli del tenore di vita – potrebbe fornire ulteriori possibilità di verifica nello studio delle relazioni tra le grandezze monetarie e le misure biologiche (speranza di vita, stature, indici di massa corporea) provenienti dalle fonti di cui si è accennato all’inizio di questa breve nota.

Francesco Scalone
Università di Bologna

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