Discussione #8

Andrea Panaccione e Maria Grazia Meriggi discutono:

Stefano Merli,

Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900,

Firenze, La nuova Italia, 1972. 

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Se Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880 – 1900[1] rappresenta sicuramente l’opera principale di Stefano Merli, come ribadito e motivato criticamente anche nel saggio di Maria Grazia Meriggi su Stefano Merli, storico e militante, i suoi scritti sulla tradizione e sul movimento socialista costituiscono un’altra faccia importante del suo lascito storiografico, una tematica che lo ha accompagnato per tutta la vita e che è una chiave di comprensione della sua personalità culturale e scientifica.

I lavori di Merli su una storia politica del socialismo si sono sviluppati prevalentemente nel quadro nazionale, ma non sono riducibili ad esso, anche per le personalità dei soggetti studiati: ne è un esempio, per il socialismo degli anni ’30 del Novecento, il confronto tra Rodolfo Morandi e Otto Bauer, analizzato da Merli a partire dalla critica rivolta dal primo a Zwischen zwei Weltkriegen? del secondo[2]. Morandi, alla cui formazione Merli aveva dedicato particolare attenzione, sottolineandone la forte reazione anti-positivistica e anti-economicistica, avrebbe condiviso con Bauer l’esigenza di superamento della frattura tra socialdemocrazia e comunismo, ma trasferendola dal quadro della “politica di fronte popolare, che nasce eminentemente come una questione tattica”, a quella più radicale della questione di un “nuovo socialismo”. Alla costruzione di un “nuovo socialismo”, negli anni ’30, con l’analisi del Centro Socialista Interno come una nuova sinistra che va oltre l’opposizione tra Seconda e Terza Internazionale, e in quelli della seconda guerra mondiale e della Resistenza, saranno dedicate molte ricerche di Merli, culminanti nel volume su Fronte antifascista e politica di classe[3], e tese a recuperare a un socialismo che fosse in grado di sottrarsi alla stretta geopolitica e statalistica della Guerra Fredda l’eredità di figure come quelle di Eugenio Curiel e di Eugenio Colorni (oltre naturalmente allo stesso Morandi).

L’autonomia della cultura socialista come ispiratrice di un antifascismo di classe e della ricerca di una unità proletaria non riducibile alle mediazioni partitiche non si limita, per il Merli degli anni ’60 e ’70, alle figure sopra menzionate, ma si estende a personaggi che saranno al centro del suo impegno filologico, come Raniero Panzieri[4], e anche a un confronto con le personalità di Danilo Montaldi e di Gianni Bosio: in quest’ultimo, in particolare, Merli vede la “riscoperta del ruolo e della funzione del PSI, come ala rinnovatrice, in senso classista, del movimento operaio italiano” e riconosce la individuazione di una “tradizione di base del movimento operaio italiano”[5], che si collega alle prime esperienze di ricerca di Merli stesso nella rivista “Movimento operaio” dell’Istituto Feltrinelli, ispirata appunto da Bosio[6]. A “Movimento operaio” e a Bosio Merli si era richiamato anche nell’indicare il senso della propria ricerca bibliografica su Il Partito Comunista d’Italia 1921 – 1926 (“Annali Feltrinelli”, 3, 1960, pp. 656-739)[7].

Molti dei lavori di Merli sulla storia del socialismo italiano sono apparsi sulla “Rivista storica del socialismo”, fondata e pubblicata da Merli insieme a Luigi Cortesi dal 1958; altri, anticipatori di Proletariato di fabbrica, su “Classe”, che inizia le pubblicazioni nel 1969. Sono due realizzazioni importanti dell’attività di Merli come organizzatore di cultura e animatore di gruppi di ricerca caratterizzati dalla diversità degli approcci dei loro componenti e dalla valorizzazione delle differenze: qualcosa di simile alla sua idea costante di un socialismo come prefigurazione e formazione composita e plurale nelle ispirazioni e nelle esigenze che vi confluiscono.

La svolta degli anni ’80, che prelude all’ultima fase dell’attività storiografica di Merli, non mette in discussione, anzi si può dire che approfondisca e arricchisca, la sua idea di socialismo, ma ne valorizza altre figure, sembra mettere in secondo piano la ricerca dell’unità di classe, si concentra spesso nella denuncia di un fusionismo socialista espressione della subordinazione all’egemonia comunista[8] negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, che aveva coinvolto alcuni dei massimi dirigenti del partito come Pietro Nenni e Lelio Basso[9]. Alla base di questa svolta c’è sicuramente una adesione, anche sentimentale, al revanscismo socialista affermatosi con l’ascesa di Bettino Craxi alla direzione del PSI e alla ricerca di nuovi riferimenti che circola nella rivista “Mondo operaio” di quegli anni[10], ma soprattutto una presa d’atto di quella che viene definita la sconfitta storica del socialismo di sinistra, che si esprime nella lettera di Attilio Mangano e di Merli a Luciano Della Mea, con la quale paradossalmente si apriva, in risposta all’editoriale di Della Mea, il numero de “Il Ponte” dedicato al socialismo di sinistra[11], al quale io stesso e altri autori abbiamo contribuito senza probabilmente renderci conto che per alcuni degli ispiratori del fascicolo, come Mangano e Merli, si trattava di un “elogio funebre”. I due autori di quella lettera aperta prendevano congedo dalla “illusione di riprodurre (quasi in vitro) e di inverare finalmente, fuori dallo stalinismo, quella tattica della democrazia diretta (il piano socialista, i consigli di gestione, la Costituente della Terra ecc.) con la quale il socialismo di sinistra si riprometteva di trasformare il cartello del Fronte egemonizzato dal Pci in un movimento di massa autonomo, che trovasse una via inedita e non terzinternazionalista al potere”[12]. C’è inoltre, in questa fase dell’attività di Merli ma in continuità con tutta la sua produzione, un revanscismo specificamente storiografico, la preoccupazione di rivendicare la ricchezza di una propria tradizione di fronte a un partito comunista impegnato da decenni nella sistematizzazione e storicizzazione organizzate della propria storia.

Le figure che da adesso in poi assumono sempre maggiore rilevanza per Merli nella storia del socialismo italiano sono quelle di Ignazio Silone, nella cui direzione de “L’Avvenire dei lavoratori” Merli vede un esempio della “pluralità delle culture costitutive del Psi del dopoguerra” e del quale esalta la concezione di un socialismo liberale, etico, federalista, europeista[13]; Olindo Gorni, sostenitore di un socialismo cooperativistico, autogestionario, federalistico, alla presentazione dei cui scritti Merli stava lavorando immediatamente prima della morte improvvisa; Andrea Caffi, indicato come rappresentante della “tradizione proudhoniana” del socialismo italiano alle cui tesi su I socialisti, la guerra e la pace, concepite insieme a Giuseppe Faravelli e fortemente segnate dalla difesa dell’autonomia del movimento socialista rispetto a quello comunista e all’URSS anche durante la seconda guerra mondiale è in gran parte dedicato l’ultimo libro di Merli[14]; lo stesso Faravelli per le posizioni assunte durante la seconda guerra mondiale nell’emigrazione e poi in Italia, nell’immediato dopoguerra e poi nella direzione effettiva della rivista “Critica Sociale”, del cui archivio per il periodo 1945-1950 Merli ha curato la pubblicazione insieme a Pier Carlo Masini[15].

Un’idea ampia e plurale di socialismo, come un campo d’indagine solcato da linee spesso divergenti (ed egualmente meritevoli di essere studiate e capite), è alla base anche del lavoro decisivo svolto da Merli, alla fine degli anni ’80, per “Socialismo Storia. Annali della Fondazione Giacomo Brodolini”, una rivista segnata da una inedita apertura internazionale alla storia del socialismo in alcuni dei suoi momenti più caratterizzanti (il 1956, il rapporto con la costruzione europea, il rapporto con l’URSS e il suo mito di massa). Proprio nella presentazione della rivista veniva rilevato “il fallimento all’interno della tradizione socialista di ogni tentativo di stabilire una ortodossia ufficiale e una dogmatica in grado di emarginare e soffocare la dialettica a volte aspra e drammatica delle varie posizioni”[16].

Vorrei concludere con un cenno al volume dedicato a Merli, da me curato insieme a Luigi Cortesi[17] e che è stato, per Cortesi e per me, un modo di ribadire un legame di comunanza di interessi di ricerca, e del modo di viverli e di praticarli, compresi i passaggi a volte bruschi tra la passione documentaria e quella politica, un rapporto che era rimasto in piedi malgrado l’uscita di Stefano dalla “Rivista storica del socialismo” nel suo ultimo periodo. Il volume, nel quale sono presenti contributi specificamente dedicati a Merli e altri su temi che trovano un riscontro nelle sue ricerche, ha visto l’adesione di alcun importanti storici che hanno lavorato con lui nel fare della storia del movimento operaio un asse portante della storia contemporanea (Enzo Collotti, Franco Della Peruta, Giuliano Procacci, Renato Zangheri), che hanno interagito con Merli su specifici temi di ricerca (Aldo Agosti, Cesare Bermani, Enrica Collotti Pischel, Robert Paris), ma anche di coloro che si sono formati con lui (a cominciare da Maria Grazia Meriggi). La qualità e la rappresentatività dei contributori è essa stessa una testimonianza della centralità di Merli nella storiografia del socialismo e del movimento operaio.

Andrea Panaccione, Università di Modena e Reggio Emilia


 

Scrivere di Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900 di Stefano Merli a 50 anni dalla pubblicazione di un lavoro a mio parere allora come oggi epocale, che ha avuto, come l’apprendistato con il suo autore, un ruolo determinante nella mia formazione, pone alcuni problemi[18]. Nel 1994 alla morte di Stefano Merli scrissi per ricordarlo un saggio in cui mi riconosco ancora in larga parte e i cui contenuti citerò ampiamente[19]. Ma questa attualità, almeno dal mio punto di vista, di un testo quasi trentennale, a sua volta può apparire paradossale e indica anche che, almeno in apparenza ed esplicitamente, non se ne è praticamente più discusso. I temi che hanno suscitato maggiori dibattiti, sulla datazione delle origini del capitalismo, sulla possibilità di utilizzare per il caso italiano le analogie con il testo leniniano del 1905 Lo sviluppo del capitalismo in Russia, hanno lasciato il posto alla descrizione degli aspetti più specifici dei processi economici e del lavoro, alle vicende dei distretti e anche alla biografia dei protagonisti dell’Italia industriale. Nell’indice dei nomi, nelle note praticamente di tutti i testi di storia dei mondi del lavoro e di storia contemporanea che integrano gli anni della svolta del secolo – non solo italiani – il testo di Merli è tuttavia citato per le ragioni che tutti gli studiosi e le studiose hanno indicato, al momento della pubblicazione, come la parte più valida se non indiscutibile, e del resto la più corposa insieme al  secondo volume di documenti, quella che descrive “gli ergastoli dell’industria” (secondo la definizione che ne davano gli operaisti), il “genocidio pacifico”, “la legislazione sociale”, “il paternalismo”, “il salario” (e dunque il suo uso e le sue priorità nei bilanci familiari), “le lotte di fabbrica”.

Nel 1994 avevo scritto una serie di osservazioni che ritengo tuttora utili a leggere il “capolavoro” di Merli. Egli scrive il suo grande lavoro che, più che debitore, mi sembra consonante con il fondamentale lavoro di Edward P. Thompson The Making of the English Working class e che suscitò, come quest’ultimo, fortissime polemiche da parte degli storici portatori di una interpretazione più meccanicamente marxista della successione cronologica rivoluzione industriale-sviluppo economico-classe operaia.

Lo stesso titolo che parla non di classe operaia ma di proletariato di fabbrica, appunto, è indicativo. Merli - dialogando in sintesi con Rosario Romeo, Alexander Gerschenkron, con il Lenin dello Sviluppo del capitalismo in Russia - anticipa di circa un ventennio la nascita del capitalismo industriale in Italia non facendolo coincidere con la nascita dell’industria pesante sostenuta dai governi con una accorta politica fiscale e con l’affermarsi della metallurgia e dell’industria dell’auto, ma con un modo specifico di disciplinamento della forza-lavoro attraverso la perdita dell’autonomia garantita dal controllo del mestiere, fuori e dentro la fabbrica come luogo fisico. Merli ricostruisce dunque sia il proletariato di origine rurale, sia la pluriattività, sia la sconfitta della “mano” operaia. Certamente la centralità dell’industria tessile nello sviluppo economico e sociale italiano ripercorre l’analisi marxiana del I libro del Capitale; ma Merli non riproduce ideologicamente quei processi: coglie attraverso il brulichio straordinario delle sue fonti un processo sociale nel suo farsi. Il lavoro di Merli è popolato di operaie tessili, cappellai, guantai, braccianti e salariati delle cascine che si spingevano fin nelle vicinanze del centro di Milano, di trecciaiole fiorentine, di artigiani impoveriti: un proletariato sottoposto a una sofferenza e a uno spaesamento vicino a quello degli “inglesi nati liberi” delle società operaie descritti da Thompson che attingono la forza di resistere agli “ergastoli” della fabbrica meccanizzata dalla dimensione familiare e comunitaria, dal dissent religioso e dal radicalismo giacobino. Nel lavoro di Merli – né storia sociale né storia politica di una esperienza di crescita sociale – si intrecciano descrizione delle condizioni, organizzazione e tecniche del lavoro, orari, salari, razioni alimentari e condizioni igieniche, rapporti gerarchici, vicinanza paterna e durezza autoritaria (nella manifattura e soprattutto nel lavoro domestico), violenza su donne e bambini che continuava la disciplina parafamiliare della bottega artigiana su nuove basi e tracciato dell’organizzazione. Leghe di mestiere, leghe di resistenza, il primo sorgere del Partito Operaio Italiano[20] e delle Camere del Lavoro, tecniche embrionali di contrattazione, comizi di Turati all’Arena guardati dal punto di vista del loro pubblico militante contribuiscono alla modernità italiana quanto gli investimenti scarsi della grande industria in formazione[21].

Il “capolavoro” di Merli – nel senso che gli sarebbe stato caro della prova di abilità degli operai professionali[22] – suscitò reazioni diverse, in cui si accompagnavano le critiche metodologiche e interpretative soprattutto sui tempi e modi della formazione dell’Italia industriale e la registrazione di un metodo innovativo  di centralità delle fonti e di una straordinaria ricchezza documentaria. Due aspetti sono particolarmente criticati di questa «contrapposizione secca e frontale»  con la storiografia “gramsciana” (cioè etico-politica, alla ricerca delle fonti politico-culturali del movimento operaio in un paese “arretrato”…) e in egual misura con la “storiografia borghese post-crociana” che “ha tentato di risolvere la crisi della ideologia capitalistica [attraverso lo studio] delle strutture e dello sviluppo industriale» al fine di deligittimare le organizzazioni dei lavoratori in nome della «razionalità dello sviluppo capitalistico»[23]. Il primo: il confronto col dibattito internazionale sulle forme e i tempi dello sviluppo capitalistico; e il secondo: il ruolo delle forme associative elementari del mutualismo, del movimento camerale e in prospettiva dello stesso partito socialista nel dare voce ai conflitti e alla soggettività dei lavoratori nel loro “assalto al cielo”.

Riassuntivamente, Stefano Merli definisce il capitalismo italiano come un insieme di forme intermedie che andavano dalla manifattura al lavoro a domicilio nelle campagne progressivamente spinte alla subordinazione rispetto alla fabbrica meccanizzata. In questa fenomenologia, più che teorizzare la priorità del modello inglese, egli incontra innanzitutto i tessili e i lavoratori e soprattutto le lavoratrici di origine rurale, mentre l’industria meccanica esordisce anche con l’apporto degli artigiani e dei lavoratori qualificati. Accanto alle tessili e alle lavoratrici a domicilio ben oltre il Nord più sviluppato Merli incontra i lavoratori individuati e organizzati dal Partito Operaio che raccolse lavoratori agricoli, salariati e anche mezzadri ridotti alla condizione di salariati nel pieno della crisi agraria degli anni Ottanta, spinti verso i cantieri edili e ferroviari che popolavano l’Italia e in particolare la Milano degli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo. L’organizzazione bracciantile – agli esordi, negli anni descritti da Merli, così importante ma anche così localizzata nella “Padania” e in isole agricole pugliesi – resta fuori dall’orizzonte della ricerca. Merli analizza il processo seguito dagli operaisti: lavoratori edili dei numerosissimi mestieri di recente inurbamento o pendolari che apprendono “la scienza” del conflitto in una situazione in cui le imprese sostituivano un livello elevatissimo di sfruttamento alla scarsità di capitali d’investimento.

Accennerò qui sinteticamente alla ricezione del volume in recensioni attraverso le quali gli autori e le autrici hanno anche esposto, in contrasto o in parziale consonanza con Merli, il proprio programma scientifico; è il caso in particolare di una recensione molto tardiva che aveva implicato una lunga riflessione, quella di Andreina De Clementi[24] che aveva partecipato, d’altra parte, all’ultima fase della rivista di storia innanzitutto politica diretta da Luigi Cortesi e Stefano Merli, la Rivista storica del socialismo, e che proprio a partire dal periodo di quegli appunti ha iniziato un lungo percorso di importante storica delle migrazioni interne e transoceaniche, della formazione di un mercato del lavoro internazionale proprio attraverso le migrazioni, del ruolo delle reti famigliari e comunitarie.

Un primo intervento fortemente critico venne da Giuliano Procacci[25] e si rivolgeva ai due saggi pubblicati su Classe nel giugno 1969 che anticipano sinteticamente i temi del volume. Procacci discute le forme in cui Merli si confronta con le tesi di Gerschenkron (ma il centro del ragionamento di Stefano Merli non è questo confronto) e osserva che «per comprendere i modi e le forme del processo di industrializzazione in Italia ci serve più un riferimento alla realtà economica europea (tedesca, russa) della fine del secolo XIX e al condizionamento storico reale che essa costituì che non alla rivoluzione industriale inglese»[26].

Una critica che retrospettivamente può essere accolta e del resto è ripresa su un altro piano dal già citato intervento di Andreina De Clementi che  evoca un mercato del lavoro internazionale.

Il primo storico che ha discusso il volume di Merli in un’ampia recensione è stato Giuseppe Barone in Studi storici[27]. Barone dimostra – proprio sulla rivista più rappresentativa della tradizione storiografica con la quale Merli è più polemico, Studi storici – grande rispetto per la capacità di individuazione e di uso delle fonti, ma rimprovera a Merli un non sempre esaustivo confronto con la bibliografia, che è un altro aspetto della priorità delle fonti. Un aspetto che oggi, quando un volume “oceanico” come quello di Merli sarebbe difficile da scrivere e da pubblicare, può apparire particolarmente “anacronistico”. Le sue osservazioni sul rapporto fra l’appuntamento mancato del 1898 e la lotta “governata” dai riformisti alla svolta del secolo sono interessanti e vi torneremo nelle conclusioni di questa riflessione.

Louise Tilly intervenne in seguito associando la recensione del volume di Merli a quello di Paolo Spriano[28]. Anche l’intervento di Tilly che, come quello di De Clementi, esce quattro anni dopo la pubblicazione – e sono anni di grande progresso di quelle ricerche – ritiene che quello di Spriano sia un classico lavoro di storia politica tradizionale e che quello di Merli si raccomandi invece per ricchezza di fonti che, per la prima volta, danno voce agli anonimi lavoratori ma che la torsione ideologica della sua interpretazione consegni al lettore più domande che risposte.

Anticipiamo poi le riflessioni di Stefano Musso che, dopo avere ricordato l’influsso dei Quaderni Rossi di Raniero Panzieri sull’innovazione storiografica a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, osserva[29]: «Merli negava lo schema interpretativo tradizionale fondato sulla relativa arretratezza dell’industria e della borghesia italiana e sulla necessità della classe operaia di farsi carico delle inadeguatezze dello sviluppo diventando “classe generale”. […] Le origini del movimento operaio o meglio del protagonismo operaio sulla scena dei conflitti sociali venivano così sganciate dall’idea di una arretratezza strutturale accompagnata a una precocità ideologica derivante dalla tradizione politica risorgimentale», presente in operai di mestiere ancora ridotti per il lento sviluppo dell’industria meccanica e di altri settori industriali di derivazione artigianale come il Libro e il Legno. La polemica con la tradizione storiografica gramsciana – prendiamo questa definizione nel senso più generico – era anche al centro del lavoro della Rivista storica del Socialismo, unico aspetto di continuità fra il Merli storico dei gruppi, delle minoranze e delle culture politiche e il Merli storico dei mondi del lavoro.

Mi sento di dissentire, invece, da Giuseppe Berta secondo il quale «si potrebbe osservare che a distanza un libro di cui si parlava molto negli anni settanta non abbia fatto scuola […]. Il libro di Stefano Merli parve fin d’allora un’opera sopra le righe le cui ambizioni e i cui ambiti analitici non erano riusciti ad amalgamarsi»[30].

Queste ambizioni da parte di uno studioso in larga misura autodidatta possono apparire “sopra le righe” ma hanno rappresentato tuttavia anche le ambizioni se non “di una generazione” – sarebbe una formula retorica – di una componente importante della nostra generazione che ha rivolto alle vicende del mondo del lavoro le domande che ci erano state poste non solo dalle lotte vincenti ma anche, se non soprattutto, dalle sconfitte che già gli anni Ottanta infliggevano ai mondi del lavoro in Italia e in Europa.

Invece le affermazioni di Merli sulla insufficienza e tendenziosità delle statistiche ufficiali, che molti critici gli hanno rimproverato, non gli hanno impedito di utilizzarle e di compararle alle fonti più diverse, compresa la stampa operaia con articoli e lettere, che documentano soprattutto quello che Merli chiama “il genocidio pacifico”. D’altra parte, anche il giudizio sul ruolo del mutualismo delle mutue “generali” e delle camere del lavoro, promosse almeno inizialmente dalle amministrazioni municipali moderate e anche conservatrici, era ai tempi della pubblicazione del volume al centro di un intenso dibattito internazionale.

Nella sua accuratissima analisi degli “Appunti” già citati, De Clementi indica la necessità di andare anche più a fondo nell’analisi del processo non sempre immediato con cui i lavoratori di origine rurale, spesso utilizzati come “crumiri”, accedono alla consapevolezza della loro condizione e al rapporto fra questi e i lavoratori dotati di esperienza organizzativa precedente.

Critiche analoghe ma più elaborate sono quelle di Barone che, come ho già ricordato, segnala due aspetti critici. Il già citato giudizio, a suo parere troppo univoco, del movimento camerale che lo schiaccia sulle esigenze delle origini – regolarizzazione del mercato del lavoro – con l’attribuzione innanzitutto alle leghe di mestiere di una pratica di resistenza e di conflitto.E quello sull’“assalto al cielo” rappresentato, secondo Merli, dai movimenti insurrezionali del 1898. A proposito del primo rilievo possiamo dire certamente che tale giudizio, non ascrivibile al solo Merli, non solo non gli impedisce ma gli consente di seguire passo passo i rapporti fra le leghe e le camere del lavoro, rapporti che sono esattamente i ponti che trasformano le camere del lavoro in strumenti importanti di collegamento e talvolta generalizzazione dei conflitti.  Insomma, mi sembra che prevalga in questo caso una straordinaria ricchezza documentaria ottenuta sollecitando le fonti a stampa anche più periferiche (ma non quelle che pure Merli mi ha ampiamente sollecitato a utilizzare degli archivi dei pubblici poteri avversari, principalmente emananti dal Ministero dell’Interno).

Il giudizio sull’“assalto al cielo”, d’altra parte, non può essere rimosso ma va ridimensionato, anche se, ad esempio nella recensione di Barone, l’analisi è attenta e non polemica. Innanzitutto questa forzatura, all’interno di un amplissimo volume, si esprime in forma esplicita solo nelle poche pagine della conclusione. Inoltre, certamente, la dimensione nazionale di quel movimento, in tempi nei quali fino allora erano scarsissimi i collegamenti persino fra gli scioperi, viene interpretata come il segno di una potenzialità implicita da cui i dirigenti socialisti non solo vollero prendere le distanze ma non seppero individuare le potenzialità (e ciò, in questo caso, valse per il socialista in “gilé de gess” Filippo Turati come per l’operaista Costantino Lazzari). Tuttavia  al di là di questo giudizio, l’analisi della possibile causa di questa incapacità mi sembra tuttora degna di riflessione. Mentre  «il capitale  veniva agglomerando la classe operaia nella fabbrica e intorno alla fabbrica […] un’organizzazione politica a livello della condizione di fabbrica e più in generale del regime di fabbrica era assente; assente quella del sindacato che organizzava prevalentemente il lavoratore fuori dalla fabbrica e lasciava la prospettiva politica all’azione parlamentare del partito; assente quella del partito che non conosceva organizzativamente il luogo dello sfruttamento  e tendeva a catturare la classe operaia attraverso istituti interclassisti come i circoli elettorali; assente anche l’organizzazione anarchica detta “a tizzo acceso”»[31].

Pochissimi anni dopo una lotta guidata e diretta in sintonia fra sindacati emergenti e partito socialista, lo sciopero generale genovese del dicembre 1900, segnava il passaggio del conflitto operaio da manifestazione di soggettività che le classi dirigenti potevano reprimere come “turbativa dell’ordine pubblico” a fattore di crisi e ricomposizione politica. Il giudizio severo di Merli su questo passaggio può essere attribuito a un corto circuito oggi irriproponibile con il suo presente, con le speranze di quel presente[32]. Ma rileggere il volume ci permette comunque di ripercorrere i processi non solo degli “assalti al cielo” ma della richiesta e della pratica delle riforme e anche dei momenti di rivoluzione passiva. Il corpo a corpo coi fatti, con le esperienze e le soggettività  dei “lavoratori e delle lavoratrici comuni” costituisce ancora un modello, un esempio e un programma di lavoro.

Perché dunque consiglio vivamente la lettura di questo “capolavoro” agli storici e alle storiche delle generazioni più recenti? Per ragioni analoghe a quelle che hanno prodotto testi di bilancio storiografico e metodologico nel 2013, a cinquant’anni dalla pubblicazione del lavoro di Edward P. Thompson anche qui citato[33] . Si tratta di “classici” per più aspetti. La massa di conoscenze da essi prodotte non è stata, molto spesso, superata e semmai può suggerire nuove piste di ricerca locali.

Inoltre, oggi le strette imposte dalle forme di valutazione della ricerca universitaria e la resistenza degli editori a pubblicare testi specialistici che non siano divulgativi o utilizzabili per corsi universitari costringe spesso i giovani studiosi e le giovani studiose a limitare alla tesi di dottorato la stesura di una ricerca su fonti di prima mano, fonti d’archivio che rappresentano anche un labirinto, una strada che prevede anche delle sorprese. Volumi come quelli di Merli sono uno stimolo a cercare, nonostante gli ostacoli, di mantenere nelle proprie ricerche la centralità di queste fonti primarie, garanzia di utilità per il lettore che può aprirsi, grazie ad esse, a molteplici interpretazioni. Infine, il testo qui presentato espone i contenuti politici, culturali e subculturali impliciti nei comportamenti di lavoratori e proletari nella molteplicità delle loro condizioni.

 

Maria Grazia Meriggi,

Università di Bergamo

 

 

 

 

 


[1] Firenze, La Nuova Italia, 1972.

[2] R. Morandi, Ricostruzione socialista. Il socialismo integrale di Otto Bauer, in Id., La democrazia del socialismo 1923 - 1937, Torino, Reprints Einaudi, 1975, pp. 77-85. Questa e le altre raccolte documentarie, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica 1945 – 1948, ivi, 1960, e Il partito e la classe 1948 – 1955, ivi, 1961, sono i principali contributi di Merli all’edizione degli scritti di Morandi.

[3] Bari, De Donato, 1975.

[4] L’interesse per il Panzieri dei “Quaderni rossi”, ma già per quello socialista e della condirezione di “Mondo operaio”, ha prodotto una significativa serie di edizioni: R. Panzieri, L’alternativa socialista. Scritti scelti 1944 – 1956, a cura di S. Merli, Torino, Einaudi, 1982; R. Panzieri, Dopo Stalin. Una stagione della sinistra 1956 – 1959, a cura di S. Merli, Venezia, Marsilio, 1986; R. Panzieri, Lettere 1940 – 1964, a cura di S. Merli e Lucia Dotti, Venezia, Marsilio, 1987; R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni Rossi” 1959 – 1964, Scritti scelti, a cura di S. Merli, Pisa, BFS, 1994.

[5] S. Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 30 e 31.

[6] In “Movimento operaio” Merli aveva pubblicato un saggio su La democrazia “radicale” in Italia (1866 – 1898), N. 1, 1955, pp. 31-64, che è anche una ricerca sulle origini del socialismo italiano nei problemi lasciati aperti dalla soluzione moderata del Risorgimento (“la questione sociale”), nella varietà delle correnti che vi confluiscono e nel rapporto con le insufficienze e contraddizioni della democrazia radicale: la coscienza dei socialisti di rappresentare un forza nuova e diversa ne indicava fin dalle origini il protagonismo nella storia italiana che per Merli sarebbe stato sempre un dato fuori discussione.

[7] “Se si vuole era l’estensione del metodo di lavoro di ‘Movimento operaio’ (il cosiddetto ‘filologismo’) dalla storia del movimento socialista a quella del movimento comunista” (Fronte antifascista e politica di classe, cit., p. XLII, nota 77).

[8] La Presentazione degli atti del convegno del 1975 Da Togliatti alla nuova sinistra (Roma, Alfani, 1976) sarebbe stata la più esplicita formulazione dell’idea di un superamento dell’egemonia politico-culturale del PCI affidato alla radicalità del movimento del 1968. In seguito sarebbe subentrata la progressiva presa d’atto di una “nuova sinistra” che non riusciva a liberarsi dell’egemonia comunista e la ricerca di altre direzioni e di altri riferimenti.

[9] Si vedano in particolare: S. Merli, Il “partito nuovo” di Lelio Basso, Venezia, Marsilio, 1981, e Idem, 1945 – 1948. Tra due rivoluzioni? Alcune ipotesi sulla “rivoluzione democratica” e “il socialismo integrale” di Pietro Nenni, in Scritti per Mario Delle Piane, Napoli, E.S.I., 1986, pp. 419-439.

[10] Il clima intellettuale del periodo e l’orgoglio di partito dei socialisti per la ripresa di una lotta per l’egemonia a sinistra sono ben descritti nella ricostruzione curata da Giovanni Scirocco: Bettino Craxi – VirgilioDagnino – Luciano Pellicani, Il Vangelo socialista. Rinnovare la cultura del socialismo italiano, Torino, Aragno, 2018. Merli è stato sicuramente coinvolto in questo clima, pur dovendo prendere atto, di lì a pochi anni, della mancanza (il “non esserci”) di un partito socialista autonomo dai condizionamenti di un sistema politico paralizzato e inquinante.

[11] Si veda nel numero monografico de “Il Ponte”, Viva il socialismo. Contributi sul socialismo di sinistra, novembre-dicembre 1989, A. Mangano e S. Merli, Ripensando la politica unitaria. Lettera aperta a Luciano Della Mea, pp. 17-34.

[12]Ivi, pp. 30-31.

[13] Si veda l’Introduzione di Merli, Il laboratorio socialista de “L’Avvenire dei Lavoratori”, al reprint del giornale (1944-1945), Milano, Istituto europeo studi sociali, 1992.

[14] S. Merli, I socialisti, la guerra, la nuova Europa, Milano, Fondazione Anna Kuliscioff, 1993.

[15] Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Il socialismo al bivio. L’archivio di Giuseppe Faravelli, 1945-1950, a cura di P. C. Masini e S. Merli, “Annali”, a. XXVI, 1988/1989.

[16]Perché Socialismo Storia / Socialism History, “Socialismo Storia / Socialism History. Annali della Fondazione Giacomo Brodolini”, N. 1, 1987.

[17] L. Cortesi – A. Panaccione (a cura di), Il socialismo e la storia. Studi per Stefano Merli, Milano, FrancoAngeli, 1998.

[18] 2 voll., Firenze, La Nuova Italia 1972. Seconda edizione in un solo volume 1976.

[19] “Stefano Merli storico e militante, con una bibliografia a cura di David Bidussa e una postilla di Giorgio Galli”, in Ventesimo secolo, nn. 11-12, maggio-dicembre 1994.

[20] Che ho studiato per la convergente influenza di Stefano Merli e Franco Della Peruta.

[21] Per analoghe osservazioni, si veda Maria Grazia Meriggi, “Stefano Merli storico e militante”, cit., p. 253.

[22] “Capolavoro” era il pezzo prodotto “a regola d’arte” per ottenere la qualifica di operaio professionale. Mi sembra che questa formula sia adatta a uno storico come Merli che ha sempre praticato e rivendicato una ricerca artigianale in un costante corpo a corpo con le fonti.

[23] Stefano Merli, Proletariato, cit., pp. 5 e 3, citato in Maria Grazia Meriggi, “Stefano Merli storico e militante”, cit., p. 256.

[24] “Appunti sulla formazione della classe operaia in Italia”, Quaderni storici, n. 32, maggio-agosto 1976, pp. 684-728.

[25]La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Roma, Editori Riuniti 1970, pp. 7-19.

[26]Ibid., p. 19, nota.

[27] “La formazione della classe operaia in Italia”, a. 14, n. 3, 1973.

[28]Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Torino, Einaudi 1971, in The journal of modern history, vol. 48, n. 2, 1976, passim e in particolare p. 339.

[29] “Gli operai nella storiografia contemporanea. Rapporti di lavoro e relazioni sociali”, Introduzione in Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento,  Annali, anno Trentatreesimo, Milano, Feltrinelli 1997, passim e in particolare pp. XV-XVI.

[30] “Introduzione” di Giuseppe Berta e Giandomenico Piluso a Duccio Bigazzi, La Grande fabbrica: organizzazione industriale e modello americano alla Fiat dal Lingotto a Mirafiori, Milano. Feltrinelli 2000.

[31]Proletariato di fabbrica… seconda edizione, 1976, cit., pp. 856-857.

[32] Processi analoghi non sono solo italiani, naturalmente. La Cgt accusava la rappresentanza politica socialista che divideva i lavoratori secondo scelte e affiliazioni ideologiche, invece di unirli in base alla loro condizione nel processo di produzione immediat , e aveva ratificato tale posizione nel 1906 con la Charte d’Amiens, ma dagli anni Dieci in poi, dopo gravi sconfitte, si avvicinò in parte ai socialisti, nonostante le persistenti polemiche.

[33] Rimando al mio intervento “Il formarsi della classe operaia. Rileggendo E.P. Thompson” nella rivista on line Machina, 27 settembre 2020. Sono tornata su temi analoghi sulla stessa rivista il 6 settembre 2022.