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L’ultima epidemia del secolo breve: il colera del 1973

di Marcello Anselmo

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La pandemia di Covid19 ha reso l’Italia il primo paese in cui si è manifestata un’infezione di massa in Europa Occidentale nel nuovo Millennio. Parliamo dello stesso contesto a capitalismo avanzato che è stato attraversato dall’ultima epidemia del Secolo Breve. 
Dalla fine di agosto all’inizio di ottobre del 1973 le principali città del mezzogiorno italiano, Napoli, Bari e Cagliari, furono toccate dalla VII pandemia di Colera (ceppo del vibrio El Tor) iniziata nel Subcontinente indiano nel 1961 e terminata nel 1975 ad Odessa, allora nel territorio dell’URSS. 
Sebbene l’episodio venga, in modo approssimativo, circoscritto alla metropoli partenopea, in realtà si trattò di un fatto sociale, politico ed economico che ebbe conseguenze significative in tutto il territorio nazionale. L’episodio epidemico, di per sé, ebbe numeri di contagi e vittime contenuti. Complessivamente in tutti i focolai si registrarono 277 contagi e 24 morti, la maggior parte delle quali (19), avvenute a Napoli città, nel cui ospedale – il Cotugno, dedicato alle malattie infettive e diretto dal medico ed esponente del PLI Ferruccio De Lorenzo - ci furono 822 ricoverati, di cui 126 pazienti positivi, 661 negativi e 11 portatori sani (Bollettino Istituto Superiore di Sanità, novembre 1973). Nosocomio che balzò agli onori delle cronache nazionali per la fotografia che immortalò il gesto scaramantico (le corna) dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone durante la sua visita ufficiale, e per i reportage pubblicati dal Times e Le Monde che descrissero la confusione, l’improvvisazione e l’approssimazione che ne caratterizzarono l’attività durante l’emergenza epidemica. Articoli che, al tempo, furono accolti con sdegno dalla direzione sanitaria e dall’amministrazione comunale (nonché da esponenti di spicco della compagine governativa democristiana), ma che trovano riscontro, a distanza di anni, nei documenti della Prefettura di Napoli e del Gabinetto del Ministero degli Interni. Il contenimento dell’infezione, senza dubbio, fu conseguenza della campagna di vaccinazione della popolazione che, per quanto riguarda la sola città di Napoli e la sua area metropolitana, somministrò all’incirca 1.200.000 dosi attraverso una rete di centinaia di centri vaccinali gestiti dalle autorità sanitarie così come da organismi di base, sindacati, partiti e perfino dal personale sanitario della NATO, in quegli anni acquartierata fortemente nel territorio cittadino. 
Il colera, dunque, fu non una catastrofe naturale ma un disastro antropico. L’epidemia fece emergere in modo drastico un insieme complesso di elementi sommersi ma, tuttavia, caratterizzanti della condizione economica, sociale e igienico-sanitaria del Mezzogiorno italiano. La Napoli del 1973 era una metropoli in cui convivevano strati sociali eterogenei, segnati da profonde disuguaglianze. Ad un ceto medio impiegatizio e una classe operaia “ufficiale”, radicata nei poli di sviluppo industriali della siderurgia (Italsider) e della metalmeccanica collegata alla cantieristica navale nonché alla lavorazione agroalimentare, corrispondeva un proletariato marginale e precario impiegato nei settori più disparati. Si tratta di una configurazione storica che trovava fonte di reddito in attività situate nella zona grigia del lavoro nero e informale. In particolar modo, il settore calzaturiero e della produzione di guanti rappresentava una realtà lavorativa estremamente articolata e basata su un forte decentramento produttivo e sulla diffusione del lavoro domiciliare. Nel centro storico napoletano decine di abitazioni erano in realtà micro officine di una fabbrica diffusa in cui si lavorava senza alcuna garanzia e nessun controllo. Zone urbane caratterizzate da un alto indice di sovraffollamento e promiscuità, in cui la nocività dell’ambiente si mescolava alla nocività dell’attività produttiva. Bassi, sottoscala, abitazioni buie e umide erano i reparti di una fabbrica diffusa ma nascosta. Invisibile anche agli occhi del PCI e delle organizzazioni sindacali che contavano il proprio bacino elettorale, soprattutto, nella classe operaia formale, relegando i lavoratori del proletariato marginale ad una rappresentazione di plebe e sottoproletariato. Qualche anno prima, la candidata alla camera per il PCI Maria Antonietta Macciocchi nel suo Lettere dall’interno del PCI a Louis Althusser aveva criticato il distacco e la miopia degli apparati di partito rispetto alla complessa realtà sociale di tutta l’area metropolitana del napoletano, evidenziando la distanza che il partito aveva con una componente sociale per niente parassitaria ma, al contrario, protagonista di un’attività economica e produttiva decisiva per il territorio. Il PCI, fino ai giorni del colera, relegava il proletariato marginale a componente del sottosviluppo che segnava il meridione italiano, derubricando la complessità della configurazione sociale a relitto di una società ancora lontana dalla modernizzazione. La sottooccupazione, l’occupazione precaria (tipica del settore edile che negli anni ’60 fu il motore del reddito delle classi subalterne grazie alla speculazione edilizia) e il lavoro nero e minorile erano le condizioni strutturali di un ingente numero di uomini e di donne di generazioni diverse, così come l’alto tasso di disoccupazione stimolava la ripresa di un importante fenomeno migratorio. 
La condizione del proletariato marginale si ritrovava, più che nell’attenzione del principale partito comunista dell’Europa occidentale, nelle pratiche del PSIUP, de Il Manifesto nonché di gruppi della sinistra rivoluzionaria e dei cattolici del dissenso. Lotta Continua, successivamente ai fatti di Reggio Calabria del 1970, provò a radicarsi ulteriormente a Napoli (attraverso la rivista dedicata alla questione meridionale “Mo’ che il tempo di avvicina…”, che usciva con il quotidiano) individuando nel proletariato marginale il soggetto di riferimento per la sua attività. Il lavoro politico di LC, a differenza di quanto avveniva nelle metropoli industriali del Settentrione, rivolse la propria pratica da un lato alla condizione carceraria attraverso la Commissione Carceri da cui scaturì l’ossatura dei Nuclei Armati Proletari, dall’altro fu il motore di un intervento sociale e politico nei quartieri del centro storico di Napoli, promuovendo la nascita della Mensa dei Bambini Proletari di Montesanto, un’inusuale attività di base dedicata alla lotta contro la malnutrizione infantile e il “fatalismo sociale”. La Mensa aggregava, intorno ad un nucleo originario di LC, militanti provenienti da diverse esperienze politiche che, in modalità e forme disparate, avevano lavorato tra i baraccati e il proletariato marginale nel corso degli anni ‘60. 
L’emergenza sanitaria legata all’esplosione dell’epidemia di colera vide l’organizzazione di una miriade di pratiche sociali che spaziavano dall’attività di centri vaccinali così come di attività sanitarie di base (negli anni successivi, proprio a partire da quest’esperienza, iniziò la formazione della struttura dei centri sanitari popolari in tutta l’area metropolitana) fino all’organizzazione di gruppi di sostegno alla condizione femminile e del lavoro precario. La pratica di inchiesta militante realizzata a traino dell’attività della Mensa e insieme al gruppo del Centro di Coordinamento Campano, fornì elementi analitici concreti per ridefinire l’idea stereotipata di sottoproletariato e della plebe di lazzaroni. Dal lavorio politico, analitico e militante emerse una configurazione sociale complessa e articolata che definiva una classe operaia marginale, precaria, sottopagata e priva di garanzie impiegata nella fabbrica diffusa nascosta tra i vicoli della città antica e i nuovi agglomerati periferici. Si trattava, come accennato, di decine di nuclei familiari occupati nel settore calzaturiero e della produzione di guanti che aveva ristrutturato la propria filiera attraverso il ricorso massiccio al lavoro domiciliare (trasferendo quindi il lavoro operaio nonché parte delle macchine come la Tomaia nelle case delle operaie e degli operai) e al lavoro nero. Ma non solo, anche la produzione di fiori di carta e di plastica, microattività di tessile e sartoria, composizione di bomboniere (settore da sempre fiorente nel napoletano) erano ulteriori comparti significativi della fabbrica nascosta. A questa classe operaia sommersa, inoltre, il colera affiancò le centinaia di lavoratori del settore del commercio informale, della rivendita di cibo ambulante, impiegati nell’intrattenimento, nella ristorazione, del turismo nonché del settore ittico e della mitilicoltura che videro scomparire, in poco più di quattro settimane, ogni fonte di reddito.
Un esercito di lavoratori che finì in parte con l’ingrossare il florido contrabbando di tabacchi lavorati ma che, parallelamente, iniziò a dar vita ai comitati di disoccupati organizzati. 
La mobilitazione delle organizzazioni e dei gruppi di base durante l’epidemia di colera del 1973, in sintesi, rese possibile l’avvio di un processo di emancipazione e rivendicazione di configurazioni storiche fono a quel momento del tutto escluse tanto dalla pratica quanto dalla teoria politica predominante. Si trattò, senza dubbio di un processo complesso che necessita ancora di studi ed approfondimenti, ma tuttavia si possono iniziare ad individuare due piste di ricerca estremamente interessanti finora assai poco frequentate dalla storiografia sociale e politica. 
L’emersione della diffusione del lavoro domiciliare e nero dell’industria calzaturiera, grazie alle inchieste e al lavoro militante di base, portò alla luce l’esistenza di patologie specifiche che affliggevano giovani operaie come la polinevrite da collanti. Si trattava di una sindrome dovuta alla sovraesposizione delle lavoratrici a collanti nocivi che comportava la paralisi parziale o totale degli arti inferiori e superiori. Sindrome che veniva, sistematicamente, ignorata dall’Ispettorato del lavoro. Tra il 1973 e il 1975 vennero documentati centinaia di casi che costrinsero alla mobilitazione non solo i gruppi di base, ma anche il sindacato e il PCI, arrivando ad un processo giudiziario che si risolse con la condanna di diversi imprenditori del settore e il riconoscimento della polinevrite come malattia professionale da parte dell’Inail. La nocività del lavoro operaio, sebbene frammentato e sommerso, emerse come oggetto di lotta e argomento del discorso politico.
Nei primi giorni dell’ottobre del 1973, ad epidemia non ancora conclusa, centinaia di disoccupati si affollarono nei pressi dell’ufficio di collocamento cittadino che bandiva cento posti per il servizio locale di nettezza urbana. I disoccupati reclamavano la trasparenza nelle assunzioni denunziando il clientelismo che caratterizzava l’attività istituzionale. Tra la folla si era inserito un folto gruppo di neofascisti del Movimento Sociale Italiano, che provava a ripetere lo schema della Rivolta di Reggio Calabria. Ma la reazione dei disoccupati fu di tenore assai diverso, scacciando i fascisti e scontrandosi con le forze dell’ordine intervenute a sedare le colluttazioni. Fu questo il momento in cui ebbe inizio la costruzione dei comitati di quartiere di disoccupati organizzati che diedero vita ad un movimento di rivendicazione durato fino al principio degli anni ’90. Disoccupati che non erano numeri statistici ma uomini e donne, per altro inseriti in dinamiche di lavoro nero e sottopagato, che rivendicavano la propria soggettività nei confronti delle istituzioni e dei corpi intermedi. Da quel primo momento organizzativo, il movimento diventò una realtà capace di influire sulle strategie di consenso del PCI (che nel 1975 elesse il primo sindaco comunista di Napoli, Maurizio Valenzi) e della CGIL, così come diventando interlocutore privilegiato dei gruppi extraparlamentari. 
L’infezione colerica del 1973 a Napoli, dunque, si innestò su una situazione di criticità economico-sociale complessa, una sorta di punto di non ritorno di un modello di sviluppo e modernizzazione, da più lati, derubicato ad una semplice condizione di sottosviluppo. Da una prospettiva storica, l’epidemia di colera del 1973, rappresenta una cesura importante per il mezzogiorno italiano, grazie alla quale si avviò una trasformazione significativa della considerazione politica della società e, in particolar modo, della eterogeneità del lavoro operaio e della condizione e del ruolo politico delle classi subalterne. Il processo di emancipazione, l’abbandono del fatalismo atavico che ha condizionato l’agire delle classi popolari meridionali diventa, dunque, osservabile storicamente attraverso lo studio di forme di organizzazione e delle pratiche di base favorite dall’emergenza igienico-sanitaria, ma che hanno mostrato le conseguenze più radicali sul piano politico e sociale nel periodo successivo alla “grande paura”. Una traccia della storia recente che sembra suggerire, all’Italia in lockdown del 2020, l’impossibilità di ritrovare, dopo un’epidemia, quella normalità precedente che ha reso possibile il disastro antropico. 

 

Bibliografia Minima

  • Belmonte Thomas, La fontana rotta. Vite napoletane 1974-1983, Meltemi, Roma, 1997.
  • Centro di Coordinamento Campano, Contro l’uso capitalistico del colera, in: “Inchiesta”, 11 (1973), Dedalo, Bari, 1973. 
  • Centro documentazione Mensa Bambini Proletari, La mensa dei bambini proletari: rassegna stampa 1973-1983, Napoli, 1983. (Inedito)
  • Collettivo Mensa Bambini Proletari, Appunti per una riflessione sulla mensa dei bambini proletari di Napoli, in: “Il Tetto”, 61(1974) pp. 3-17. 
  • Esposito Gennaro (a cura di), Anche il Colera. Gli untori di Napoli, Feltrinelli, Milano, 1973.
  • Istituto Superiore di Sanità, Atti del seminario internazionale su: Diffusione e trattamento dell’infezione colerica. Roma-Istituto Superiore di Sanità 24-25 Aprile 1974, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1974. 
  • Macciocchi Maria Antonietta, Lettere dall'interno del PCI a Louis Althusser, Milano, Feltrinelli, 1969.
  • Ministero della Sanità, Stato sanitario del paese e attività dell’amministrazione sanitaria negli anni 1972-1974. Relazione al Consiglio Superiore di Sanità, Tipografia Regionale in Roma, 1977. 
  • Ramondino Fabrizia, Napoli: I disoccupati organizzati. I protagonisti raccontano, Feltrinelli, Milano, 1977.