Al presente

Sulla stessa barca: lavoro e cittadinanza, una storia comune.

Michele Colucci

Giugno 2025

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Articolo tratto dal n. 35 di Pubblico, “Gli ostacoli del quorum”, la newsletter della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, che ringraziamo per la disponibilità.

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A chi serve aumentare, tutelare, difendere, allargare i diritti sul lavoro? Non serve solo a chi di diritti ne ha di meno, ai soggetti più fragili, a quelli più sfruttati: serve a chiunque si trovi nella condizione di dover lavorare per guadagnarsi da vivere, ovvero alla stragrande maggioranza della popolazione, ieri come oggi.

Migliorare i diritti di cittadinanza per le fasce della popolazione che hanno un accesso meno garantito e meno facile ai diritti fondamentali rappresenta un obiettivo che fa bene alla società intera, anche a chi crede di non averne bisogno, perché già maggiormente tutelato. La storia italiana ci permette di attingere a un ampio bacino di esperienze nelle quali questa affermazione ha assunto un valore concreto, dentro una prospettiva capace di legare in modo stretto lavoro e cittadinanza all’interno della conquista di nuovi diritti. Possiamo proporre due esempi.

 

Dai campi di Foggia alla conquista del salario minimo

Puglia, dai campi agricoli dove ai primi del Novecento decine di migliaia di braccianti iniziarono ad alzare la testa e mettere in discussione lo sfruttamento a cui erano costretti da secoli. Fu soprattutto in Capitanata, nelle pianure del Tavoliere, in provincia di Foggia, che le battaglie per un salario giusto e condizioni dignitose di lavoro riuscirono a strappare con grande fatica alcuni miglioramenti importanti. Al di sotto di un minimo sindacale, chiamato tariffa, i braccianti non lavoravano più: avevano deciso di rifiutarsi. E i proprietari terrieri quando non trovavano braccianti pur di non perdere il raccolto li andavano a chiamare lontano, sempre più lontano. Ecco che allora non mancavano scontri e proteste, che mettevano uno di fronte all’altro due gruppi, i locali e i forestieri, che pur facendo lo stesso lavoro erano disposti a guadagnare diversamente. Questi scontri potevano anche provocare morti e feriti.

 

Il sangue del bracciante e la nascita di una coscienza collettiva

Colapatella nel 1914, nei pressi di Cerignola, quando un bracciante di Putignano, paese distante 120 chilometri da Cerignola (assoldato dai caporali) venne ucciso dai lavoratori del luogo. Di fronte a tale situazione Giuseppe Di Vittorio, bracciante anche lui e già dirigente sindacale, capì che per evitare la conflittualità tra lavoratori occorreva un grande sforzo organizzativo: il sindacato e le sue conquiste non potevano essere difese solo in alcuni luoghi, a scapito di altri lavoratori. Bisognava allargare la sfera di azione del sindacato e fare in modo che ovunque si arrivasse a rispettare la tariffa che i lavoratori di Cerignola avevano conquistato. La soluzione, in poche parole, non era difendere se stessi, ma sostenere l’emancipazione degli altri, perché se qualcuno ha meno diritti di te a un certo punto anche la tua condizione viene messa in discussione. Ci volle il regime fascista, pochi anni dopo, con l’imposizione della violenza organizzata, per arginare la catena di emancipazione e riscatto che si era attivata nelle campagne pugliesi grazie all’applicazione di questo principio.

 

Migranti e “abusivi” del Novecento

Il secondo esempio è più vicino a noi, risale alla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Nelle grandi città erano iniziate ad arrivare centinaia di migliaia di immigrati. Lavoravano nei cantieri, nelle fabbriche, ovunque ci fosse disponibilità. Provenivano dalle campagne, spinti dalla necessità e dal desiderio di migliorare le proprie aspettative di vita. Una legge voluta dal fascismo, transitata nell’Italia postfascista nonostante la Costituzione, aveva posto dei paletti molto rigidi per coloro che si trasferivano da un comune all’altro, con lo scopo di irreggimentare e vincolare la libertà di movimento: erano le norme anti-urbanesimo. Per poter ottenere la residenza nei comuni in cui si trasferivano, gli immigrati dovevano mostrare di avere un contratto di lavoro. Ma generalmente partivano proprio alla ricerca di lavoro e il contratto arrivava molto tardi, costringendoli a vivere in città come “abusivi”, abitanti non residenti, non potendo a volte iscrivere i figli a scuola, avere allacci regolari alle utenze, avere contratti di lavoro che, ironia della sorte, per essere stipulati prevedevano il certificato di residenza. Iniziarono a lottare, a protestare, a contestare questa legislazione così iniqua, che portava per esempio la città di Roma nel 1960 ad avere su due milioni di abitanti circa 350.000 non residenti. Chi li sostenne? Gli altri lavoratori e le altre lavoratrici, che la residenza già l’avevano. Li sostennero perché sapevano che la loro lotta li riguardava da vicino, perché nei rapporti di forza collettivi una fascia ampia di popolazione con meno diritti può essere potenzialmente pericolosa per tutta la popolazione, anche quella apparentemente garantita, poiché in un contesto segnato dalla disuguaglianza la possibilità che le condizioni vengano livellate verso il basso per tutti è sempre dietro l’angolo. Finalmente la legge fascista sull’urbanesimo venne abolita: era il 1961.

 

Diritti per tutti i lavoratori e lavoratrici

Ecco quindi che oggi qualsiasi proposta per allargare i diritti sul lavoro deve riguardare necessariamente tutta la popolazione: fa bene a tutti. E oltre al lavoro, come fu per la residenza negli anni cinquanta, anche oggi sostenere la semplificazione delle norme per l’accesso alla cittadinanza italiana è un obiettivo che deve essere perseguito per impedire che ci siano livelli di cittadinanza separati: si tratta di una ingiustizia pericolosa, dannosa innanzitutto per chi la cittadinanza fatica ad ottenerla ma anche per tutto il resto della popolazione. Siamo sulla stessa barca, nessuno ha voglia di affondare. E allora battiamoci insieme: che nessuno corra più il rischio di affondare.