Al presente 47
A cosa serve il passato.
Dario Salvetti
Dicembre 2025
Pubblichiamo per la rubrica “Al presente” la trascrizione integrale dell’intervento di Dario Salvetti, del Collettivo di fabbrica GKN, al terzo Festival nazionale di storia del lavoro. L’intervento ha avuto luogo nell’ambito del panel “Come conta il passato”, in cui sono intervenuti anche Stefano Bartolini per la SISLav, Chiara Paris dell’Associazione italiana di storia orale, Alfiero Boschiero, già sindacalista della CGIL e direttore dell’IRES Veneto e Mariamargherita Scotti dell’Istituto Ernesto del Martino.
Lo scopo del panel era andare a interrogare i diversi modi in cui il passato viene utilizzato da parte dei movimenti dei lavoratori, ripartendo dalle riflessioni pubblicate alla metà degli anni Novanta da Nicola Gallerano, che discusse l’ampio raggio di significati che poteva racchiudersi sotto l’etichetta di “uso pubblico della storia”: dall’utilizzo sociale che da sempre le persone e le comunità operano agli usi politici dal carattere manipolatorio. Lontano dalle intenzioni di Gallerano, che invitò a non demonizzare in maniera pregiudiziale un uso del passato che poteva essere una forma di coinvolgimento attivo delle persone, illuminare aspetti importanti della memoria ed esprimente «potenzialità liberatorie», da allora in Italia si è diffusa l’idea che l’uso della storia sia un qualcosa con una intrinseca caratterizzazione negativa, da cui prendere le distanze. Ma in realtà sia in Italia che all’estero già da tempo gli storici e le storiche, in particolare negli ambienti della storia orale, sociale e del lavoro, avevano iniziato a interrogarsi ed a lavorare intorno all’importanza del passato per le persone, le comunità, le organizzazioni collettive. Lungi dal condannare l’uso del passato da parte delle persone comuni e dei movimenti a cui danno vita come un’intromissione indebita in un territorio che non gli appartiene, in quest’ottica l’utilizzo pubblico del passato plasma la memoria, interagisce con l’agency messa in campo da lavoratori e lavoratrici per migliorare le proprie condizioni di vita e prendersi cura degli altri, costruisce un terreno di incontro e confronto tra una storiografia che non rinuncia alla sua funzione sociale e civile e quel variegato e frammentato mondo popolare che guarda alla storia in cerca di un «usable past». Sotto a questa chiave di lettura, l’intervento di Dario Salvetti, che riflette su come il passato sia servito e serva alla resistenza dei lavoratori della ormai ex GKN – l’esperienza di lotta operaia italiana più lunga e conosciuta in questo primo quarto del XXI secolo – ci è sembrato paradigmatico dell’approccio che il panel ha provato a sollecitare, meritevole pertanto di essere pubblicata per intero dato il suo valore cruciale nel quadro della discussione che la SISLav intende tenere aperta sulla storia del lavoro oggi.
Grazie a tutte e a tutti per questa occasione. Faccio subito una premessa, in questa particolare veste sono qua a parlare di storia provenendo da una storia che ancora non si è conclusa, la lotta della ex GKN, su cui non entrerò oggi perché spiegare a che punto siamo sarebbe abbastanza complesso, mi porterebbe via tutto il tempo del presente, quindi vi prego di seguirci sui nostri canali social, sul sito insorgiamo.org, perché chiameremo delle mobilitazioni. Purtroppo spesso alla fine la storia viene scritta in base ai finali, che determinano un po' la visione precedente.
L'importanza del passato per la lotta: direi che la lotta è in tutte le sue forme – anche nella forma più semplice, anche nel dire no a un sabato straordinario –, è fondamentalmente il sacrificio di un pezzo del presente per il futuro.
Sì, la lotta paga in prospettiva, complessivamente, la lotta è la sola cosa che paga, non conosciamo nessun progresso sociale che non fuoriesca dalla lotta, i progressi sociali concessi dall'alto paternalisticamente di solito durano poco. Però non è vero che ogni singolo atto di lotta paga, spesso la lotta è un sacrificio del presente, e non sai esattamente come verrai remunerato nel futuro da queste tue scelte, anzi spesso io credo che alla fine di tante esperienze sindacali tanti delegati si guardano indietro e si dicano, “ma quanto tempo di vita ho perso?” Quanto tempo, quante riunioni, quanti volantini che avrei potuto non dare, quante manifestazioni che non sono fondamentalmente servite a nulla. Ecco questo avviene perché fondamentalmente non puoi misurare il risultato della lotta sulla base del tempo di vita, soprattutto se questo tempo di vita va ad avere i due, tre, quattro anni di un'esperienza breve, hai bisogno di misurarlo sul tempo storico. E siccome la lotta è un sacrificio del presente per il futuro e non possiamo proiettarci nel futuro, e il futuro non ci dà profondità, quello che possiamo fare è acquisire questo senso di profondità guardando al passato. E quindi la capacità della lotta di conoscere il proprio passato, di riconoscere che cosa il passato ha determinato sul tuo presente, è fondamentale per la tenuta della lotta, perché senza di questa viene a mancare una scala valoriale di tante piccole cose.
Ed è fondamentalmente sbagliata l'idea che la lotta operaia si misuri solo su grandi avvenimenti storici, quindi sul grande sciopero generale. Io credo che noi in questi giorni stiamo vivendo un pezzo di storia, perché è storico il fatto che le lavoratrici e i lavoratori di questo paese vengano chiamate a scioperare su una questione di politica internazionale, e per un popolo considerato non occidentale, colonizzato, è qualcosa che se ci pensate in queste dimensioni forse non avveniva dal Vietnam. Eppure c'è sempre un “eppure”, questa storia, questa grande storia, riesce a penetrare la carne viva della classe se la classe ha i recettori periferici aperti e funzionanti. Negli ultimi quattro anni vi potrei chiedere quanti scioperi generali ci sono stati? In realtà ce n’è stato quasi uno all'anno di confederali, anzi c'è n’è stato uno all'anno, e svariati del sindacalismo di base e non parliamo delle categorie, eppure se voi entrate nei luoghi di lavoro la percezione che ci siano degli scioperi generali è pressoché inesistente.
A dimostrazione che non basta il grosso avvenimento, è necessario che ci siano dei recettori periferici, invisibili a noi, e sono invisibili perché in realtà sfuggono al lavoro anche dello storico più attento, perché sono recettori sociali che essendo di lotta e di soggetti sociali che non hanno normalmente la parola, non possono esistere se il corpo sociale non è vivo e non è in lotta, cioè se non è la lotta stessa a creare gli spazi della storia.
Per questo purtroppo l'arretramento della lotta di classe è, per chiunque faccia storia, un dramma, una tragedia, perché nell'arretramento della lotta di classe noi perdiamo tutto, perdiamo un intero pezzo di storia. Nel sindacalismo tecnico e burocratico c'è un dramma, perché il sindacalismo tecnico e burocratico non ci restituirà mai la vera storia delle vertenze sociali e di tutte le sue composizioni.
Quando parlo di ricettori periferici parlo per esempio di quello che accadeva quando tu entravi alla GKN, venivi letteralmente investito dalla storia: che tipo di storia? Beh ti spiegavano che visto che noi provenivamo dalla Fiat il terreno su cui eri era stato il risultato di una lotta che negli anni Novanta aveva si mollato la fabbrica di Firenze Nord ma aveva ottenuto l'apertura della fabbrica di Campi Bisenzio, che quindi era stata costruita cedendo del terreno, e quindi ti sentivi in qualche modo anche responsabilizzato del terreno su cui eri, che era il risultato di una lotta.
O ti spiegavano del “passo Fiat”, cioè che se lavoravi vicino a un vecchio “Fiat” non ti far vedere camminare spedito da una macchina all'altra lungo l’officina, non si fa. Il “passo Fiat” è che si cammina in maniera tranquilla in officina, non c'è nessun luogo dove tu devi correre. O ti spiegavano che è gravissima maleducazione trattare male la macchina, lasciare la macchina in disordine, e quindi ti fermi mezz'ora prima del cambio di turno, perché? Perché il punto non è che devi consegnare i pezzi al capoturno, il punto è che arriverà un altro operaio dopo di te a cui devi lasciare la macchina con ordine, e guarda non ti azzardare a lasciare la macchina in disordine perché domani veniamo a bussarti alla spalla e diciamo che così non si fa, che se fai così la tua macchina la troverai parecchio in disordine, anzi più che in disordine, che inizierai a non fare i pezzi su quel turno.
E poi c'era una sorta di democrazia che ti trasmettevano, una scala valoriale: gli accordi si votano, sempre; si passa dall'assemblea, sempre. Poi purtroppo le assemblee col tempo erano state svuotate di contenuto, erano diventate routinarie, e gli accordi troppo tecnici da far capire. E c'era una sorta di storia delle legislature: l'RSU del 2008 “beh buona quella si ottenne un sacco di conquiste”, quella del 2011 “umh, no, quelli insomma non erano…”. E quindi c'era una storia politica della rappresentanza dentro la fabbrica e poi sicuramente a questo si aggiungeva che essendo una fabbrica stabile, con una propria storia, si raccontava una storia di vita.
I soprannomi, che addirittura venivano ereditati: il “belva” eredita il soprannome da uno che va in pensione proprio quando lui entra in fabbrica, e siccome parlavano simile diventa il nuovo “belva”. O le storie dell'uomo tigre, che si chiamava “uomo tigre” perché era arrivato in turno dopo un incidente e aveva fatto tutto il turno, poi era andato a farsi vedere e aveva tre costole rotte, quindi evidentemente aveva una soglia di resistenza al dolore, era l’uomo tigre. O il “badalo”, che era un rito per cui quando uno entrava in mensa, proprio lui, siccome diceva sempre “badalo”, in toscano, un modo di dire, quando incrociava le persone diceva sempre “oh guardalo, badalo”. Uno partiva a cantare “badalo”, cioè si faceva questa canzone, il “badalo”, mezz'ora in mensa, per cui la mensa non si tocca, non si cede la mensa, perché c'è da fare la rappresentazione teatrale dentro la mensa, il “badalo” deve cantare il “badalo”, cioè un operaio deve cantare “badalo” quando l'altro operaio entra in mensa, e credo che il “badalo” sia andato avanti per dodici anni, ininterrottamente, tutti i turni, è stato sospeso dal Covid perché i turni di mensa iniziano ad essere distanziati, e purtroppo dopo il Covid noi siamo stati licenziati in tronco, e quindi il “badalo” non è più tornato.
E questo ti trasmetteva a una scala valoriale, sociale, che poi torna quando devi lottare, perché ti dà degli automatismi di fondo che ti reggono, cioè che ti permettono di ragionare alto nel ragionamento politico sindacale. È un po' come quando c'è un allenatore, se tu sei un allenatore che deve spiegare come si passa la palla, non arrivi mai a spiegare se si gioca con il 3-5-2 o il 4-4-2. Quelle cose le hai imparate, ti rimangono tutte dentro. Se i fondamentali sono già tramandati storicamente evidentemente puoi iniziare a ragionare alto, perché ci sono già i fondamentali. I fondamentali sono che se il delegato sindacale fischia vai al cancello. I fondamentali sono che c'è un noi e voi, “loro” e “noi”, e quindi comunque è da guardare “male” chiunque rompa questo noi. E lo deve fare con una ragione ben precisa di rompere il noi, perché se lo fa senza una ragione precisa e beh forse è passato a “loro”, e quindi non è più “noi”.
Tutto questo noi l'abbiamo ereditato, anche se in forma un po' fossilizzata. La scelta di fare un collettivo di fabbrica e i delegati di raccordo nel 2018 deriva dal bisogno di rivitalizzare tutto questo mondo. I delegati di raccordo che noi creiamo nel 2018 si basano sul fatto che firmiamo accordi, ma la multinazionale non rispetta mai gli accordi, anche questa è una storia che sarebbe da raccontare. E quindi abbiamo bisogno di controllare dal basso, come rapporti di forza, il rispetto degli accordi. Cioè scioperare, ottenere l'accordo, non è niente, perché tanto loro non lo applicano, è più l'accordo è complesso, sugli inquadramenti, sui turni, e meno loro lo rispettano, perché sai se fai un accordo sui soldi lo vedi subito, o li pagano in busta o non li pagano, ma se fai un accordo su tutto il resto che influenza la tua vita tanto quanto i soldi, i 50 minuti dopo 10 minuti di pausa, l'inquadramento, la mansione, eh hai bisogno di rapporti di forza, hai bisogno di un sindacato periferico, e se non hai questo sindacato periferico puoi firmare tutti gli accordi del mondo che vuoi, ma 7 delegati pur su 400 lavoratori – non eravamo un'azienda particolarmente gigantesca – non riescono a tenere il polso dell'officina con tutte le sue diramazioni, la sala calibri, il magazzino, il montaggio, gli impiegati, la lavorazione, la sala metrologica eccetera eccetera…
E quindi hai bisogno di delegati di raccordo, e non puoi farlo se non tieni botta sulla storia, per cui per esempio per noi avere momenti in cui ricordavamo la storia della Fiat, in cui tornavamo sugli anni Settanta, la sconfitta dell'80 eccetera… era fondamentale. Poi avevamo anche un archivio, abbiamo un archivio perché vorremmo continuare a farlo.
E poi è successa un'altra cosa, che quando la lotta è cominciata la storia che avevamo ereditato ha dato benzina alla lotta, la lotta ha dato benzina alla storia. Noi abbiamo anche riscoperto la storia attraverso la lotta. Per esempio tornano tutti i vecchi “Fiat” a sostenere la lotta, e quando io in un'iniziativa pubblica ricordando la Fiat degli anni ’80, era un’iniziativa con Barbero, dico “a Torino,
guardate scusate noi a Firenze eravamo quelli che non scioperavano nell'80 e li abbiamo lasciati soli”, il gruppo ex FIAT si incazza, perché ho detto una grave imprecisione, ma l'ho detta perché io non la conoscevo, e mi portano tutti i ritagli dei giornali in cui mi dimostrano che in realtà a Firenze non solo aveva retto lo sciopero ma avevano criticato Torino perché lo sciopero ad oltranza non era efficace, mentre lo sciopero a scacchiera sì, e mi dà una chiave di lettura a cui io non avevo mai pensato, non fatalistica del perché abbiamo perso nell'80, quando io invece mi rendo conto che avevo una visione fatalistica che nell'80 avevamo perso perché non potevamo che perdere, e invece scopro che c'era un dibattito su come quella lotta sarebbe potuta finire.
Oppure riscopriamo la storia delle Reggiane, che è una storia incredibile, è la nostra storia. Le Reggiane nel ‘50, licenziamenti, un anno di lotta senza stipendio – noi abbiamo fatto 23 mesi senza stipendio – e loro per far ripartire la fabbrica si inventano tre prototipi di trattori, perché? Perché la fabbrica è collegata al territorio, il territorio è attorno ai braccianti e quindi cosa può fare la fabbrica?
Se è la comunità locale che la salva servire la comunità locale, e quindi le Reggiane che producevano
materiale bellico diventano una fabbrica per la pace e escono in corteo, dopo dieci mesi di lotta, e il corteo viene aperto da tre trattori, i tre prototipi di trattori. I nostri cortei sono stati aperti dalle cargo bike che noi abbiamo prodotto in autoproduzione per dimostrare che avevamo la capacità di far ripartire la fabbrica.
Oppure scopriamo la storia dell'Apollon, una fabbrica occupata, una delle più note perché la trovate filmata sull’archivio del Movimento Operario e Democratico ed è su You Tube. E per esempio lì per la prima volta sentiamo il termine “assemblea permanente”. Cioè noi eravamo già in assemblea permanente, ma eravamo entrati in assemblea permanente senza sapere cosa fosse l'assemblea permanente, perché tante cose le avevamo studiate prima della lotta, ma la lotta è così improvvisa
che il giorno dopo dichiariamo l'assemblea permanente, su consiglio dell'avvocato storico della FIOM, ma non sappiamo che storia ha l'assemblea permanente. E scopriamo che è un'invenzione del movimento operario italiano, fondamentalmente per presidiare la fabbrica occupandola con i propri corpi, senza l’occupazione, perché tu dici che non stai occupando nel senso classico del termine, come nel Biennio rosso o negli anni Settanta, ma semplicemente hai esteso un diritto sindacale, l'assemblea in forma permanente.
Quando poco dopo c'è la lotta alla Fimer verso Arezzo, entrano in assemblea permanente, e entrano in assemblea permanente come la rivendichiamo noi – e abbiamo avuto ragione – ossia pagata.
In che codice del diritto del lavoro è codificata l'assemblea permanente? Nessuno, pura consuetudine imposta dalla storia e dai rapporti di forza.
All’Apollon l'avevano utilizzata per impedire che portassero via i macchinari, e scopriamo anche un'altra cosa, che siccome quando una fabbrica è interrotta ha bisogno di fare entrare il territorio in fabbrica, all’Apollon avevano creato una Cooperativa di Consumo, perché affiliando interno e esterno, la Cooperativa di Consumo, potevano fare entrare i solidali in fabbrica, e infatti noi abbiamo creato, senza conoscere la storia dell’Apollon, una società operaria di mutuo soccorso, che è un circolo ARCI dentro il perimetro della fabbrica e sostanzialmente questo ci permette di avere un'associazione ibrida, dove può partecipare sia la cittadinanza solidale alla lotta della fabbrica, sia gli ex operai e gli operai.
È infatti non è un caso che, nella nostra proposta di reindustrializzazione dal basso, abbiamo chiesto che un pezzo della fabbrica sia dedicato a un polo della cultura working class. Perché tu non puoi avere una voce se non hai corde vocali, e la voce storica del movimento operaio chiaramente viene assolta dal documentarista, da uno spettacolo teatrale. Noi abbiamo fatto anche uno spettacolo teatrale sulla vicenda ex GKN, e anche lì abbiamo scoperto di aver fatto esattamente quello che avevano fatto gli operai dell’Apollon, perché il documentario dell’Apollon in realtà è un film dove gli operai “recitano” se stessi, e noi abbiamo fatto uno spettacolo teatrale dove recitiamo noi stessi nella vertenza stessa, e spieghiamo della vertenza.
Un polo della cultura working class perché rivendichiamo non la gentrificazione dei luoghi deindustrializzati, che è qualcosa che si fa anche in questa società no? Lascia l’area industriale lì dopo tanto tempo, e a un certo punto è talmente abbandonata che qualsiasi proposta va bene, i burger king, la mega biblioteca comunale, tutto va bene, tanto sono comunque soldi pubblici, spesso, di riqualificazione, e quindi i soldi pubblici che non hai speso per rilanciare la fabbrica li spendi dopo, spesso per dare valore ai terreni immobiliari.
Un polo della cultura working class perché sostanzialmente sosteniamo che ci sia ampio spazio, questo della fabbrica che va risaturato nei suoi spazi, per gli archivi del lavoro, e per cui questa cosa che ho raccontato non sia il risultato di lavoratori che faticosamente tengano la memoria, ma che il lavoro archivistico aderisca direttamente al lavoro produttivo, che sia lì anche fisicamente. Una videoteca ma non solo, il luogo dove si formano i videomaker, perché è difficile cogliere la storia “a libro”, mentre si fa e nei suoi dettagli.
Oggi per esempio c'è uno sciopero del SUDD COBAS, vicino a noi ci sono delle lotte clamorose e storiche dei lavoratori pakistani e del Bangladesh, in questo momento c'è un'assemblea permanente che non si conosce, di un'azienda tessile di tutti i lavoratori del Pakistan e del Bangladesh che stanno producendo le bandiere della Palestina, in autoproduzione, per far ripartire la produzione.
Abbiamo bisogno di videomaker che sistematicamente vengano mandati fuori come i nostri inviati sul campo a filmare, a montare, a archiviare, e a formare altre persone a farlo, magari gli stessi operai. E poi ovviamente nel polo della cultura working class vediamo un ufficio del Festival internazionale della letteratura working class, che è alla sua terza edizione, e che fra parentesi è un esperimento sociale che ci ha dimostrato quanto lor signori temano la cultura, e su questo finisco.
Noi in quattro anni abbiamo fatto, io ho contato 13 manifestazioni, abbiamo occupato Palazzo Vecchio, ci siamo fiondati dentro il Consiglio Comunale abbiamo occupato 30 ore il Consiglio Comunale, abbiamo occupato ad oltranza una torre medievale, abbiamo fatto gli scontri con la Celere per irrompere dentro la Regione alla fine del corteo del 18 maggio, siamo stati quarantuno giorni dentro la Regione, venti giorni in occupazione in piazza indipendenza, di cui tredici in sciopero della fame, abbiamo fatto anche tanti blocchi improvvisi che in tutta questa cosa si sono persi, siamo stati tre volte su delle torri faro, eppure, in tutto questo, io non ho mai visto il terrore e l'odio di classe come di fronte al Festival della letteratura working class.
Noi facciamo la manifestazione del marzo 2023, 15.000 persone, tra l'altro rompiamo il percorso e anche lì arriviamo quasi a contatto con la Celere, e poi sette giorni dopo avevamo questo festival della letteratura working class, che era una provocazione no, della serie, se la fabbrica non serve a nulla la riempiamo noi, anche con i libri.
II corteo tutto sommato va come deve andare, bene, ci sono momenti di tensione, ma passa. Il Festival: arriva la minaccia di denunciare tutti, tutti quelli che partecipano al festival. E questa è la prima edizione. Poi arriva la seconda edizione del 2024, abbiamo di nuovo sconfitto i licenziamenti e lo rifacciamo, e ci diciamo “impazziscono, questa volta che cosa faranno?” Quattro giorni prima del festival un commando di ignoti, nella notte di Pasquetta – così sempre durante le feste agiscono – probabilmente scavalca il punto più lontano dalla fabbrica, e sono dei vandali un po' particolari, perché sanno esattamente che c'è una cabina che si chiama Zero, è la cabina a media tensione a 15.000 volt, sanno esattamente che la devono forzare, sanno esattamente come disarmarla, sanno esattamente che quello è il punto che toglie l'elettricità a tutta la fabbrica, e sanno esattamente che se si portano via un pezzettino piccolo così, che solo la proprietà può riordinare direttamente dal produttore per ragioni di sicurezza, la fabbrica non avrà mai più elettricità. Io penso che chi ha fatto quell'atto di sabotaggio, che evidentemente conosce molto bene l'azienda, abbia provocato dei danni ai macchinari devastanti, ma era più importante togliere l'elettricità, al Festival di letteratura working class. Poi l'elettricità tra l'altro ce l'abbiamo avuta, perché abbiamo avuto prima i generatori, poi è partita una gara di solidarietà dalla Germania, storica, e dei ragazzi con un carretto di quelli da campeggio hanno girato tutta l'Europa a prendere pannelli fotovoltaici e poi siamo ripartiti con i pannelli fotovoltaici, e questa è la cosa che vorremmo produrre se ci facessero ripartire.
Il terzo Festival della letteratura working class l’abbiamo passato con i droni che ci sorvolavano tipo zona di guerra. E perché questa paura? Il Festival della letteratura working class si chiama così non per esterofilia ma per omaggio al fatto che la letteratura working class, e il genere del working class, derivano particolarmente dalla Gran Bretagna e si sono sviluppati particolarmente dopo la sconfitta [da parte] della Thatcher. Eppure la letteratura working class ci manca nell’oggi, e quel tipo di memoria è ciò che ancora oggi fa sì che tutti noi, generalmente, dalla curva del Liverpool fino anche ai ragazzi delle banlieue, pensiamo che la Thatcher fosse una stronza e che i minatori avevano ragione. Ed è quello che fa la differenza tra l'essere sconfitti, che nella vita invece ci sta, anzi ci sta quasi sempre nel movimento operaio, ed essere vinti, che è un'altra cosa. Ecco il Festival della letteratura working class è quella cosa che dando prospettiva storica alla nostra lotta, perché comunque vada rimarrà quel festival, fa e farà sempre la differenza tra l'essere sconfitti ed essere vinti.
L'attività sindacale senza questo pezzo di storia, senza l'uso della storia – ah ho tralasciato il motto “insorgiamo”, la Resistenza, tutto quel pezzo lì del nostro legame con i partigiani, però questo sarebbe un altro capitolo ancora –, senza questa storia, senza questa capacità di proiezione nel passato, non è niente, e purtroppo il precariato, la devastazione dei luoghi di lavoro, i capannoni apri e chiudi, sono già una grossa attività antistorica che il capitale fa per disperdere tutte le radici nostre, e questo detto tra parentesi, ha un effetto devastante anche sulle lotte per la salute, perché non ti permette di avere una storia del tuo corpo umano a contatto con il lavoro, e quindi questo è devastante nel dimostrare anche come il lavoro consuma il tuo corpo. Quindi corpo, storia, resistenza, lotta, sono fuse in tutt'uno, e purtroppo io credo che, un po' perché è stato bravo il capitale, un po' perché non siamo stati bravi noi, siamo troppo intrisi da un tipo di sindacalismo tecnico che non ci permette di cogliere questa ricchezza.
