Discussioni #3

Vittoria Bufanio e Alessio Fornasin discutono:

Samuel Cohn, After the Black Death: labour legislation and attitudes towards labour in late-medieval western Europe, in «Economic History Review», 60, 3, 2007, pp. 457-485

Scarica il testo in PDF

Leggi le altre discussioni

 

Il fascino esercitato dai momenti di rottura e di discontinuità sugli studiosi rende la Peste Nera uno dei temi storiografici più studiati e controversi. Le ragioni di questo vivo interesse sono molteplici e rendono il dibattito sulle conseguenze della peste del 1347-48 ancora estremamente attuale (Carocci, 2016; Luongo, 2019), anche se il suo ruolo nell’ambito della ‘crisi del Trecento’ è stato ampiamente mitigato e contestualizzato. Oggi è ormai acquisito che la peste sia stato solo uno dei fattori di crisi e si privilegia la dicitura ‘congiuntura del Trecento’ che tiene conto anche delle carestie di inizio secolo e di altri fattori che frenarono la crescita medievale (Grillo, Menant, 2019). Per molto tempo, tuttavia, l’arrivo della peste venne pensato come un tornante fondamentale della storia europea e all’origine della sua più grande narrazione: la rivoluzione industriale. Questa prospettiva spostò l’interesse al di là dei tracciati cronologici del medioevo e, se da un lato arricchì la ricerca storica attraverso una prospettiva di lungo periodo, dall’altro marginalizzò alcuni aspetti peculiari della società trecentesca. Inoltre, si potrebbe dire, l’arrivo della peste costituì uno dei primi ‘Global moment’ della storia medievale perché riguardò la quasi totalità del continente euroasiatico. Una catastrofe ‘universale’ che proprio per questo motivo lasciava ampio spazio a teorizzazioni economiche e demografiche che presupponevano anche reazioni e conseguenze ‘universali’. Uno dei miti più comuni nella storia economica europea è il fatto che la peste del 1347-48 abbia portato ad un repentino innalzamento dei salari urbani e rurali che venne poi frenato da una forte attività normativa dei governi, i quai agirono sotto la spinta di diversi fattori socioeconomici e politici.
Samuel Cohn, nel saggio che qui si discute, propone un’analisi comparativa delle legislazioni promulgate in Inghilterra, in Francia, nella penisola Iberica e in Italia. Nonostante la presenza di numerosi studi sull’ingerenza delle istituzioni nel mercato del lavoro nel periodo successivo alla peste, l’autore lamenta l’assenza di analisi trans-regionali che sarebbero le uniche in grado di mostrare «results that are not obvious from an analysis of the records of any singular place viewed in isolation» (p. 459). Ancora oggi, in effetti, sono rare le sintesi di tipo comparativo che abbiano come oggetto le conseguenze economiche e sociali della peste e non solo il dato demografico. È ancora probabilmente da assimilare, perlomeno nella medievistica italiana, l’importanza della storia comparata, soprattutto per l’analisi dei momenti di ‘crisi’ o di ‘transizione’. La storiografia soffre, inoltre, di una certa polarizzazione dell’interesse verso poche aree, anche per ragioni di conservazione documentaria, tra cui fra le più studiate vi sono l’Inghilterra, l’Île-de-France e l’area fiorentina. Articolando maggiormente la casistica si potrebbe giungere ad un quadro più articolato e complesso. Di questo è specchio, in una certa misura, anche il saggio di Cohn che, sebbene tenga in considerazione molteplici esperienze, per la sua analisi si concentra soprattutto sull’Inghilterra e su Firenze.
L’autore individua nel suo saggio analogie e differenze nelle diverse legislazioni, prestando particolare attenzione ad alcune variabili che ritiene fondamentali: ossia la tempistica di promulgazione, la durezza delle norme (che lega principalmente all’asprezza delle pene inflitte), i settori produttivi o i lavoratori ai quali sono indirizzate le restrizioni e la loro durata nel tempo. Ne emerge un quadro piuttosto variegato. Alcune legislazioni si concentrarono sulla regolamentazione dei salari e dei prezzi dei beni di prima necessità, altre sulle remunerazioni dei lavoratori agricoli e sulla loro mobilità. In molte aree la risposta all’incremento dei salari si manifestò repentinamente; l’England’s Ordinances and Statute of Labourers è del 1349 così come le disposizioni ‘contra laboratores’ fiorentine. Di poco successive sono le norme varate dal re di Francia Giovanni II e da Pietro IV d’Aragona, rispettivamente del 1351 e del 1352. Questa tendenza non può però essere generalizzata, ad esempio interventi di questo tipo comparvero nel regno di Castiglia solo a partire dal 1360 e a Bologna il governo cittadino attese addirittura il 1376. Cohn individua discrepanze anche nei destinatari dell’azione di governo. A Firenze e in Inghilterra le restrizioni vennero indirizzate quasi esclusivamente ai lavoratori delle campagne, viceversa Spagna e Francia si scagliarono in modo particolare contro il salariato urbano. La simile direzione adottata dai governi toscano e inglese è il risultato, tuttavia, di diverse dinamiche politiche. Cohn evidenzia come, anche se entrambe tutelarono i grandi proprietari terrieri attraverso stringenti norme che frenavano la mobilità dei contadini, Firenze, in ragione della forte influenza esercitata dalle piccole corporazioni, oltre che dal patriziato urbano, tutelò i privilegi e il monopolio dei suoi cittadini molto più di quanto non fecero altre realtà. Per favorire il rientro dei contadini fuggiti dalle terre del contado più vicine alle mura cittadine, ossia quelle dove sia l’aristocrazia urbana sia la piccola borghesia avevano i maggiori interessi, concesse numerose esenzioni fiscali. In un secondo momento poterono godere di questo tipo di incentivi anche i contadini delle terre più lontane dalla città. La ragione dell’estensione di tali privilegi risiede, secondo l’autore, nel fatto che le terre più lontane e le montagne al confine con altre dominazioni erano state negli anni quasi completamente spopolate e questo, in un momento di aspro conflitto con le limitrofe Milano e Pisa, creava problemi per il controllo militare dei confini.
Il caso fiorentino, che Cohn analizza con maggiore dovizia di particolari, chiarisce come probabilmente più che il dato demografico o la razionalità dell’economia, la politica abbia giocato un ruolo importante nel determinare l’atteggiamento dei governi nei confronti del lavoro. Tuttavia, tentativi esplicativi che prendano in considerazione la sola forma di governo non riescono, secondo l’autore, ad abbracciare la grande varietà di indirizzi intrapresi. Non riescono a spiegare, ad esempio, perché alcuni centri come Siena, Orvieto e Pisa ma anche Venezia e Milano si impegnarono meno nella tutela degli artigiani delle rispettive città promulgando sin da subito esenzioni per i forestieri che volessero impiantare nuove manifatture in loco. O ancora, perché il regno di Aragona, così come Siena, abolì presto le disposizioni e il regno di Castiglia, Orvieto, Pisa e Venezia le mantennero a lungo. Secondo l’autore tale moltitudine di indirizzi sfugge a qualsiasi «obvious patterns of economic or political rationality» e conclude che può essere invece meglio compresa se inquadrata nel contesto di «anxiety that sprung forth from the Black Death’s new horrors of mass mortality and destruction» (p. 481).
La conclusione che propone Samuel Cohn segna l’apertura di una prospettiva che iniziava ad essere esplorata proprio in quel torno di anni e che si arricchirà successivamente grazie a numerosi contributi. Cohn stesso si concentrerà sempre di più sulle conseguenze della crisi trecentesca su mentalità e cultura mettendo l’accento sulla percezione dei contemporanei di stare vivendo in una società in cambiamento, per certi versi già drammaticamente nuova (Cohn, 2006, 2002; Hatcher, 2008). Tuttavia, questa interpretazione, che è molto efficace per il periodo immediatamente successivo al crollo demografico, sarebbe da verificare meglio per i decenni successivi.
L’individuazione di una causa che fu in ultima istanza determinante per la varietà delle scelte intraprese, anche se ancora poco argomentata in questo saggio, è significativa soprattutto in relazione al dibattito storiografico in cui si inserì. L’articolo di Cohn venne pubblicato in un momento in cui la ricerca sulla Peste Nera si stava arricchendo di contributi che, nella prospettiva di rigettare qualsiasi interpretazione monocausale e teleologica della crisi (problema demografico, razionalità economica, eccessivo prelievo signorile), mettevano l’accento sulla pluricausalità dei cambiamenti avvenuti (Dyer, 2005). Quella stagione storiografica ebbe un grande merito nel restituire la complessità necessaria al tema ma era diventato difficile attribuire un ordine di rilevanza ai diversi fattori operanti in un dato contesto sociale ed economico. Cohn invece, seppure tenendo conto di molteplici fattori condizionanti, ne individua uno che più degli altri fu determinante per la grande diversità di atteggiamenti.
Uno degli aspetti più interessanti del saggio è proprio il fatto di sottolineare l’incidenza di visioni distorte della realtà, generate dal clima di ansia e paura, sulla normativa in materia di lavoro. In questa prospettiva si inserisce anche la sua considerazione sull’involucro delle forme politiche (monarchia, comune ad espressione aristocratica o repubblicana ed esperienze ‘rivoluzionarie’ come il governo dei Ciompi a Firenze) che non avrebbe determinato atteggiamenti specifici nell’elaborazione normativa. Quest’ultima venne influenzata maggiormente dai rapporti di forza tra le élite di governo e i soggetti economici come imprenditori e proprietari terrieri. Su quest’ultimo aspetto un elemento problematico è legato al fatto che Cohn non assegni alcun ruolo a coloro ai quali le normative erano indirizzate. La completa assenza di analisi di tipo microeconomico su individui, famiglie, aziende e singoli operatori economici gli impedisce di cogliere la reale complessità dei fattori che influenzarono i diversi orientamenti. Accenna, senza indagarlo come meriterebbe, il problema dello scarto fra teoria e prassi che lo storico deve affrontare nel momento in cui utilizza fonti di natura giuridica e si occupa di una società, come quella medievale, in continua tensione per la risoluzione del problema del controllo del territorio. Per chi si occupa di storia del lavoro il confronto con le fonti normative è forse ancora più complicato. La gran parte delle disposizioni approvate a partire dal 1349 confluì negli statuti cittadini o di corporazione che regolavano solo il lavoro ‘strutturato’. Un’ampia fetta di lavoratori però sfuggiva, come la storiografia ha largamente dimostrato (Pinto, 2008; Beck, Bernardi, Feller 2014), a questo tipo di inquadramento e, in generale, la contrattazione, spesso non formalmente inquadrata, caratterizzava gran parte dei rapporti di lavoro.
Un’ultima questione sulla quale si può riflettere è il problema legato all’utilizzo dell’approccio comparativo, alla radice, forse, del mancato approfondimento di alcuni temi. Se la comparazione si riduce ad individuare le divergenze e le convergenze dell’atteggiamento dei governi nei confronti della crisi, il quadro rischia di diventare più semplicistico di quanto non si vorrebbe. Alcuni elementi importanti ma difficilmente confrontabili perché presenti solo in alcune legislazioni, come la formazione del salario o l’obbligatorietà dell’impiego, vengono solo citati da Cohn ma non sono oggetto dell’analisi comparativa. La formulazione di un questionario di ricerca che tenga conto di problematiche importanti per la storia del lavoro, come quanto la regolamentazione abbia inciso sulle tipologie contrattuali, i livelli di vita, la formazione del reddito o dei salari stessi, sulle dinamiche familiari, sull’autonomia dei lavoratori o quanto abbia mutato il ruolo, anche nella percezione, dei lavoratori all’interno della società, potrebbe restituire al tema la complessità che merita.

Vittoria Bufanio
(Università di Padova)


Bibliografia:

S. Carocci, Il dibattito teorico sulla “congiuntura del Trecento”, in “Archeologia Medievale”, 43 (2016), pp. 17-32.
S. Cohn, The Black Death Transformed. Disease and Culture in Early Renaissance Europe, London-New York, 2002.
S. Cohn, Lust for Liberty: The Politics of Social Revolt in Medieval Europe, 1200-1425, 2006.
Ch. Dyer, An age of Transition? Economy and society in England in the Later Middle Ages, Oxford 2005.
P. Grillo, F. Menant (a cura di), La congiuntura del primo ‘300 in Lombardia (1290-1360), Roma 2019.
J. Hatcher, The Black Death. An Intimate History, London, Orion, 2008
A. Luongo, Una città dopo la peste. Impresa e mobilità sociale ad Arezzo nella seconda metà del Trecento, Pisa 2019.
G. Pinto, I lavoratori salariati nell’Italia bassomedievale: mercato del lavoro e livelli di vita, in Id., Il lavoro, la povertà, l’assistenza, Roma 2008.
P. Beck, Ph. Bernardi, L. Feller (a cura di), Rémunérer le travail au Moyen Âge. Pour une histoire sociale du salariat, Paris 2014.

 


 

Samuel Cohn è uno studioso con un ampio spettro di interessi. A volerlo incasellare, con evidente forzatura e una buona dose di semplificazione, in rigidi ambiti disciplinari può essere definito uno storico del medioevo con una specifica attenzione agli studi sulle epidemie – in particolare sulla Peste nera – e sulle loro conseguenze in ambito economico e sociale. Non uno specialista di storia del lavoro, dunque, ma uno studioso che, per metodo e impostazione, coglie le implicazioni dei suoi temi di ricerca in ambiti assai più vasti di quelli circoscritti alle discipline che ho citato. In questo articolo, in particolare, Cohn affronta il tema della legislazione sul lavoro in alcuni stati europei (Inghilterra, Francia, Castiglia, Paesi Bassi...) e in alcune nelle città stato italiane (Firenze, Siena...) in relazione, appunto, alla Peste nera. Dallo studio delle istituzioni si rivolge alle relazioni fra esse e l’epidemia.
Il lavoro ripercorre e fonde diverse traiettorie di ricerca dell’autore. Ne voglio sottolineare due. La prima è connessa ai ruoli assunti dalla peste come spartiacque demografico, economico e sociale. Il tema era già stato affrontato, ad esempio, nel volume Lust for Liberty, che Cohn aveva pubblicato solo l’anno prima di questo saggio, dove la Peste nera era stata descritta come un passaggio decisivo nel definire i caratteri delle proteste di popolo. Mentre in Europa, prima della pandemia, le rivolte, in quanto a rivendicazioni e obiettivi, procedevano in ordine sparso, dopo il suo insorgere i conflitti sociali, benché sempre tra loro slegati, trovarono come tratto unificante una nuova consapevolezza di classe nei loro protagonisti: contadini, lavoratori, artigiani.
La seconda traiettoria, che si dispiega invece sul piano metodologico, è quella della storia comparativa. In questo ambito, un esercizio di grande efficacia era stato già condotto da Cohn nel suo studio del 1992: The Cult of Remembrance and the Black Death: Six Renaissance Cities in central Italy, dove osservava tra Firenze e altre cinque città di Umbria e Toscana una trasformazione nella forma dei lasciti testamentari, che se prima della peste (in questo caso l’ondata 1362-63) erano indirizzati a favore di istituti religiosi, dopo riflettevano una attenzione maggiore verso modelli di carità civica.
In After the Black Death, il piano cartesiano entro il quale si dipana il ragionamento di Cohn è quello, largamente utilizzato in molta storia sociale, di cercare traiettorie, logiche di comportamento, azioni comuni poste in essere dai diversi soggetti sociali, economici o, come in questo caso, politico-istituzionali, per rispondere ad una medesima sollecitazione esterna, nella fattispecie la peste.
Non sempre però le ricerche comparative raggiungono il risultato che i lettori si aspettano. In questo caso una raccolta di fatti approda ad una sintesi del tutto inaspettata. Riepilogo alcuni snodi del lavoro. La Peste nera, come sappiamo, si diffuse in Europa lungo un esteso arco temporale. Inizialmente il suo progredire può dirsi abbastanza lento, con contenuti guadagni territoriali che si protrassero per anni. In alcuni contesti colpì, si può dire con ferocia, sulla compagine demografica, mentre in altri, almeno in termini relativi, il suo influsso fu assai più lieve. La supposta universalità della peste provocò, sul piano della legislazione sul lavoro, reazioni, molto diverse, tese, comunque, a smorzarne le conseguenze di più lunga durata, come il declino demografico in funzione del fabbisogno di forza lavoro, sia in ambito urbano che rurale.
Cohn dimostra che i molti provvedimenti post peste non ebbero nulla in comune gli uni con gli altri. Ogni legislatore agì in forme totalmente diverse anche in quelli che possono essere considerati contesti tra loro affini. I contenuti delle leggi non dipendevano dalla forma di governo o dal livello dello sviluppo economico; non si assomigliavano nemmeno in riferimento alla dinamica dei prezzi agricoli e industriali; non avevano aspetti in comune in ordine ad analoghi cambiamenti nell’offerta e nella domanda di lavoro o, ancora, alla politica monetaria e nemmeno al fatto che nei singoli contesti le economie si basassero in prevalenza su settori in crescita o in declino.
Ma allora, se non generò politiche coerenti, quale fu il ruolo della peste? La risposta di Cohn è, a mio modo di vedere, sorprendente: essa provocò il proliferare della legislazione sul lavoro. Preoccupate delle conseguenze demografiche ed economiche della peste, le classi dirigenti dovevano prendere dei provvedimenti per lenirne la portata, ma non sapevano bene quali potevano funzionare e quali no. In particolare, non si aveva idea di quali potessero essere i loro effetti collaterali. Non solo, quindi, le azioni messe in campo dai diversi attori politici avevano obiettivi molto diversi, ma anche i risultati spesse volte non erano quelli sperati e, quindi, le norme si modificavano o erano disapplicate per correggerne gli effetti che andavano nella direzione opposta rispetto a quanto era stato previsto. Nessuno sapeva esattamente quali fossero le politiche più adatte da mettere in campo per affrontare le conseguenze dell’epidemia, anche perché dovevano scontrarsi con provvedimenti presi da altri stati “concorrenti”. Un esempio di schizofrenia legislativa è dato dalle regole imposte dalla città di Firenze al suo contado, già analizzate in profondità nella monografia Creating the Florentine State. L’obiettivo della legislazione era “popolazionista”. I ceti dominanti urbani avevano bisogno di un territorio popolato per vedere garantite le proprie rendite. Inizialmente furono poste delle regole molto dure contro i ceti contadini per impedire che abbandonassero le campagne. Di fronte al fallimento di queste politiche le regole cambiarono e furono introdotte delle politiche tese ad incentivarli a rimanere. In questo caso, poi, giocarono il loro ruolo anche considerazioni di politica internazionale: nella periferia appenninica, una montagna spopolata non poteva opporre una valida difesa del territorio rispetto alle mire espansionistiche degli altri stati.  
Alla luce dell’analisi di Cohn, mi risulta impossibile parlare di questo articolo senza pensare alle circostanze del presente ed è grande la tentazione di confrontare la legislazione post Peste nera con la congerie degli attuali provvedimenti nati, nella totale assenza di riferimenti storici, per contrastare gli effetti della pandemia di Covid-19. La maggior parte di noi fino a pochi mesi fa non aveva esperienza diretta con un’epidemia, ma solo degli sbiaditi rimandi all’influenza Spagnola. La Spagnola era “solo” un’influenza, e chi ne parlava lo faceva con la sufficienza e la tranquillità che derivavano dalla distanza cronologica e confidando sul fatto che le attuali conoscenze in campo medico, enormemente più sviluppate rispetto a cento anni addietro, ci avrebbero tenuto al sicuro dagli effetti di, improbabili, nuove epidemie. Riflettendo sulla legislazione di sette secoli fa, osserviamo una similitudine, almeno nell’immediatezza del contagio: l’adozione di una miriade di interventi emergenziali, spesso contraddittori gli uni con gli altri, non solo tra paesi diversi, ma anche all’interno dei singoli stati, che solo in qualche caso lasciano intravedere possibili logiche di più lungo periodo. Non può sfuggire, inoltre, lo straordinario proliferare di regole (unitamente al loro ipertrofismo) per contrastare gli effetti economici dell’epidemia.
Il moltiplicarsi delle pubblicazioni scientifiche dedicate al Covid-19 è ancora più impressionante del numero di provvedimenti sorti per contrastarlo: circa 42.000 stando a Google Scholar al 21 giugno 2020 (limitatamente all’anno in corso). Questi articoli, tranne che in pochi sporadici casi, ignorano largamente le riflessioni di Cohn. Credo non sia un bene. Non parlo naturalmente degli studi di carattere medico, ma soprattutto di quelli di ambito economico e giuridico. After the Black Death ci insegna a rifuggire un facile determinismo a fronte delle sfide poste dalle epidemie di ieri ma anche di oggi e, forse, di domani. In ultima istanza, e questo si scontra con i nostri disperati tentativi di capire quello che sta succedendo e succederà nel prossimo futuro, ci mostra che l’efficacia delle attuali legislazioni non può essere giudicato ora. Come per le valutazioni relative alle conseguenze demografiche delle epidemie, anche per i loro futuri esiti economici i conti vanno fatti alla fine.

Alessio Fornasin
Università degli Studi di Udine


Lavori citati nel testo
S. Cohn, The Cult of Remembrance and the Black Death: Six Renaissance Cities in central Italy, Johns Hopkins University Press, 1992.
S. Cohn, Creating the Florentine State. Peasants and Rebellion, 1348-1434, Cambridge University Press, 1999.
S. Cohn, Lust for Liberty. The Politics of Social Revolt in Medieval Europe, 1200-1425. Italy, France, and Flanders, Harvard University Press 2008.