Discussioni #5

Lorenzo Ravano e Giulia Bonazza discutono:

Eric Williams, Capitalism and Slavery (1944)

trad. it., Capitalismo e schiavitù, Roma-Bari, Laterza, 1971

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Tratto dalla tesi di dottorato intitolata The Economic Aspect of the Abolition of the West Indian Slave Trade and Slavery e discussa a Oxford nel 1938, Capitalism and Slavery fu pubblicato nel 1944 negli Stati Uniti, dove lo storico trinidadiano Eric Williams si era trasferito nel 1939 per lavorare come professore di scienze politiche e sociali presso la Howard University. In quel contesto accademico era inoltre entrato in contatto con alcuni dei maggiori esponenti dell’élite intellettuale afroamericana come Alain Locke, W.E.B. Du Bois, Carter G. Woodson ed E. Franklin Frazier. Il libro uscì a pochi anni di distanza da due altri capisaldi della storiografia caraibica e afroamericana e, più in generale, della critica nera della modernità occidentale: Black Reconstruction in America (1935) di W.E.B. Du Bois e The Black Jacobins (1938) di C.L.R James. Sebbene analizzassero diverse fasi della storia della schiavizzazione e della resistenza degli africani, tutte e tre le opere mostravano infatti la centralità della schiavitù e del sistema atlantico di piantagione nella formazione e nello sviluppo del capitalismo. In particolare, il rapporto con James, che fu docente di Williams presso il Queen’s Royal College di Port of Spain, e col quale mantenne una stretta collaborazione quando entrambi vivevano in Inghilterra, fu sicuramente decisivo per la composizione di Capitalism and Slavery.

L’opera di Williams va così collocata nell’emergere di quello che Cedric Robinson ha definito «marxismo nero», ossia una specifica tradizione del pensiero politico e della ricerca storiografica afroamericana e caraibica d’ispirazione marxista, strettamente legata alle lotte anticoloniali e alla rinascita del panafricanismo fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. Caratteristica fondamentale della storiografia marxista nera risiedeva appunto nel muovere una critica radicale tanto alle interpretazioni conservatrici e liberali della tratta atlantica e della schiavitù, quanto alle letture marxiste che tendevano a minimizzarne la rilevanza storica e teorica, affrontandole come fenomeni precapitalistici o come fattori secondari della cosiddetta accumulazione originaria. Al contrario, le opere di Du Bois, James e Williams proponevano da punti di vista differenti una revisione del marxismo, ancorata ai passi del Capitale in cui Marx ricordava l’importanza della schiavitù nei processi di accumulazione del capitale, ma intenzionata a mostrare anche, da un lato, la coesistenza e le reciproche interdipendenze fra il sistema di piantagione, la produzione industriale e il capitale finanziario, e, dall’altro lato, il ruolo del proletariato nero nello sviluppo delle lotte di classe nel mondo atlantico.

A differenza dei testi di Du Bois e James, particolarmente incentrati sulla soggettività degli schiavi e sulla loro capacità di essere attori protagonisti della loro liberazione, il libro di Williams – che comunque dedica l’ultimo capitolo alle ribellioni degli schiavi – affronta la questione del rapporto fra capitalismo e schiavitù da una prospettiva più strettamente economica. Un elemento che ha determinato tanto la grande fortuna di quest’opera quanto le numerose critiche che le sono state mosse e che ancora oggi alimentano il dibattito storiografico. Anzitutto, nelle prime pagine del libro Williams scardinava l’equazione razzista ancora presente negli anni Quaranta fra la presunta inferiorità degli africani e la loro riduzione in schiavitù, mostrando che il processo di razzializzazione della forza lavoro schiava nelle Americhe nasceva come «una soluzione, in circostanze storicamente determinate, al problema del lavoro nei Caraibi», ossia una risposta alla difficoltà di impiegare lavoratori bianchi e indigeni nel sistema di piantagione, in particolare della canna da zucchero (p. 35). Il razzismo fu quindi conseguenza e non causa della sistematica e secolare riduzione in schiavitù degli africani nelle Americhe attraverso il middle passage.

Dopo aver analizzato la nascita e l’esplosione della tratta atlantica di schiavi tra il XVII e il XVIII secolo, Williams espone nei capitoli centrali le due tesi fondamentali del libro. Primo, che la tratta atlantica e il sistema di piantagione nelle Indie Occidentali britanniche furono all’origine della rivoluzione industriale inglese. Non solo perché permisero l’accumulazione di capitale, concentrata inizialmente nelle città portuali legate alla tratta come Liverpool, Bristol e Glasgow, ma anche perché trasformarono le attività produttive, commerciali e finanziarie britanniche, sempre più sollecitate dalla nuova domanda di merci, lavoro e capitali generata dalla tratta e dalle piantagioni. Lo sviluppo della cantieristica navale e della pesca d’altura, l’impiego crescente di marinai inglesi nel commercio triangolare, la crescita delle manifatture tessili legate alla domanda africana di merci scambiate con schiavi e le attività bancarie e assicurative connesse alla schiavitù sono alcuni degli aspetti che crearono le condizioni per il decollo industriale dell’Inghilterra alla fine del XVIII secolo. Secondo, che la tratta e la schiavitù non furono abolite per ragioni morali o umanitaristiche, ma principalmente a causa dello sviluppo delle forze produttive. Più precisamente, l’abolizionismo inglese, che ottenne la soppressione della tratta nel 1807 e della schiavitù nel 1833, e che celava esso stesso interessi di natura economica, è interpretato come la «punta di diamante dell’offensiva che distrusse il regime delle Indie Occidentali» (p. 245). Un’offensiva formata dalla convergenza di molteplici fattori economici e di politica economica: il declino delle piantagioni nei Caraibi, entrate in una crisi di sovrapproduzione; i conflitti fra i commercianti di schiavi delle città portuali e l’emergente borghesia industriale, che voleva liberarsi del vecchio sistema monopolistico coloniale; il declino del mercantilismo a vantaggio dell’economia politica classica, che criticava l’improduttività della schiavitù e l’inefficienza economica dell’impero coloniale inglese. Una crisi accelerata dalla Rivoluzione americana, che spinse Pitt dal 1783 a sfruttare gli argomenti umanitaristi di Wilberforce e Clarkson per abbandonare la tratta e rifondare su nuove basi l’espansione imperiale inglese, riorientando l’asse strategico dai Caraibi all’Oceano Indiano (p. 198). Come ha mostrato anche più di recente Christopher L. Brown, la critica umanitaristica della schiavitù propria dell’abolizionismo inglese fu infatti trasformata con la soppressione della tratta in un «capitale morale» funzionale a fondare la presunta superiorità morale dell’impero inglese sulle altre potenze, che si tradusse anche nel pattugliamento delle coste africane e negli attacchi alle navi negriere degli imperi nemici.

Questa seconda tesi sulle ragioni economiche dell’abolizione ha suscitato diverse critiche e revisioni. Già nel 1968 Roger Anstey sosteneva che Williams non era riuscito a dimostrare efficacemente la crisi del sistema di piantagione nei Caraibi inglesi e che gli argomenti morali delle Chiese del Grande Risveglio avevano invece svolto un’influenza decisiva sulla scelta del Parlamento inglese. Una critica poi confermata dai lavori di Seymour Drescher (1977) e David Eltis (1987) che hanno mostrato lo svantaggio economico dell’abolizione. Sebbene fondate su solide ricerche quantitative, queste critiche non devono però indurre a una semplificazione della posizione di Williams, il quale nelle pagine finali appare pienamente consapevole della complessità del fenomeno laddove sostiene che «le trasformazioni economiche, il declino dei monopolisti, lo sviluppo del capitalismo, l’agitazione umanitaria nelle chiese inglesi, le polemiche nelle aule parlamentari avevano trovato il loro coronamento nella determinazione degli schiavi stessi di essere liberi […], spinti a esigere la libertà dallo sviluppo di quella stessa ricchezza che essi avevano creato con il loro sudore» (p. 285). Ma è soprattutto la prima tesi di Williams circa la centralità della tratta e della schiavitù per la comprensione del capitalismo che influenza ancora la ricerca storica contemporanea. In particolare, per quanto riguarda la storia del capitalismo britannico, vale la pena segnalare, oltre ad alcune pubblicazioni degli ultimi decenni (Cateau, Carrington, 2000; Inikori, 2002; Ryden, 2009), l’importante progetto di studio e catalogazione dei proprietari di schiavi inglesi condotto dal Centre for the Study of the Legacies of British Slave-ownership, guidato da Catherine Hall (https://www.ucl.ac.uk/lbs/), che prende le mosse proprio da Capitalism and Slavery (Hall, 2015). Dal punto di vista della storiografia statunitense, Williams resta invece un punto di riferimento della cosiddetta New History of Capitalism, animata in particolare dai lavori di Walter Johnson (2013), Sven Beckert (2014), Edward E. Baptist (2014), Seth Rockman (2016). A partire dai classici del pensiero e della storiografia afroamericana già citati, questa nuova linea di studi sta infatti approfondendo la conoscenza storica sui rapporti fra schiavitù, colonialismo, razzismo e capitalismo. Non solo sviluppando l’indicazione di Williams sul ruolo della tratta e della schiavitù come motori dello sviluppo industriale, ma indagando anche il funzionamento delle piantagioni come sistemi capitalistici sul piano dell’organizzazione e del brutale disciplinamento della forza lavoro, dell’evoluzione degli strumenti finanziari, delle innovazioni tecnologiche e gestionali, del rapporto col pensiero economico liberoscambista, degli sconvolgimenti ecologici, dello sviluppo dei mercati interni e del commercio su scala globale.

Lorenzo Ravano

 

Bibliografia citata

Anstey, R., “Capitalism and Slavery: A Critique”, Economic History Review, vol. 21, n. 2, 1968, pp. 307-320.
Baptist, E., The Half has Never Been Told: Slavery and the Making of American Capitalism, New York, Basic Books, 2014.
Beckert, S., L’impero del cotone. Una storia globale (2014), Torino, Einaudi, 2016.
Beckert, S., Rockman, S. (eds.), Slavery’s Capitalism. A New History of American Economic Development, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2016.
Brown, C.L., Moral Capital. Foundations of British Abolitionism, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2006.
Cateau, H., Carrington, S.H.H. (eds), Capitalism and Slavery Fifthy Years Later: Eric Williams a Reassessment of the Man and his Work, New York, Peter Lang, 2000.
Drescher, S., Econocide. British Slavery in the Era of Abolition, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1977.
Du Bois, W.E.B., Black Reconstruction in America, 1860-1880 (1935), New York, Free Press, 1998.
Eltis, D., Economic Growth and the Ending of the Transatlantic Slave Trade, New York, Oxford University Press, 1987.
Hall, C., “Gendering Property, Racing Capital”, History Workshop Journal, vol. 78, 2014, pp. 22-38.
Inikori, J.E., Africans and the Industrial Revolution in England: A Study in International Trade and Economic Development, Cambridge, Cambridge University Press, 2002.
James, C.L.R., I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco (1938), trad. it. R. Petrillo, Milano, Feltrinelli, 1968 (nuova ed., Roma, DeriveApprodi, 2006).
Johnson, W., River of Dark Dreams: Slavery and Empire in the Cotton Kingdom, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2013.
Ryden, D.B., West Indian Slavery and British Abolition1783-1807, New York, Cambridge University Press, 2009.
Robinson, C. J., Black Marxism: The Making of the Black Radical Tradition (1983), Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2000.

 


 

Eric Williams (1911-1981), importante storico marxista della schiavitù, diventò primo ministro del suo paese natale Trinidad e Tobago nel 1962. L’opera di Williams Capitalism and Slavery (1944) è annoverata tra i grandi classici della storiografia a livello globale, basti pensare alle innumerevoli traduzioni e recensioni a cui è stato sottoposto il testo fino a tempi recentissimi. Una ricerca vivida che riesce a parlare ancora oggi, a più di settant’anni di distanza, alle nuove generazioni di storici della schiavitù, agli storici economici e ai teorici politici, nonostante la rimessa in discussione di molte parti del testo. Prima di addentrarmi nella struttura e nei temi di Capitalismo e schiavitù, vorrei porre l’attenzione alla ricezione italiana dell’opera. Solo nel 1971 ci fu una traduzione nel nostro paese a cura di Luca Trevisani e la prefazione di Lucio Villari affermava: « La storiografia italiana infatti non ha mai avuto grande interesse per la storia del colonialismo e tanto meno per quel capitolo di esso che riguarda il secolare commercio degli schiavi» (p. v). Dagli anni Settanta a oggi molte cose sono cambiate nel panorama storiografico italiano, ma certamente gli studi sul colonialismo e la schiavitù restano marginali rispetto al loro fiorire in altri paesi europei implicati, direttamente o meno, nel traffico schiavile.

Capitalismo e schiavitù ha un duplice obiettivo, da un lato indaga la correlazione tra l’accumulazione di capitale nelle Indie Occidentali e l’avvento della Rivoluzione industriale in Inghilterra nel XVIII secolo e dall’altro dimostra come l’abolizione della tratta (1807) e successivamente della schiavitù (1833) fossero il frutto del capitalismo maturo, che non trovava più convenienza economica nella tratta e nel mantenimento delle colonie occidentali. La schiavitù è analizzata solamente secondo una prospettiva di storia economica, come pratica che è servita per creare ricchezza nella madrepatria e finanziare la rivoluzione industriale. Allo stesso tempo il declino della piantagione e della schiavitù ha spinto la madrepatria all’abbandono di questo sistema economico non ritenuto più conveniente secondo la teorizzazione economica di Williams. Non è quindi uno studio sulla schiavitù ma uno studio sull’impatto che la schiavitù ha avuto nella formazione del capitalismo britannico.

Il testo è suddiviso in dodici capitoli ed è corredato da una conclusione. I primi due capitoli trattano dell’origine della schiavitù “negra” e dello sviluppo della tratta. Un’attenzione particolare è rivolta ai primi lavoratori bianchi europei che furono la prima forza lavoro nel mondo coloniale dopo gli indiani e successivamente viene spiegata la scelta della manodopera schiavile africana nera. L’autore afferma per il periodo 1650-1850: «La schiavitù negra fu dunque soltanto una soluzione, in circostanze storicamente determinate del problema del lavoro nei Caraibi. Zucchero significava lavoro: a volte si trattò di lavoro schiavistico, altre volte di lavoro nominalmente libero; a volte di lavoro nero, altre volte di lavoro bianco, o bruno o giallo. La schiavitù non implicava in alcun modo, un’inferiorità del negro, in senso scientifico» (p. 35). Il terzo capitolo tratta del commercio inglese e del traffico triangolare, indagando lo sviluppo delle grandi città portuali britanniche. I capitoli successivi mostrano quali erano gli interessi particolari nelle Indie Occidentali e quali furono gli investimenti dei profitti del commercio triangolare nella madrepatria: banche, assicurazioni e industria pesante. La crescita industriale subì però un colpo di arresto nel 1783. La Rivoluzione americana infatti, evento cruciale per lo storico marxista, portò alla rottura del sistema del monopolio del mercato coloniale a tutto vantaggio dello sviluppo del capitalismo britannico (cap. VI). L’Inghilterra iniziava a guardare a oriente, all’Oceano indiano. I Caraibi non erano più un lago inglese, lo zucchero doveva essere coltivato in India poiché nell’Atlantico non era più competitivo. In concomitanza Wilberforce, il grande pensatore abolizionista britannico, fu indotto da Pitt a presentare la prima proposta di abolizione della tratta degli schiavi nel 1787. Quindi lontano dall’essere una sciagura nazionale, l’indipendenza americana (1776) segnò la fine di un’epoca e l’avvento di una nuova contraddistinta dal libero mercato. La nascita della macchina a vapore e lo sviluppo dell’industria cotoniera portò a una massiva esportazione di cotone, l’impero britannico vestiva tutto il mondo, esportava uomini e macchinari ed era divenuto il banchiere mondiale nei primi anni del XIX secolo. Il mercantilismo aveva esaurito la sua ragione di esistere e in questo contesto il monopolio delle Indie Occidentali era superfluo. L’offensiva per abbattere il monopolio ebbe tre fasi: la prima l’attacco contro la tratta; la seconda l’attacco contro la schiavitù e la terza, i dazi preferenziali sullo zucchero dovevano essere aboliti (1846). Qui entra in gioco certamente la questione della moralità che spinse gli abolizionisti britannici, i “santi” come li definisce ironicamente Williams, ad abolire la schiavitù spinti dagli affari più che dalla morale. L’ascesa e la caduta del mercantilismo si identificavano con l’ascesa e la caduta della schiavitù (p. 185). Interessanti le riflessioni a proposito del cambio di manodopera coloniale dopo le abolizioni della schiavitù e dell’atteggiamento dei coloni che non erano comunque a favore di un mercato libero. Emerge poi come molti capitalisti britannici continuarono a praticare la tratta illegalmente dopo il 1833 con Cuba, il Brasile e gli Stati Uniti (cap. X). Il capitolo undicesimo all’epoca fu veramente ritenuto di rottura perché Williams sosteneva che si avesse un’immagine deformata dell’abolizionismo. Le grandi figure dell’abolizionismo britannico, come Wilberforce e Clarkson, venivano analizzate non tanto per le motivazioni morali e umanitarie che li spingevano, ma solo per le motivazioni contingenti e il contesto economico in cui si trovarono ad agire. Nell’ultimo capitolo Gli Schiavi e la Schiavitù vengono descritte varie ribellioni di schiavi in Giamaica, Barbados e Trinidad negli anni tra l’abolizione della tratta e della schiavitù. Gli schiavi credevano che la madrepatria avesse abolito la schiavitù e che fossero i proprietari coloniali a tenerli ancora sotto il giogo delle catene da cui dovevano autoliberarsi. In questo senso la tesi del ruolo attivo dello schiavo, non disposto ad attendere la libertà dall’alto, ma che ottiene la libertà con le sue forze è in linea con l’altra opera magistrale di pochi anni precedente di Cyril Lionel Robert James, Black Jacobins (1938).

Le conclusioni dell’opera sono altrettanto importanti perché dimostrano l’attualità dei contenuti di Williams. Vengono spiegate le motivazioni del titolo del libro Capitalismo e schiavitù, titolo generico, pur essendo in realtà uno studio esclusivamente sul capitalismo britannico. L’autore spiega che ciò che ha caratterizzato il capitalismo britannico ha caratterizzato anche il capitalismo francese citando il celebre storico francese della schiavitù Gaston-Martin. Considerato l’anno di pubblicazione (1944), nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale, possiamo affermare che in qualche modo l’autore cerchi di avere già un approccio transnazionale anticipando di molti anni tendenze storiografiche posteriori. Un’altra conclusione illuminante riguarda il tema dell’interesse in connessione con il tema razziale: «le idee della non idoneità del bianco al lavoro nei tropici e dell’inferiorità del negro, che condannarono quest’ultimo alla schiavitù. Dobbiamo guardarci non soltanto da questi vecchi pregiudizi, ma anche dai nuovi che vengono costantemente creati. Nessuna epoca costituisce un’eccezione». (p. 290). È interessante notare come in tutto il testo sostanzialmente il tema della “razza” non emerga mai nell’analisi economica di Williams perché la scelta degli africani era stata motivata, secondo l’autore, da ragioni economiche; invece nelle conclusioni appare, è presente un monito per il futuro nella speranza che ciò non possa riaccadere.

L’opera di Williams è stata parzialmente criticata nel dopoguerra, in particolare le parti di storia economica, analisi definite “non quantitative” (Coelho, 1973). In sostanza gli viene criticato di aver sovrastimato l’apporto di capitali dalle colonie alla madrepatria. Anche la sua tesi sul declino coloniale nei Caraibi nei primi decenni del XIX secolo è stata criticata già da Anstey nel 1968 e successivamente con opere importanti come Econocide: the British Slavery in the Era of Abolition (1977) di Samuel Drescher in cui viene demolita la tesi di Williams secondo cui l’abolizione della tratta e della schiavitù siano state economicamente convenienti per l’Inghilterra.

Recentemente Dale W. Tomich e David Beck Riden hanno analizzato la tesi di dottorato di Williams, The Economic Aspect of the Abolition of the West Indian Slave Trade and Slavery (1938) in cui emerge un’esposizione delle teorie economiche molto più coerente e convincente rispetto a quanto poi è emerso nel testo rielaborato per la pubblicazione (Tomich, 2014). A sostegno della validità delle tesi di Williams invece si è schierata Barbara L. Solow presentando un’interessante riflessione sul tipo di nuova storia economica neoclassica e quantitativa che ha criticato lo storico marxista, non comprendendone in realtà l’approccio metodologico (Solow, 2014). Nonostante queste critiche e altre, quasi tutte legate al suo approccio di storia economica, il volume ha mantenuto la sua credibilità e importanza intellettuale sino a oggi. Il riemergere recentissimo degli studi sul capitalismo e la nuova ondata di studi sulla schiavitù hanno un debito profondo nei confronti di Eric Williams e della sua magistrale opera.

Giulia Bonazza
Università Ca’ Foscari-Columbia University

 

Bibliografia citata

Anstey, R., “Capitalism and Slavery: A Critique”, Economic History Review, vol. 21, n. 2, 1968.
Coelho, P., “The profitability of Imperialism: The British Experience in the West Indies, 1768-1771”, Explorations in Economic History, vol. 10, n. 3, 1973.
Drescher, S., Econocide. British Slavery in the Era of Abolition, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1977.
James, C.L.R., The Black Jacobins: Toussaint Louverture and the San Domingo Revolution, London, Secker & Warburg, 1938.
Solow, B. L., The Economic Consequences of the Atlantic Slave Trade, Lexington Books, 2014.
Tomich, D. W., “Preface”, in E. Williams, The Economic Aspect
of the Abolition of the West Indian Slave Trade and Slavery, edited by D. W. Tomich, Lanham, Rowman & Littlefield Publishers, 2014.
Solow, B. L., The Economic Consequences of the Atlantic Slave Trade, Lexington Books, 2014.