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Maggio 2017

L'articolo 18
Storia breve di una morte annunciata
 

 di Umberto Romagnoli

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Pur essendo corretto sostenere che il passaggio alla società post-industriale ha avviato il declino dell’aspettativa della stabilità del posto di lavoro che proprio l’industrialismo aveva suscitato, sarebbe sbagliato sottostimare che l’immaginario collettivo aveva subito riconosciuto nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori il paradigma concettuale dello stesso diritto che dal lavoro ha preso il nome. È questa la ragione per cui non mi considero dotato di particolare capacità divinatoria per aver consegnato agli Atti del XVI congresso nazionale della Cgil (2010) il presagio che non si sarebbe potuto espellere dall’ordinamento giuridico la norma-simbolo dello Statuto dei lavoratori «se non di nascosto e quasi senza dirlo. Come si è visto all’epoca di Sergio Cofferati, la norma conserva un pathos sufficiente per trascinare le folle nelle piazze in caso di sfacciata aggressione. Quindi, bisognerà ricorrere ad accorgimenti».

In effetti, quella della legge delega del 2014 denominata Jobs Act (e della successiva decretazione delegata) è una storia d’inganni, furbizia malandrina e apparenze falsificanti. Ce n’è d’ogni colore e spessore. Si va dall’uso di anglicismi con un forte impatto mediatico, ma di oscuro significato, all’uso disinvolto di nomina iuris bugiardi che hanno la pretesa di ridefinire la figura del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Si va dal rispetto soltanto formale delle procedure parlamentari (la legge-delega non solo è approvata ricorrendo al voto di fiducia per imbavagliare i dissenzienti interni alla stessa maggioranza governativa, ma non prescrive nemmeno principi direttivi che la Costituzione esige allo scopo di limitare la discrezionalità del legislatore delegato, sicché lascia intenzionalmente nel vago l’oggetto che invece dovrebbe essere predefinito) alla rottura della consolidata regola non scritta che fa precedere l’intervento legislativo in materia di lavoro da confronti nel merito coi sindacati. Si va dalla ri-valorizzazione del potere aziendale attraverso il sostanziale ripristino della licenza di licenziare all’incentivazione a marginalizzare la tutela giurisdizionale dell’interesse ad impugnare il licenziamento.

In conclusione, la legge delega non solo autorizzava il governo ad allungare le mani sull’intero diritto del lavoro, ma ha anche finito per celebrare l’apologia della corrente di pensiero che riduce la politica a mera comunicazione. Come dire: ci voleva proprio un legislatore che, candido come una colomba e astuto come un serpente, facesse sparire l’art. 18 senza abrogarlo. Naturalmente, non è sbucato dal nulla né ha agito da solo e all’improvviso. Ha approfittato di un contesto largamente favorevole. Ciononostante, non è scolastico affermare che è la legge Monti-Fornero del 2012 a segnare l’inizio della fine della logica sottesa alla più efficace disciplina vincolistica del licenziamento individuale che si sia mai conosciuta e praticata.

La contorta formulazione della normativa reca tracce della fatica di nascondere i turbamenti che procura alle persone in buona fede la consapevolezza che la flex-security raccomandata dall’Unione Europea cui dichiarano d’ispirarsi gli autori del massacro del garantismo applicato nell’universo del lavoro dipendente non può nel nostro paese essere virtuosa, ma soltanto virtuale. Nascosta invece non è l’euforizzante emozione di chi sa che, dopo di lui, sarà più agevole azzerare l’attitudine del contratto di lavoro a tempo indeterminato a fare uno stile di vita della “monotonia del posto fisso” (come si esprimeva l’algido premier in carica: un anziano professore universitario nonché senatore a vita). Infatti, la drastica riduzione della possibilità giuridica di reintegrare il licenziato senza giustificato motivo avrebbe dovuto, nei propositi del legislatore, produrre un calo della desiderabilità sociale del contratto di lavoro che nel ‘900 aveva funzionato da stella polare. Quindi, l’effettiva finalità della legge era quella di accompagnare l’art. 18 al suo malinconico passo d’addio e, poiché il manufatto legislativo aveva le caratteristiche di un semi-lavorato, erano in molti a pronosticarne l’ultimazione col maturare delle condizioni opportune.

L’atto I del dramma della morte annunciata dell’art. 18 termina qui. L’atto II racconta come sia stato percorso l’ultimo miglio. Col primo decreto attuativo della delega, nel marzo del 2015 il governo ha ri-regolato il contratto di lavoro sine die qualificandolo “a tutele crescenti”, anche se la sola forma di tutela che può crescere (a ritmo annuale di 2, ma fino ad un massimo di 24 mensilità) è l’indennità corrisposta in caso di licenziamento ingiustificato. Pertanto, malgrado l’indeterminatezza della sua durata, questo contratto è disciplinato in modo da pregiudicare l’interesse del lavoratore alla continuità dell’occupazione. Infatti, emarginata la tutela contro il licenziamento illegittimo consistente nella rimozione dell’illecito e delle sue conseguenze, l’imprenditore si vede garantita l’irreversibilità delle sue decisioni, per illegali che possano risultare in giudizio. Quello di licenziare, cioè, si configura non più come un potere da limitare, bensì come un diritto il cui abuso dà luogo soltanto ad un modesto risarcimento forfettario della perdita ingiustificata dell’occupazione.

Flebile e blanda, è una tutela qualitativamente identica a quella prevista in epoca anteriore allo statuto dei lavoratori. Alla fine dei conti, il licenziamento illegittimo non è altro che un costo di cui è bene conoscere in anticipo l’importo; punto e basta. Pertanto, se non si è in presenza di un decesso prematuro del diritto del lavoro, è innegabile che lo si è fatto tornare all’età dell’adolescenza. Come dire: il legislatore delegato si proponeva soltanto di praticare l’eutanasia dell’art. 18 che la legge Monti-Fornero aveva reso lontanissimo cugino dell’art. 18 preesistente. Quest’ultimo, infatti, è destinato ad estinguersi via via che i (milioni di) lavoratori assunti a tempo indeterminato in servizio prima dell’entrata in vigore della riforma lasceranno per qualunque motivo l’azienda, mentre per i neo-assunti la reintegrazione nel posto di lavoro è una remota eventualità.

Insomma, l’art. 18 si dissolverà dolcemente, piano piano e nel più assordante silenzio. A quel punto, però, la decenza vorrebbe che l’accattivante ammiccamento alle “tutele crescenti” venisse soppresso per rispetto, se non degli italiani, della lingua italiana. Dopotutto, è uno spot pubblicitario e la sua funzione promozionale si è esaurita. Ormai, è chiaro che il successo del contratto “a tutele crescenti” (largamente inferiore, peraltro, alle attese del legislatore) era favorito da un sensibile abbassamento del costo del lavoro a carico della fiscalità generale. Sgravi e decontribuzioni, ovviamente, erano temporanei. Durevoli, invece, sono gli effetti del durissimo attacco al principio-base dell’eguaglianza che la Costituzione vorrebbe vedere operante nei luoghi di lavoro sia in senso verticale che in senso orizzontale. In senso verticale, perché lo svuotamento della tutela contro il licenziamento ingiustificato dilata la risolubilità unilaterale del contratto di lavoro per decisione dell’imprenditore sia in base a calcoli di convenienza economica sia per ragioni disciplinari. Nemmeno all’eguaglianza in senso orizzontale sono risparmiati violenti strappi. E ciò perché la data dell’entrata in vigore del provvedimento legislativo (10 marzo 2015) funziona da pretesto per disapplicare la regola per cui a lavoro eguale corrisponde un eguale trattamento. In effetti, la differenziazione di regimi del licenziamento tra vecchi e nuovi assunti non trova alcuna giustificazione nella diversità della loro condizione lavorativa.

Certo, la Corte costituzionale potrà essere chiamata a pronunciare in proposito l’ultima parola; il che prima o poi succederà. Intanto, però, bisogna accontentarsi di denunciare che la logica adottata per stabilire che qualunque assunzione successiva ad una certa data dà origine a trattamenti differenziati di un istituto avente un’importanza strategica come il licenziamento ubbidisce soltanto ad un calcolo di opportunità che ha molto da spartire con quello che ha portato il medesimo governo a concedere un aumento salariale di 80 euro ai percettori di un reddito da lavoro oscillante tra un minimo e un massimo o un bonus dei 500 euro ai diciottenni per acculturarsi, comprarsi qualche romanzo o andare a teatro. In tutti questi casi, è sempre una questione di consenso elettorale: catturarne il più possibile o perderne il meno possibile.

Infine, il legislatore delegato ha sposato l’idea, in circolazione da tempo, che lo statuto dei lavoratori sarebbe invecchiato precocemente. Un’idea che, viceversa, è figlia dell’antica convinzione che il diritto del lavoro non può stabilire con la costituzione lo stesso rapporto che esiste tra la lingua e la grammatica. Non diversamente, i governanti sono persuasi che quello rifondato dallo statuto dei lavoratori nel solco tracciato dalla costituzione sia un diritto del lavoro con un grande futuro alle spalle. Infatti, portando dentro il contratto la tutela dei diritti fondamentali di libertà e dignità dei lavoratori nel loro contenuto essenziale, il legislatore statutario aveva affrontato il problema del contemperamento con la libertà dell’iniziativa economica circondando la gestione del personale con regole che testimoniavano come il contratto di lavoro differisse da contratti apparentemente affini (come la compravendita) in ragione della qualità dello scambio. Ora l’assetto regolativo è modificato radicalmente. Non che il problema del contemperamento sia stato accantonato. Semplicemente, se ne rovescia la soluzione. Non è più la logica mercantile del contratto a dover farsi carico del rispetto dei diritti fondamentali. Sono i diritti fondamentali che devono farsi carico della logica del contratto ed esserne sacrificati.