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Luglio 2017

Gig economy e pluriattività 

 di Stefano Musso

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Gig economy, ovvero l’economia dei lavoretti. Ma il nomignolo richiama i giga-byte, ovvero i computer e il web, opportunamente, poiché senza le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non esisterebbe, nella forma attuale, la gig economy. Dalle attività da freelance come la progettazione di siti web, all’affitto temporaneo di camere, dalla vendita di prodotti artigianali autoprodotti ai trasporti privati alternativi, dalle consegne a domicilio ai 300 mila lavoretti proposti dalle piattaforme di crowdworking, si assiste alla crescente diffusione di possibilità di svolgere microattività, nuove e vecchie ma gestite con strumenti nuovi. E tuttavia, vista con l’occhio dello storico, l’economia dei lavoretti non presenta tratti di assoluta novità. Certo, gli strumenti tecnologici attraverso i quali vengono svolte le attività che le sono tipiche, dal web alle piattaforme o app dedicate, sono del tutto nuovi; ma temporaneità del lavoro, saltuarietà, provvisorietà, attività on demand, produzione di unità separate e pagate ciascuna separatamente ricordano da vicino la miriade di attività occasionali, pagate tanto al pezzo (a cottimo se si preferisce), che hanno caratterizzato una intera epoca della storia del lavoro agli albori dell’industrializzazione, quando la stagionalità della produzione, tanto agricola quanto industriale, e l’irregolare susseguirsi delle commesse anche nelle fabbricazioni di maggiori dimensioni, dipingevano un mercato del lavoro caratterizzato dalla instabilità dell’occupazione.

Per tutto l’Ottocento italiano - e in molte aree anche a Novecento inoltrato -, per la grande maggioranza dei lavoratori si alternavano periodi di occupazione con periodi di disoccupazione. Tanto che i riformatori tardo ottocenteschi, preoccupati della “questione sociale”, pur individuando nella disoccupazione (a quel punto, finalmente, definita come involontaria) il problema più grave, incontravano difficoltà nel definirla, perché la condizione normale era piuttosto la sottoccupazione. In assenza di qualsivoglia intervento della mano pubblica nel senso della costruzione di sistemi di sicurezza sociale, e data l’impossibilità per le società di mutuo soccorso di distribuire sussidi di disoccupazione (sussidi di tal tipo avrebbero prosciugato anzitempo le casse, a causa della diffusione del fenomeno), la miglior forma di assicurazione contro la disoccupazione era la pluriattività, individuale e familiare, vale a dire il dedicarsi a svariate attività, ora alle dipendenze ora in proprio, all’interno dello stesso comparto merceologico o in settori differenti, alternando attività principali e secondarie, nei mille rivoli del mercato del lavoro rurale e urbano. Quando veniva a mancare l’occupazione principale si cercava di incrementare quella o quelle secondarie. L’obiettivo era, ovviamente, garantirsi fonti di reddito che sommate fossero sufficienti ad assicurare la sussistenza.

Le analogie con la gig economy sono lampanti: quanti giovani dall’occupazione precaria si dedicano oggi a nuove forme di pluriattività, favorite da crowdworking e gig economy, assommando lavoretti più o meno stabili, più o meno estemporanei, che insieme consentono, magari con un po’ di aiuto parentale, di conquistare una vita in qualche misura indipendente dalla famiglia di origine? Si potrebbe osservare che una “pluriattività 1.0” è stata tipica dell’età della prima rivoluzione industriale; non è poi affatto scomparsa nell’epoca del lavoro relativamente stabile e a tempo pieno della seconda rivoluzione industriale, quando, seppur ridimensionata e ridefinita nei secondi lavori e nelle attività grigie del lavoro urbano o dei metalmezzadri a cavallo tra campi e industria, si può parlare di “pluriattività 2.0”; ha trovato infine oggi una rivitalizzazione in una versione di “pluriattività 3.0”, o forse, 4.0: la gig economy, per l’appunto.

È probabilmente vero che in moltissimi campi le nuove tecnologie fanno fare due passi avanti, ma il rischio che se ne faccia almeno uno indietro, nel senso della moltiplicazione della precarietà, è altrettanto vero. Specie se il ricorso ai lavoretti, anziché un espediente giovanilistico per fare esperienze, guadagnare qualcosa mentre si studia o si cerca altro, finirà per inchiodare un numero crescente di persone nella incapacità di uscirne per attività più appaganti, sia per contenuto professionale che per livello e stabilità dei redditi.