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Dicembre 2018

Assedio della storia e classi dirigenti

Catia Sonetti

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C’è stato neppure troppo tempo fa un ministro della Pubblica istruzione, certo Luigi Berlinguer, che propose una riforma della scuola dove uno dei cardini era lo studio del Novecento, in ogni ordine e grado del curricolo, perché gli studenti dovevano essere più consapevoli del mondo che li circondava quando arrivavano al termine di un ciclo scolastico. Studiare più Novecento voleva dire rafforzare la disciplina della storia e non solo di quella, voleva dire porre l’accento su quel secolo che fu definito, non a caso, il “secolo del lavoro”. Una proposta che cercava nei fatti di costruire una scuola meno classista di quella che avevamo.

La riforma Berlinguer fu approvata nel 2000 ma non entrò mai in vigore e nel 2003 arrivò la riforma Moratti del governo Berlusconi, quella delle tre “i”: informatica, inglese, impresa. Eravamo entrati in un’altra era. Il ministero cambiò nome e non fu più denominato della Pubblica istruzione, ma semplicemente dell’Istruzione. Dopo quella virata si ebbero successivamente altre conferme del nuovo indirizzo, prima con Mariastella Gelmini e poi con il governo Renzi per arrivare, tutti solidali in questa strategia, all’attuale governo giallo-verde che ha abolito, così d’emblée, la prova C dell’esame scritto di maturità, quella del saggio di storia. La spiegazione è che i ragazzi non la scelgono quasi mai. La protesta è venuta soltanto dagli storici professionisti, mentre i parlamentari sostanzialmente non hanno fiatato.

L’idea di appoggiarsi alle preferenze degli studenti, fino alla quarta superiore pure minorenni, cominciò proprio a partire dalla riforma Moratti e il linguaggio lo indicava senza ambiguità. I ragazzi delle nostre scuole non erano più il soggetto finale dei nostri sforzi educativi, degli sforzi del mondo degli adulti, ma diventavano i clienti di una scuola divenuta impresa, e come impresa doveva tener di conto dei gusti dei suoi clienti. Un prodotto non richiesto scompare dallo scaffale del supermercato. Il problema però, ed è un problema di impellente necessità, è che gli studenti italiani che prima si distinguevano in Europa per la preparazione umanistica (perlomeno in quella) adesso sono fragili su tutto l’apprendimento. Aver diminuito e ridimensionato le ore di storia, dai licei scientifici agli istituti professionali, talvolta accorpandola all’insegnamento della geografia facendo così in un colpo solo un danno a due discipline invece che ad una sola, ha prodotto un grave indebolimento della preparazione dei nostri giovani. L’unica scuola non toccata da questa furia iconoclasta è stato il liceo classico. Perché? Non perché è lì che si costruisce la futura classe dirigente del paese, come pensava Gentile, ma perché lì ci vanno in pochi e allora… non vale la pena metterci le mani. Il classico non ha mercato. Questo è quello che hanno pensato e pensano le classi e i partiti che ci hanno governato e che ci governano.

Eppure la nostra realtà è sempre più globalizzata. La nostra vita quotidiana, la nostra stessa sopravvivenza alimentare e non solo, la nostra maggiore o minore solidità economica e finanziaria, si interseca con linee che attraversano in lungo e in largo l’intero globo. Come affrontare in modo attrezzato, a livello scolastico e culturale, questa complessità? Sembra persino banale rispondere che a questa difficoltà si risponde rafforzando i fondamentali: lingua, matematica, storia, geografia e lingue straniere. Niente di tutto questo è stato fatto. Anzi siamo andati in direzione opposta e contraria. Soprattutto per la storia.

In quanto storica e docente non posso evitare di affermare che non c’è possibilità di lettura critica del presente senza collocarlo dentro una prospettiva storica e storiografica, sia che ciò che sto osservando mi appaia come un evento breve e circoscritto, sia che mi trovi di fronte a una manifestazione di “lunga durata”. Renzi poi ha fatto un capolavoro con la “Buona scuola” permettendo ai ragazzi delle scuole tecniche e professionali di divenire forza lavoro a costo zero per i più svariati tipi di imprenditoria. Baristi a Roma, all’ingresso di uno studio di estetica, alla fotocopiatrice negli studi tecnici, lavoranti di bassa manovalanza nei cantieri edili e in mille altri luoghi.

Perché scrivo queste parole con rabbia e delusione? Perché non credo al valore formativo ed educativo di una esperienza di lavoro per un/a ragazzo/a? No, al contrario. Proprio perché il lavoro è un tema serio, ancora più serio per le ultime generazioni che non ce l’hanno, sarebbe indispensabile condurre gli studenti nel mondo del lavoro con una conoscenza storica e storico-critica del medesimo tema. Non gettarli così allo sbaraglio, e se va bene tutto ok se va male pace. Non solo. Per fare davvero un servizio utile ci sarebbe stata necessità di preparare delle piattaforme di intesa con le associazioni di categoria, ci sarebbe stata necessità di motivare, anche economicamente, il docente che si prende la responsabilità dell’organizzazione, ci sarebbe stata necessità di corsi di formazione, magari. Ci sarebbe stata, insomma, necessità di risorse. Invece si partorisce un monstrum, anche sul piano quantitativo.

Le ore di alternanza sono una follia per i nostri studenti, anche perché a loro abbiamo ridotto proprio quelle discipline curricolari, come la storia e la geografia, che li avrebbero aiutati a crescere dentro il panorama del lavoro. Del lavoro occorre parlare ma per studiarlo, non in una prospettiva eurocentrica ma in una dimensione globale, perché globali sono i flussi di immigrazione che si spostano sulla terra per andare incontro al lavoro là dove è. Occorre aiutare gli studenti a capire perché a Rosarno a raccogliere gli agrumi ci sono solo ragazzi di colore che vivono in condizione di sfruttamento bestiale. E perché dal nostro paese ogni anno partono per emigrare migliaia di studenti laureati e specializzati poiché non siamo in grado di offrire loro né una prospettiva lavorativa, né tanto meno una prospettiva retributiva seria.

Questi elementi del nostro presente non sono dei dati, sono dei prodotti. Prodotti storici di cui varrebbe la pena ricostruire la genesi e la maturazione in una prospettiva storica, perché senza questa prospettiva tutto sta appeso come sopra un tetto di carta. Prima o poi viene giù. Certo a qualcuno, e sono molti, e sono presenti trasversalmente all’arco costituzionale, piace pensare ai cittadini solo come elettori arrabbiati, questo pensiero semplifica il loro lavoro e la loro comunicazione. Piace vederli solo come consumatori verso i quali si impostano campagne di propaganda con slogan facili e un buon confezionamento dei medesimi, per costruire capri espiatori e sintetizzare un’onda di consenso. Ma questa deriva culturale prima che sociale è stata costruita con alcuni decenni di paziente lavoro. Con decenni durante i quali il lavoro docente è stato svalutato e stigmatizzato dalla classe dirigente, dove si sono aperte le porte, anzi si sono spalancati portoni, a intrusioni non debite dei genitori, dove la cultura e il merito sono diventate opzioni non significative per esprimere un giudizio.

Un mondo dove i grandi partiti di massa di riferimento si sono decomposti o autosciolti e da queste trasformazioni è uscito il risultato, sotto gli occhi di tutti, anche questo classico, già reperibile nel tempo, di gruppi politici che semplificano grossolanamente i problemi, che li affrontano urlando e soprattutto dando le responsabilità dei nostri disastri agli altri. In un altro contesto storico si trovarono gli ebrei, oggi ci si scaglia contro gli “stranieri”, e così un’altra volta invece di affrontare i problemi con la volontà di risolverli, si demonizza un gruppo da dare in pasto alle masse. L’elettorato in questa operazione è trasformato in clientela e come tale va solleticata e accontentata.

L’educazione civica potrebbe essere utile per l’integrazione e la coesistenza e per una conoscenza della nostra Carta costituzionale? Sicuramente sì.  Ma come fa ad essere credibile Salvini quando parla di reintrodurre l’educazione civica? Forse qualcuno lo dovrebbe avvertire che l’educazione civica non è mai stata cancellata. Semplicemente era ed è impossibile insegnarla. Se il tempo scuola dedicato alla storia si è accorciato e invece l’arco cronologico da presentare agli studenti si è dilatato, e si è allargato l’orizzonte fisico delle vicende che il docente deve insegnare, quando e come insegnerà educazione civica? Sì ministro, l’educazione civica andrebbe introdotta, dalle elementari alle superiori con un’ora ad hoc, in più, con insegnanti preparati e formati, con insegnanti pagati con stipendi europei, altrimenti si sta facendo solo demagogia, come quella che alcuni prima di lei hanno fatto facendo finta di introdurre l’insegnamento dell’inglese nella scuola di base.

Per finta si possono fare tante cose, ma il risultato vero, finale, sarà quello di avere studenti sempre più disarmati di fronte al mondo che li aspetta fuori dalle mura della scuola, cittadini fragili e di conseguenza incattiviti e violenti, quelli che tutti i giorni, spronati anche dalle grida di battaglia di chi dovrebbe porsi come esempi, l’unico rimedio che intravedono alle loro debolezze è la violenza, verbale e talvolta fisica.