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Sanità, lavoro e tutela della salute, oggi

di Fabio Capacci

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Sanità ed emergenza

E’ ormai diffusa la convinzione che fra le cause del diffondersi della recente pandemia, particolarmente evidenti in alcune Regioni, si deve annoverare la debolezza della medicina territoriale. Diceva Ivar Oddone che, nel modello funzionale delle USL, il medico curante, o medico di medicina generale, ricopre una posizione fondamentale, figura chiave nel rappresentare la sintesi fra approccio scientifico-tecnico-politico al problema dell’assistenza, in grado di coniugare gli aspetti della prevenzione, della cura e della riabilitazione e di scegliere coerentemente gli specialisti a cui affidare il paziente. E’ a questo livello che si è consumata la sottovalutazione dei segni iniziali della pandemia, la lentezza nell'adottare percorsi diagnostici agili e le carenze nell’assistenza sul territorio. Altrettante difficoltà sono insorte nei Dipartimenti di Prevenzione, nel gestire le notifiche di malattia infettiva (contact tracing ed inchiesta epidemiologica) e nel coordinare la prevenzione nei luoghi di lavoro sia in Fase 1 nei comparti essenziali (i casi ed i decessi fra operatori sanitari dimostrano quanto ce ne sarebbe stato bisogno), sia alla ripresa delle attività lavorative. 

La scarsa attenzione al ruolo che avrebbero potuto svolgere i servizi di prevenzione pubblici, ha fatto venir meno uno degli argini alla diffusione della pandemia. L’andamento nel tempo del contagio suggerisce che il controllo sia in buona parte da attribuire alla crescente capacità di intercettare precocemente i positivi, come rilevato per la Toscana da ARS: il “progressivo aumento del numero medio di tamponi giornalieri, passati da 400 ai più di 4.000 medi attuali ….  sembra che stia aumentando la capacità di individuare casi positivi con uno stato clinico più lieve, trattabile quindi a domicilio, rispetto a quelli individuati nella fase iniziale dell’epidemia. Questa ipotesi è supportata dal fatto che a un aumento del numero di nuovi casi positivi individuati quotidianamente non corrisponde un aumento dei ricoveri ospedalieri che, anzi, si stanno fortemente riducendo nelle ultime tre settimane.” (Report del 12 maggio 2020) 

A proposito della Prevenzione nei Luoghi di Lavoro, molti motivi possono giustificare la lentezza e la disorganicità degli interventi: paura, carenza di DPI adeguati, mancanza di indirizzi istituzionali, caos normativo, ecc.. Ma, in sintesi, la causa reale è stata l’assenza di un piano specifico per fare fronte alle emergenze e di un riconoscimento del ruolo di questi Servizi delle USL. Dove qualcosa è stato fatto, ciò è avvenuto con iniziative dal basso, non coordinate, mentre si è assistito ad un conflitto fra Stato e Regioni che, in alcuni casi, come in Toscana, ha assunto aspetti paradossali, come quando Regione e Prefetture si sono scontrate sul controllo dei protocolli anti CoviD in Fase 2. Le ASL, in effetti, inizialmente non comparivano neppure fra gli Enti individuati dal DPCM del 26 aprile per svolgere questo controllo, affidato invece alla Direzione Provinciale del Lavoro, che, vista la sua diversa missione, non ha risorse numeriche né tecniche adeguate.  L’esclusione dei Dipartimenti di Prevenzione, successivamente corretta, è apparsa anche in contraddizione con quanto sostenuto da larga parte della Magistratura, che considera le norme anti Covid afferenti al dlgs 81/08, il cui controllo è sostanzialmente affidato alle ASL.

Sebbene l’emergenza abbia lasciato poco tempo per fermarsi a riflettere, tuttavia una riflessione su ruolo, risorse ed organizzazione del sistema sanitario territoriale si impone come lo strumento di gran lunga più efficace e sostenibile nel contenere eventuali, nuove ondate di questo, come di altri eventi pandemici.
 

La tutela della salute nei luoghi di lavoro: un modello da rivedere

Ben prima dell’emergenza CoviD, già si coglievano elementi di crisi e perdita di identità del modello originario di prevenzione, in particolare nei luoghi di lavoro. Le ragioni sono da ricercare in cambiamenti del contesto sociale, culturale e politico di cui è possibile, in questa sede, enunciare poco più che i titoli: l’evolvere del lavoro e dei rapporti di lavoro, della normativa e della percezione del danno da lavoro.  Sono argomenti fortemente correlati e di complessità tale da richiamare il dibattito sindacale negli anni ‘60 e ‘70 sul rapporto fra “specialisti tradizionali” depositari di teoriche conoscenze, ed “intellettuali organici”, cioè di figure di raccordo interne al movimento sindacale in grado di assumere il punto di vista dei lavoratori. Figura che, in effetti, nel tempo è venuta a mancare.

Il passaggio delle norme italiane di tutela dei lavoratori verso il modello europeo è avvenuto, a partire dagli anni '90, in un contesto socio-politico piuttosto critico per l’affermarsi di un processo di globalizzazione che invece di parlare il linguaggio comune tra i popoli, ha messo in conflitto i lavoratori fra di se ed ha avvantaggiato l’accumulo di capitali, potere e conoscenze nelle mani di pochissimi. Il modello europeo di prevenzione nei luoghi di lavoro, fortemente basato sul sistema aziendale a cui i lavoratori partecipano attraverso figure istituzionali, ha favorito di fatto una delega ai Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), figure che, nella visione delle direttive comunitarie, avrebbero dovuto svolgere funzioni di condivisione ed indirizzo delle misure di prevenzione all'interno dell'azienda.

In Italia è stata data diversa interpretazione alla figura del RLS e gli è stato di fatto attribuito un ruolo sindacale. Nominato dal sindacato ma formato dal datore di lavoro che però lo vive come controparte, è molto lontano dalla figura ipotizzata negli anni ‘60, interna al movimento sindacale ed in grado di assumere il punto di vista dei lavoratori. In cerca di un ruolo autentico e di visibilità, spesso assume iniziative più di immagine che di sostanza ed i risultati che può ottenere, non hanno il respiro che dovrebbe avere l’azione sindacale. 

Ma sopratutto preoccupa la delega data agli RLS dal Sindacato sulla tutela della salute sul lavoro, senza poi essere riusciti a sostenerli, formarli né, sopratutto, coordinarli e che ha portato alla perdita di capacità dialettica e di stimolo nei confronti degli “specialisti”, in particolare dei servizi di prevenzione pubblici.

I Servizi pubblici di prevenzione, d'altra parte, senza lo stimolo di Sindacato e lavoratori, difficilmente riescono a crescere, nel senso di sviluppare idee e strategie adeguate ai problemi attuali ed azioni di prevenzione il cui obbiettivo sia compreso e condiviso dai lavoratori.  Come conseguenza, appaiono schiacciati dall’unica attività a loro riconosciuta dalle istituzioni ed alla quale sono sollecitati dagli stessi RLS, quella della vigilanza e delle sanzioni, unica soluzione che tutte le parti politiche e sindacali riescono ad evocare come un mantra all’indomani di ogni nuova tragedia sul lavoro che giunga al livello di visibilità mediatica.

Il rapporto fra RLS e Servizi di prevenzione è reso difficile, sopratutto dalla perdita di un linguaggio comune che permetta di condividere la complessità dei problemi di salute andando oltre il formalismo, trappola che le attuali norme, con il loro eccessivo carico burocratico, pongono di continuo sulla via della prevenzione efficace. Senza un linguaggio comune, difficilmente specialisti della prevenzione e lavoratori potranno comprendersi a vicenda su temi quali la percezione del rischio o la prevenzione efficace.

Ben diverso è stato l’effetto per le Aziende delle norme europee sulla prevenzione, che hanno messo in campo un numero spropositato di consulenti, tecnici e medici, pagati dai datori di lavoro. Di alcuni di loro non si può parlare granché bene; spesso parassitano piccole aziende dove peraltro si annidano ancora grandi rischi.  I più professionali, o gli universitari, ergonomi o virologi “di grido”, finiscono nelle grandi e medie imprese, nelle quali il sistema di prevenzione previsto dalle norme europee si adatta più correttamente.

La Fabbrica però, almeno nell’esperienza fiorentina, sembra avere perso i suoi confini e mai come oggi appare evidente che i problemi della tutela della salute nei luoghi di lavoro non possono trovare risposta esclusivamente dentro il luogo di lavoro.  La sotto-occupazione, la mancanza di diritti, lo sfruttamento, l’esportazione del lavoro in altri paesi hanno creato schiere di lavoratori fantasma, poco aggregati, senza rappresentanza, spesso senza un padrone, ma con mille padroncini che soffrono di condizioni non troppo diverse dalle loro. Sono i lavoratori precari nelle cooperative di servizi, nei call center, i rider, i braccianti agricoli, parte del mondo della ristorazione, degli alberghi, del commercio.

Ed anche la percezione del danno da lavoro sembra cambiare. Le malattie da lavoro tradizionali si cronicizzano grazie alla riduzione dell’intensità delle esposizioni e si confondono con la patologia comune, mentre emergono gli effetti dello sfruttamento, della mancanza di prospettive, dello stress, legato soprattutto all’essere vittima di arroganza e prevaricazione. Il rilievo crescente di patologie da stress è un indicatore delle condizioni di lavoro sopra descritte, ma avere dato a questa sindrome la dignità di patologia professionale riconosciuta da INAIL non ha fornito alcun vantaggio in termini di guarigione e risoluzione delle condizioni di conflitto.

L’epidemia CoviD ha messo in evidenza alcune di queste situazioni, in particolare nelle RSA, dove vige un modello di assistenza a controllo regionale fondato sull’isolamento della “vecchiaia” in grandi strutture non sanitarie, spesso di proprietà private che le gestiscono indirettamente, affidandone i servizi a cooperative. Il lavoro è organizzato nel rispetto di parametri regionali poco soddisfacenti in termini sia numerici che di qualifica del personale addetto.  L’inadeguatezza  di questo modello e lo stato di abbandono umano di oltre trecentomila anziani custoditi nelle RSA è stata recentemente oggetto di una accorata lettera di Gavino Maciocco al Ministro della Salute  in occasione del dramma indotto in queste strutture  dall’epidemia di CoviD (pubblicata su SOS SANITA’). Da tempo questa situazione mostra i suoi effetti anche sulla salute dei lavoratori del settore, che si rivolgono spesso agli ambulatori di medicina del lavoro, esprimendo attraverso i sintomi dello stress lavoro correlato, il malessere legato a disfunzioni organizzative che si sono rivelate anche elementi di grave vulnerabilità del sistema di assistenza: mancanza di coordinamento fra Proprietà/Direzione ed erogatore di servizi, insufficiente rapporto operatori/pazienti, mancanza di qualifiche sanitarie, tendenza al distacco emotivo come difesa dallo stress, lentezza nella risposta all’emergenza, sottovalutazione dei rischi, ecc.
 

L’attualità del pensiero di Ivar Oddone

Alcuni concetti cari ad Ivar Oddone (1923-2011) sembrano conservare grande attualità:

Il primo riguarda l’Unità Sanitaria Locale che – diceva Oddone – deve avere la funzione di prevenire, proprio sulla base della possibilità di utilizzare tutte le informazioni locali, avendo sempre una visione globale, non soltanto dell’individuo, ma del rapporto fra individuo e ambiente, fra collettività di cui l’individuo fa parte e ambiente di vita, compreso l’ambiente di lavoro.
Ivar Oddone, sulla base del suo lavoro collaborativo con la Camera del lavoro di Torino e con delle avanguardie operaie della FIAT, aveva perfettamente espresso tale concezione in una memorabile relazione svolta nel 1971 al Convegno di Reggio Emilia su “Lotte operaie, enti locali e medicina del lavoro nel quadro della riforma sanitaria”; in quella occasione, con enfasi, perché venisse meglio compreso, diceva: “l’obiettivo dell'Unita Sanitaria Locale è quello di garantire il massimo di prevenzione dei danni allo stato di benessere psico-fisico della popolazione interessata. Gli attori di questa complesso processo di raccolta, elaborazione e diffusione delle informazioni, che sono la condizione indispensabile per modificare l'ambiente, di vita e di lavoro, a misura della comunità stessa, sono la popolazione interessata e i tecnici, intesi in senso lato. Bisogna partire dalla conoscenza attuale della realtà dello stato di salute e di malattia della popolazione interessata. Bisogna partire dalla conoscenza delle malattie possibili che la letteratura mondiale ci offre. Il primo compito della U.S.L. è quindi quello di verificare, attraverso la diffusione e la discussione - in assemblee, in tutte le forme, in tutte le collettività - sulle malattie possibili, sulla base dell'esperienza degli interessati e dei medici”.
Non si può dire la Riforma sanitaria approvata nel 1978 non abbia accolto almeno in via teorica quella concezione che Oddone e tanti altri con lui erano riusciti a far arrivare in maniera convincente alla pubblica opinione ed anche nelle aule del parlamento. Quello che è successo subito dopo ma anche nel corso dei decenni successivi è un sostanziale tradimento, da parte della politica e delle istituzioni, di quella concezione.

Il secondo pensiero di Oddone prende le mosse da Bernardino Ramazzini per rilevare che gli operai delle fognature avevano sperimentato, ben prima di lui e sulla base della propria esperienza, cosa fosse il danno da lavoro; ed anche le soluzioni sono inscindibili dall'esperienza del lavoro, purché si comprenda con chiarezza il vero significato delle azioni di prevenzione ed il fatto che, oggi probabilmente più che in passato, le soluzioni non esistono esclusivamente sul posto di lavoro ma sono il frutto di un’azione collettiva condotta dentro e fuori i luoghi di lavoro.
Ivar Oddone viene ricordato, specie dai suoi più stretti collaboratori, come persona molto esigente, nemico di ogni forma di superficialità e di semplicismo, anche aspro nei giudizi; negli ultimi tempi era particolarmente indignato per come vanno le cose, in tutti i campi, in Italia e particolarmente per la “politica” industriale della FIAT. Si dedicò così alla redazione di un “Libello”, un opuscolo fortemente satirico e provocatorio. L’Incipit di un brano di questo “Libello” richiama proprio il rapporto intercorso tra gli operai della fognatura e il pensiero di Ramazzini: quest’ultimo, infatti, aveva scritto (in latino, l’inglese americano per la medicina dell’epoca in Europa) che gli operai che svolgevano il lavoro di pulizia delle fognature di casa sua (così erano le fognature nel Settecento) avevano già scoperto da tempo come si pulivano le fogne e come ci si potesse allora difendere solo con il massimo di bravura professionale, che permetteva il minimo di tempo di esposizione ai miasmi delle fogne. Non è stato dunque lui a inventare la medicina del lavoro, ma a capire che gli operai delle fognature avevano già scoperto che esisteva quella branca della scienza che, per certi versi, è ancora solo conoscenza operaia (il prodotto della esperienza grezza degli operai) e le soluzioni sono ancora dovute alle loro lotte per migliorare la produzione.