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Giovani e lavoro: le parole

di Loredana Panariti

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Il mercato del lavoro italiano, dopo le due ondate pandemiche e le misure di contenimento adottate per evitare la diffusione del virus, mostra un importante aumento del tasso di disoccupazione. La crescita della disoccupazione, tuttavia, non ha avuto un impatto omogeneo su tutti i settori e tutte le classi d’età, e penalizzati sono stati soprattutto i giovani e, fra questi, in prevalenza le donne. Il blocco dei licenziamenti e l’attivazione degli ammortizzatori sociali non sono riusciti, infatti, a tutelare i lavoratori precari a basso reddito nei settori colpiti dalle ripetute chiusure imposte nei servizi e nel commercio. Le misure di confinamento hanno quindi avuto spesso come esito il licenziamento dei precari o la chiusura dell’attività per i lavoratori autonomi, specie quelli dipendenti da un unico committente principale. I contratti atipici, che a oggi costituiscono il canale maggioritario per l’ingresso, e sempre più spesso per la permanenza, dei giovani nel segmento meno protetto del mercato del lavoro, uniti alle conseguenze della crisi pandemica, aumentano il pericolo di una accelerazione di un trend consolidato, con una parte della forza lavoro sprovvista degli strumenti per resistere alle crisi, sospesa tra la disoccupazione e l’inattività con l’aumento dei giovani che non lavorano, non studiano e non seguono corsi di formazione (BALDUZZI 2020). Siamo di fronte a un congelamento del mercato del lavoro per i giovani del nostro Paese, congelamento che ha radici lontane, sebbene l’emergenza sanitaria abbia acutizzato e reso più forte tutta una serie di aspetti con i quali convivevamo da diverso tempo.

Nel corso dei decenni non sono mancati a ogni livello progetti e programmi per ridurre la percentuale di disoccupazione giovanile che, dopo la crisi del 2008, ha interessato anche regioni italiane che fino a quel momento erano allineate alla media UE. “Garanzia Giovani”, iniziativa europea nata per migliorare l’inserimento lavorativo e combattere la disoccupazione giovanile, è stata appena rifinanziata e ci si augura sia possibile sfruttarne a pieno il potenziale.

In generale, sono numerose le pubblicazioni che misurano l’efficacia di questi piani e ne seguono il percorso mettendo in evidenza di volta in volta limiti ed elementi positivi; ma in questo breve testo vorrei invece rivolgere l’attenzione alle parole, perché anche il linguaggio utilizzato in questi anni per descrivere il lavoro in generale, e il lavoro giovanile in particolare, racconta i cambiamenti ai quali abbiamo assistito ed è per certi versi sintomo di una difficoltà generale nell’affrontare il problema.

Dalla fine del Novecento a oggi, dalla legislazione italiana ed europea, emerge particolare interesse a favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Nel nostro Paese, considerando solo gli interventi più recenti, dal cosiddetto “pacchetto Treu”, alla legge Fornero, fino al Jobs Act e all’ultimo decreto “dignità”, nel corpus legislativo è sottolineata sempre la volontà di superare l’alta percentuale di disoccupazione giovanile e di rendere l’assunzione di giovani “appetibile” per le imprese. La parola “giovani” è presente in tutti i programmi elettorali e, similmente, nei programmi di governo e delle istituzioni locali, ma le politiche giovanili in generale e, più in particolare, le politiche attive del lavoro per i giovani, scontano una certa ambiguità e mancano “di uno statuto condiviso che ne delimiti i tratti essenziali” (BAZZANELLA; CAMPAGNOLI 2014). Ciò ha molte cause: la difficile definizione dei destinatari, la titolarità delle competenze, divisa tra diversi soggetti e, infine, il ritardo italiano sulle politiche attive del lavoro delle quali, per diverso tempo, la concessione di incentivi alle assunzioni è stata il fulcro. E partiamo proprio dalle politiche attive del lavoro, che forse sarebbe meglio intitolare politiche attive per il lavoro, visto che l’obiettivo dovrebbe essere, appunto, l’occupazione.

L’espressione politiche attive del lavoro diventa maggiormente utilizzata quando, nella metà degli anni Novanta, a livello europeo si fa strada il principio di “società attiva” come elemento chiave nel promuovere occupazione, qualità dell’offerta formativa e della transizione scuola-lavoro, riforma degli ammortizzatori sociali, aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e integrazione sociale ed economica degli immigrati. Nel 1997 viene avviata la Strategia europea per l’occupazione (SEO) che impegna l’Unione europea e i Paesi membri a definire e realizzare un insieme di politiche articolate su quattro obiettivi (o pilastri) fondamentali: occupabilità, imprenditorialità, adattabilità e pari opportunità. Comincia qui il processo di sostituzione della parola “occupazione” con la parola “occupabilità” (che il correttore del mio pc continua a sottolineare in rosso). Il neologismo indica “la capacità delle persone di essere occupate o di saper cercare attivamente, di trovare e di mantenere un lavoro”. Si riferisce quindi all’abilità di ottenere un impiego, mantenerlo o cambiarlo quando necessario. In molti hanno letto lo slittamento dalla parola occupazione alla parola occupabilità come la rinuncia a creare posti di lavoro stabili per mettere, invece, l’accento sulla dotazione di tutte le competenze necessarie alle persone o, come si usa dire, sul capitale umano. Una responsabilizzazione maggiore verso le persone per convincerle ad attivarsi, ma anche un’accusa implicita verso chi non riesce a uscire dalla condizione di disoccupazione. Dietro all’utilizzo di questa parola c’è pure l’idea che le asimmetrie del mercato del lavoro possano essere colmate con una maggiore corrispondenza fra le competenze delle persone e le esigenze espresse dalle aziende, in modo da migliorare l’incontro di domanda e offerta di lavoro.

E competenze (di solito al plurale) è l’altra parola che, nello stesso periodo, si fa strada nel dibattito su occupazione e lavoro. Nel 1996 è pubblicato, a cura di Jacques Delors, il Rapporto all’UNESCO della Commissione internazionale sull’educazione per il Ventunesimo Secolo dal titolo Learning: the treasure within. Il Rapporto individua il saper fare e il passaggio dal concetto di abilità a quello di competenza come elementi essenziali del percorso scolastico. Anche qui, come nel caso dell’occupabilità, la persona viene investita della responsabilità di rafforzare le proprie competenze, di “imparare ad essere”. Questo per evitare il rischio di alienazione legato all’automazione sempre più spinta del lavoro e per permettere a ognuno “di risolvere i suoi problemi, di prendere le sue decisioni e di assumersi le sue responsabilità”. La formazione e l’apprendimento diventano, dunque, i motori dell’economia, capaci di promuovere innovazione e competitività, con la persona come elemento centrale di tutto il processo (DELORS 1996).

Qualche anno dopo, con la Strategia di Lisbona, l’Unione Europea passa da una logica di riconoscimento di titoli e qualifiche espressi dal curriculo scolastico alla valorizzazione delle competenze apprese in modo formale e informale a scuola o in esperienze di vita e di lavoro. Questo per avvicinare istruzione e lavoro e favorire la costruzione di un mercato unico europeo del lavoro, con la definizione di standard e strumenti capaci di agevolare il dialogo tra sistemi nazionali di qualificazione.

Il termine competenza ha dentro di sé diversi significati: a volte nel linguaggio quotidiano viene utilizzato come sinonimo di sapere e conoscenza e altre come qualifica e, in un Paese in cui la manualità è spesso disprezzata, pare che riconoscere alle competenze un ruolo importante per l’accesso al lavoro equivalga a svalorizzare il ruolo dello studio. Il concetto di competenza, che è stato definito “un maremoto semantico”, è diventato un campo di battaglia tra coloro i quali considerano l’accentuazione del ruolo delle competenze un piegarsi alle logiche industrialiste ed altri che imputano alla scuola le difficoltà da parte delle imprese di trovare manodopera qualificata e, quindi, propongono una didattica per competenze.

Le parole occupabilità e competenze sono le più usate nel discutere del processo di inserimento professionale alla vita lavorativa dei giovani e una rapida ricerca sui testi anche più recenti, dalle norme alle relazioni, dai progetti europei alla bibliografia dedicata, mostra come la qualità delle competenze venga sempre legata alla maggiore occupabilità. Al di là della posizione assunta nel dibattito che mette in conflitto occupazione e occupabilità, competenze e conoscenze, si tratta di una relazione forte che richiede investimenti specifici e politiche adeguate. L’adesione senza riserve a uno dei due schieramenti, fa correre il rischio – a giudizio di chi scrive - di dimenticare che proprio in mezzo stanno le persone in cerca di lavoro che chiedono strumenti e possibilità. Il dibattito che c’è stato in questi anni potrebbe essere recuperato, invece, per costruire un nuovo statuto di politiche attive per il lavoro che abbia nell’orientamento il suo nucleo centrale e che esca dall’esclusiva dimensione psicologica della presa in carico del giovane o della giovane in cerca d’occupazione. Non tutti, a volte nemmeno i cittadini, conoscono il ruolo dei servizi per il lavoro e dei centri di orientamento regionali e, forse, sarebbe il momento di valorizzare alcune esperienze regionali virtuose e metterle a sistema, invece di inventare ogni volta qualcosa di nuovo che spesso si sovrappone ad attività in corso mettendo in confusione l’intero sistema. Spesso, infatti, è proprio la dimensione territoriale a essere carente, la conoscenza del tessuto economico, delle sue caratteristiche, delle sue richieste e delle sue potenzialità. I servizi per il lavoro, di competenza delle regioni, dovrebbero essere valorizzati e continuamente riqualificati; non possiamo pensare ai navigator come funzionari erranti alla ricerca di un tirocinio retribuito per mettere un “più uno” sulla statistica o ai servizi come erogatori di bonus assunzioni “a pioggia” che, spesso, vengono concessi per assunzioni che ci sarebbero comunque state.

Per far fronte alle esigenze di conoscenza, tanto più adesso, di un mercato del lavoro instabile, servono maggiori investimenti in quanto i servizi per il lavoro sono sottodimensionati. Il modello italiano, infatti, si  caratterizza per una spesa nettamente inferiore a quella, per esempio, di Francia e Germania e la creazione dell’ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro), pur con il lodevole obiettivo di potenziare i servizi per il lavoro, non sembra aver, almeno per ora, migliorato la situazione, anzi non si vede nemmeno all’orizzonte un piano d’azione concreto per far fronte alla crisi occupazionale generata dal Covid-19.  Una mappatura del territorio, con una attenzione specifica alle aziende che innovano ed assumono, una rivalutazione della fabbrica che spesso, rispetto alla bassa gamma dei servizi, propone posizioni, tutele e salari migliori, chiarezza sul ruolo dei tirocini e dell’apprendistato che, colpevolmente, si stanno facendo concorrenza, un investimento continuo sulla formazione, anche condivisa con le aziende, con l’occhio attento non solo a quello che sta succedendo, ma anche a quello che succederà. Ognuna delle questioni elencate meriterebbe una discussione approfondita; però credo che uscire dalla strada segnata da posizioni inconciliabili, mettendo anche ordine tra questi orizzonti semantici distinti e individuando per le parole utilizzate significato e strumenti, potrebbe aprire delle strade che fino a ora sono state precluse.

In questo quadro, comunque, bisogna riconoscere che l’attivazione del Fondo Nuove Competenze, pur non essendo esso rivolto specificatamente ai giovani, rappresenta un primo passo verso un cambio di paradigma delle politiche attive. Sebbene, almeno per ora, siano poche le aziende che lo hanno reso operativo, il suo utilizzo potrebbe diventare uno dei perni sui quali costruire il cambiamento. Il Fondo, infatti, è costituito da contributi finanziari per tutti i datori di lavoro privati che hanno stipulato accordi collettivi per la rimodulazione dell’orario e consente di ottenere un calo del costo per dipendente di massimo 250 ore. Durante le 250 ore i lavoratori e le lavoratrici partecipano a un percorso formativo condiviso e migliorano le proprie competenze. Non subiscono, però, una riduzione del salario che, grazie al Fondo, rimane intatto nonostante la riduzione dell’orario (a differenza di quanto accade con gli ammortizzatori sociali). L’obiettivo è quello di utilizzare il momento di crisi delle aziende per potenziare le cosiddette “skills” del personale (che saranno certificate) e/o favorire percorsi di ricollocazione nel caso siano previsti esuberi. Il fatto che sia necessario un accordo collettivo e una stretta collaborazione tra parti sociali e datoriali e che non ci siano riduzioni salariali rende il Fondo uno strumento molto funzionale per fronteggiare l’emergenza sanitaria; tuttavia i limiti temporali (scadenza 31 dicembre 2020, ma si immagina ci saranno delle proroghe) e di governance rischiano di penalizzare le imprese più piccole e i lavoratori più svantaggiati sul piano occupazionale. Non solo, per funzionare a pieno ritmo il Fondo avrebbe bisogno dell’intervento delle Regioni per il finanziamento dei percorsi formativi, oltre alle risorse dei Programmi operativi nazionali del Recovery Plan per allargare la platea dei beneficiari.

Il Fondo Nuove Competenze, a mio giudizio, apre la strada a un ripensamento delle politiche attive in quanto prevede una condivisione spinta dei percorsi non solo in relazione alla crisi attuale, ma anche ai cambiamenti che sarà necessario accompagnare o, meglio, prevenire per accrescere la qualità del lavoro negli anni futuri. Quindi, almeno in teoria, oltre a un forte sviluppo della professionalità dei lavoratori e delle lavoratrici, si potrà ottenere un quadro abbastanza nitido del nostro sistema industriale da utilizzare per programmare la formazione futura. Inoltre, l’idea che il periodo di formazione debba essere remunerato “come il lavoro” potrebbe essere utile per fare il punto su tirocini extracurriculari e apprendistato. E questo sì è un tema che interessa specialmente i giovani.

 

Bibliografia minima

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