Al presente #31

Capitalismo e resistenza nel XXI secolo: alcune considerazioni sulla vertenza GKN

di Stefano Bartolini

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Le logiche della finanza

    Osservando la vicenda in cui si sono trovati catapultati, loro malgrado, i lavoratori e le lavoratrici della GKN, ci sono alcuni aspetti che colpiscono più di altri l’occhio dello storico del lavoro.

    Per prime le logiche dell’azienda, che ci dicono molto su come funziona il capitalismo finanziario del XXI secolo in relazione alla gestione di quelle attività produttive, come le fabbriche, che producono valore in una forma “solida”, come le merci. Il capitalismo finanziarizzato ha invece cambiato la natura prioritaria della creazione della “ricchezza”, che non passa più dalla produzione e vendita ma attraverso operazioni borsistiche e speculative che astraggono dalla fisicità della produzione. Come ha scritto l’esperta di finanza Anna Maria Romano, il primo, e sostanziale, tema rispetto alla GKN sta dunque nella proprietà e nelle sue logiche di funzionamento. L’attuale GKN, che in precedenza era un reparto della FIAT di Firenze che produceva semiassi poi divenuto una fabbrica a sé con l’esternalizzazione, era stata acquisita nel 2018, durante una crisi di liquidità, da Melrose Industries, un Hedge fund inglese, ai cui vertici troviamo Simon Peckam e Christpher Miller, che con l’operazione GKN si sono enormemente arricchiti, guadagnando anche potere, particolare non secondario per comprendere le logiche in cui ci troviamo.

    La situazione che l’azienda stava attraversando negli ultimi anni non era idilliaca, con perdite nel 2019 e nel 2020, ma a fronte di ingenti utili negli anni precedenti e una capacità di ripresa dimostrata dai dati in salita del fatturato nel primo trimestre del 2021. Tuttavia, scrive la Romano: «Melrose Industries non è un player come gli altri. Sede a Londra, è una holding che acquista, valorizza e rivende imprese manifatturiere. Il suo motto è “buy, improve, sell”, cioè “compra, migliora e vendi”. Ai padroni del fondo non importa l’investimento duraturo nel tempo. Entrano nelle aziende, ristrutturano con l’obiettivo di vendere al più presto a un prezzo più alto di quanto hanno pagato. Ma per far ciò devi raggiungere target di margini e profitti tali da far salire il valore dell’azienda. Questa operazione si riflette sul valore di borsa del titolo (di Melrose, in questo caso). Non sempre come nel caso di GKN si riesce nell’intento di aumentare il prezzo di possibile vendita dell’azienda acquisita (Buy, Improve) e allora ce se ne sbarazza (Sell). Il prezzo ricade sulle spalle dei lavoratori, mentre la fuga di chi ha congegnato l’operazione GKN, così come altre dello stesso tipo, si trasforma nella magia dei giochi puramente finanziari nella vendita delle azioni (di Melrose) assegnate come bonus, consentendo l’incasso di cifre milionarie». Uno dei meccanismi di queste operazioni risiede nel fatto che nel momento in cui vengono annunciati esuberi (in questo caso la chiusura degli stabilimenti di Erdington e Campi Bisenzio), in borsa il valore delle azioni ha un rimbalzo al rialzo in maniera automatica, quasi un riflesso condizionato. Una circostanza che non ci parla solo dei meccanismi finanziari ma anche di una certa cultura d’impresa che informa anche le mosse degli operatori di borsa.

    Dunque non ci troviamo davanti a una più classica vertenza che parte da una qualche forma di crisi dell’azienda o da strategie di delocalizzazioni (che pure si sono affacciate): ma tutta la vicenda muove i suoi passi da logiche che niente hanno a che vedere con una politica industriale, che è necessario iniziare a mettere a tema in quanto capaci però di incidere sulle stesse politiche industriali di un’azienda, un territorio e un paese. Da questo punto di vista, diventa allora cruciale capire e ricostruire non solo le logiche e i meccanismi, ma anche le reti di relazioni, i collegamenti, gli interessi incrociati, ovverosia chi sono e come agiscono gli esponenti di quella nuova forma di aristocrazia del XXI secolo che è la finanza, usando questa definizione non a caso: ci troviamo di fronte a una aristocrazia più che a una borghesia, per i suoi modelli culturali e comportamenti ma anche perché torna ad essere centrale il tema della “rendita”, a scapito della produzione e della capacità imprenditoriale.

       

      La decisione del Tribunale

      L’altro aspetto che riguarda sempre la proprietà e i suoi modi di agire è il passaggio con cui si è dato corpo alla pratica conseguente a queste logiche di speculazione finanziaria, ovvero la chiusura dello stabilimento italiano. Pratiche che si inscrivono nel solco di una lunga storia.

      La stampa e l’attenzione pubblica si sono per lo più soffermate sul licenziamento tramite e-mail, o messaggio, giudicato scandaloso, del quale è bene prendere coscienza che è già un metodo diffuso. Un altro dei tasselli della spersonalizzazione del mondo del lavoro e delle relazioni industriali che si va ad aggiungere ai famosi algoritmi di cui molto si è parlato, che a loro volta licenziano senza nessuna interazione umana o rispetto delle norme.

      Ma se si supera questo primo dato ci accorgiamo che all’inizio di questa vicenda, e di questa lotta, troviamo dei fatti ancor più allarmanti, e che riguardano sempre il comportamento della proprietà.  Questa non solo non ha informato, come previsto dalla legge, dal contratto di lavoro e da accordi aziendali (ultimo quello del 9 luglio 2020), i lavoratori e il sindacato delle proprie intenzioni, ma ha perseguito una strategia per chiudere l’azienda un giorno, adducendo alle rappresentanze sindacali motivazioni legate alla produzione rivelatesi false e pretestuose, in modo tale da avere la fabbrica vuota al momento dell’invio del licenziamento, mandando delle guardie private a presidiarla in sostituzione del servizio normale di portineria, provando a impedire per questa strada il diritto sindacale di assemblea sul luogo di lavoro e chiedendo successivamente alle istituzioni lo sgombero dell’assemblea sindacale permanente.

      Su ricorso della Fiom il Tribunale di Firenze ha ricostruito nei dettagli le fasi del comportamento della proprietà, che appare inequivocabile, annullando la procedura di licenziamento avvenuta in violazione di leggi, contratti e accordi. Il testo della sentenza rappresenta già un documento storico rilevante, per cui sarà utile citarlo diffusamente. Il giudice così si esprime rispetto alla situazione di partenza: «La GKN era tenuta ad informare il Sindacato non solo dei dati relativi all’andamento dell’azienda, ma anche del fatto che il quadro delineato dai suddetti dati stava conducendo i vertici aziendali ad interrogarsi sul futuro dell’azienda stessa. In sostanza gli accordi prevedono quella che la migliore dottrina definisce una vera e propria procedimentalizzazione delle decisioni in materia di occupazione ed esuberi, nell’ambito della quale la convenuta [la GKN] si è impegnata (liberamente e volontariamente) ad effettuare le proprie scelte solo dopo aver adeguatamente informato il Sindacato. Il senso dell’obbligo assunto è evidentemente quello di consentire al Sindacato di esercitare al meglio le proprie funzioni, ivi compresa quella di condizionare (con le ordinarie e legittime modalità di confronto ed eventualmente di contrasto) le future determinazioni e scelte gestionali dell’azienda». Per il giudice «GKN ha violato gli obblighi di informazione a suo carico» perché «è la stessa lettera di apertura della procedura […] a dimostrare che la decisione di chiudere lo stabilimento è stata il risultato di una complessa analisi avviata a livello di Gruppo», «la questione si era palesata nella sua evidenza da qualche mese […]. Ciò nonostante, nessuna informazione risulta essere stata fornita al Sindacato». L’azienda ha sostenuto di non avere nessun obbligo informativo in quanto non era stata avanzata una esplicita richiesta da parte sindacale, difesa che il giudice non ha accolto argomentando che questa posizione era in contrasto con l’accordo del luglio 2020 ma soprattutto che «la richiesta del sindacato c’è stata ed è stata ignorata». Nella sentenza si ricostruisce come l’8 giugno 2021 l’azienda avesse comunicato la possibilità di esuberi per il 2022 in un ordine di grandezza fra le 15 e 29 unità, a cui il 29 giugno il Sindacato aveva risposto proponendo soluzione organizzative alternative, seguito da un sollecito da parte della RSU il 6 luglio per avere risposte rispetto alle soluzioni proposte e chiedendo un confronto. L’azienda a quel punto ha risposto promettendo l’incontro ma «omettendo ogni riferimento al fatto che il successivo 8 luglio 2021 si sarebbe tenuto un CDA con all’ordine del giorno la decisione di chiudere lo stabilimento e licenziare tutto il personale. È dunque configurabile un’evidente violazione dei diritti del Sindacato, messo davanti al fatto compiuto e privato della facoltà di intervenire sull’iter di formazione della decisione datoriale».

      Ma non finisce qui. La sentenza ricostruisce che «l’intento di delegittimare il Sindacato con iniziative volte a elidere o comunque ridurre le possibilità di reazione dello stesso si riscontra anche nelle modalità con le quali è stata attuata la disposta cessazione delle attività. I fatti ancora una volta sono pacifici: in data 29 giugno 2021 l’azienda ha concordato con la RSU il ricorso a un giorno di chiusura […] per il successivo 9 luglio, chiusura motivata con la riduzione di un ordine da parte di un cliente; In data 8 luglio 2021 è stata decisa l’immediata cessazione dell’attività aziendale; Il sito produttivo, chiuso al termine dell’8 luglio […] non ha più ripreso a funzionare; Tutti i dipendenti sono stati posti in aspettativa retribuita a partire dal 9 luglio».

      L’azienda ha cioè teso una trappola per realizzare una serrata offensiva. Ci troviamo di fronte al ritorno di atteggiamenti di assoluta arroganza da parte datoriale, che ricercano la totale libertà di manovra con qualsiasi mezzo, in violazione di leggi, accordi e principio della buona fede, anche riportando sulla scena il ricorso a milizie private per risolvere i conflitti di lavoro. Un elemento quest’ultimo che desta preoccupazione, un fenomeno in crescita a livello globale e nazionale, che ha già dato vita a episodi di violenza gravi nel nord Italia e che arriva in questa occasione anche in Toscana, e che fortunatamente si è risolto a bassa intensità in questo caso. Ma la storia abbonda di esempi sul ricorso a “eserciti” privati nei conflitti di lavoro, dai Pinkerton statunitensi ai mazzieri degli agrari fino agli squadristi fascisti sovvenzionati e indirizzati da industriali e agrari contro le organizzazioni sindacali.

      Da tempo gli storici del lavoro più avveduti hanno posto l’accento sul fatto che le dinamiche più recenti del capitalismo, come l’individualizzazione estrema del rapporto di lavoro a scapito della dimensione del contratto collettivo, evidenziata dal ricorso alle Partita Iva in maniera quantomeno impropria per rapporti che si configurano come di lavoro dipendente, stiano riportando all’ordine del giorno concezioni in auge nel XIX secolo che individuano nel rapporto di lavoro non collettivo ma con il singolo il nuovo assetto regolativo da implementare. Un assetto che dietro la retorica dell’innovazione rivela un “ricorso” alla storia, con uno sguardo rivolto verso il passato e non al futuro. Un paradosso, se si pensa a quanto negli ultimi anni i sindacati siano stati accusati di difendere un passato che non esiste più. Con il caso della GKN ci si spinge ancor più avanti e possiamo osservare la riproposizione di culture d’impresa, di rivendicazione di forme di laissez-faire, di malcelato fastidio verso accordi, norme e forme di regolazione che ci ricordano da vicino quelle dell’800 e del primo ‘900 e che segnalano fin dove si sta spingendo la riduzione del ruolo dello Stato.

       

        La lotta degli operai

        Passando dal comportamento dell’azienda a quello delle maestranze, la lotta che si è sviluppata a partire dal 9 luglio, e che si sta segnalando sempre più all’opinione pubblica, evidenzia a sua volta degli elementi interessanti.

        Intorno agli operai della GKN si è fin da subito raccolta una solidarietà e un’adesione che si sono articolate in tante iniziative di supporto. In Toscana forme di mobilitazione solidale delle comunità sul territorio di fronte a crisi come queste non sono sconosciute. Tra il 2009 e il 2010 ebbi modo di documentare, con gli strumenti della storia orale, l’occupazione di un call center a Pistoia, l’Answers, situato nella Piana Firenze-Prato-Pistoia a circa 25 km dallo stabilimento della GKN, con una forza lavoro all’epoca di 570 dipendenti, di cui 494 donne. In ambo i casi il territorio si è stretto attorno al mondo del lavoro in lotta con forme di supporto di ogni tipo, che vanno dalla mensa alla presenza ai presidi alla fornitura delle infrastrutture necessarie a portare avanti un’assemblea permanente fino all’organizzazione di iniziative di sostegno. Ma qui si aggiunge un paesaggio circostante che a uno sguardo superficiale può risultare spiazzante.  La GKN si trova in uno spazio simbolo della nostra modernità, tra il grande centro commerciale de I Gigli (uno dei più grandi d’Europa) e un cinema con 16 sale con tanto di sala giochi. Contesti che sono stati descritti come “non luoghi”, vedendo le persone a una sola dimensione, quella del consumatore per dirla con Marcuse, ma che invece sono luoghi concretissimi per chi ci lavora ogni giorno. Colpisce vedere lo striscione di solidarietà dei lavoratori de I Gigli appeso di fronte alla fabbrica. Un luogo dove ogni giorno passano migliaia di persone, che nei fine settimana diventa affollatissimo e che ha fatto sì che la lotta della GKN in qualche modo nascesse già “in piazza”, davanti agli occhi di tutti. E la misura dell’adesione, il corteo delle ambulanze, la solidarietà immediata del mondo dello spettacolo, a cui ha seguito quella della cultura, tutte raccontate con la felice formula “i lavoratori della GKN incontrano i lavoratori del…”, l’incontro con i rider, l’invito alle feste dell’Unità, gli striscioni delle RSU di mezza Toscana appesi ai cancelli ecc… ci parlano della persistenza di quella che gli studi antropologici hanno definito come la “subcultura rossa” di questi territori, ben descritta da Antonio Fanelli nel suo libro sulle case del popolo della “cintura rossa” attorno a Firenze. Siamo letteralmente in quelle che furono le strade e i campi in cui Benigni ambientò il suo Berlinguer ti voglio bene. Un luogo concreto dunque, dove è ancora presente un attore che negli ultimi anni è stato raccontato da buona parte dei media e da determinate narrazioni politiche di tipo neoliberista come desueto e scomparso, la classe operaia. Persone in carne ed ossa che ancora esistono e che fanno sentire la propria voce, a dispetto di narrazioni che hanno postulato il loro superamento. E che attinge a risorse culturali fortemente radicate nel territorio da cui scaturisce, facendo tornare in primo piano elementi per molti inaspettati.

        Come la forte sindacalizzazione. Il sindacato che riscuote un’adesione schiacciante, quasi “bulgara”, è la Fiom. Ma alla GKN troviamo una peculiare organizzazione sindacale in azienda che per certi aspetti ricorda quella dei consigli di fabbrica, come ha raccontato sulle pagine del Manifesto Arianna Longo. Si tratta del Collettivo di fabbrica, una struttura che affonda le sue origini tra il 2007 e il 2008 durante un confronto con l’azienda sull’organizzazione dei turni, e che dopo circa 10 anni, nel 2017-18, è arrivata alla sua configurazione attuale, ancora una volta nel tornante di una contrapposizione con l’azienda che intendeva applicare il “modello Marchionne”, ovvero l’istituzione della figura del Team leader tra le linee di produzione, a cui i lavoratori avrebbero dovuto rivolgersi per le loro esigenze, scardinando così il rapporto dal basso dei lavoratori con i loro rappresentanti sindacali. La risposta fu la creazione dei “delegati di raccordo”, ispirandosi ai consigli degli anni Settanta, figure elette dai lavoratori e capaci di arrivare in ogni reparto e in ogni turno di lavoro, che si affiancano alle RSU e all’RLS. Sono 12 e restano in carica per soli 12 mesi, favorendo così il ricambio, la diffusione della formazione sindacale all’interno del luogo di lavoro e la responsabilizzazione dei lavoratori. Costituiscono un livello intermedio aggiuntivo che allarga le maglie della partecipazione. Alla base di tutto il processo c’è l’assemblea generale dei lavoratori.

        Entrando nel capannone della GKN non si sfugge all’impressione che di nuovo il luogo, la sua fisicità, giochi una sua parte. La fabbrica assomiglia a un cubo, è quasi tutta aperta al suo interno, a cose normali gli operai si incrociano, passano da una linea di lavoro all’altra, non sono separati. E non a caso fra di loro esistono forti legami anche relazionali, comunitari. È dunque una classe operaia con forti legami al suo interno e compatta, abbastanza giovane (l’età media è sui 40 anni), nella stragrande maggioranza composta da italiani, che rimanda di nuovo al suo forte radicamento territoriale. A cui si aggiunge la presenza di un Coordinamento donne, che raccoglie le lavoratrici degli appalti, come la mensa, ma anche le mogli e compagne degli operai. Non a caso gli operai della GKN hanno dichiarato che la loro lotta riguarda non i 422 licenziati, ma tutte le 500 persone che lavorano a qualsiasi titolo in fabbrica, dalla mensa alle pulizie ai lavoratori degli appalti.

        Da questa combinazione fra il luogo, le soggettività che vi sono presenti e radicate e le peculiari forme di organizzazione sindacale scaturiscono poi dei repertori di lotta a loro volta non scontati. Un elemento che colpisce sopra a tutti è il forte ricorso alla fraseologia della Resistenza. A partire dallo sciopero generale di luglio e nelle tre manifestazioni successive – una delle quali simbolicamente svoltasi il giorno della Liberazione di Firenze – abbiamo visto in piazza una sorta di patriottismo resistenziale, che ci parla come Di Vittorio della salvezza dell’Italia attraverso il lavoro. Per inciso, quello che viene rivendicato non è il salvataggio del proprio posto di lavoro – come spesso avviene – ma un ragionamento più vasto che parla di “salvare il lavoro”, cioè la produzione, il territorio, il paese. E che cerca di includere anche il mondo del lavoro non operaio.  Dopo anni di attacchi alla Resistenza, una mobilitazione di lavoratori si impone sulla scena aprendo i propri cortei con la bandiera della Brigata partigiana Garibaldi “Senigaglia” (attiva nel fiorentino), innalzando sul pennone dell’azienda una bandiera italiana al cui centro campeggia una stella rossa e recuperando lo slogan dell’organizzazione antifascista Giustizia e Libertà “insorgere-risorgere”, chiamando a un’insorgenza che mira alla difesa del territorio e della produzione, le stesse note che suonò Pertini nel suo proclama radio del 25 aprile 1945: «per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine».

        Infine, mentre già si stava preparando il funerale a forme espressive di lotta e di identità come il canto, alla GKN riemerge un coro, nato dal basso, sui ritmi di un canto diffuso allo stadio (e tanti di questi operai frequentano la curva della Fiorentina). Non ha un titolo, anche se potremmo chiamarlo come la sua prima parola, Occupiamola, ma è un canto che aggrega, identifica, mobilita, dà forza.

        Nel cuore della provincia italiana, a Campi Bisenzio, possiamo dunque osservare all’opera soggetti, parole e temi che evidentemente sono ancora radicati e ancora mobilitano, aggregano, sono capaci di costruire discorso, mostrando come una lotta operaia sia tuttora in grado di trovare ricadute e sbocchi politici più generali, che vanno oltre la propria vertenza e situazione. Nel solco del lungo tracciato della migliore storia e natura del sindacalismo italiano, generale e a vocazione politica.

        Come nel caso della discussione per una legge contro le delocalizzazioni, che nasce qui, sul terreno della mobilitazione, con un incontro davanti ai cancelli della fabbrica insieme ai Giuristi democratici e a Telefono rosso, da cui poi è scaturito un disegno di legge scritto assieme ai lavoratori e presentato alla Camera da Yana Ehm del gruppo misto ed al Senato da Matteo Montero di Potere al popolo – entrambi ex del Movimento 5 stelle – che ha ricevuto anche il sostegno di Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. Ancora una volta, un fatto che ci fa riflettere. Di fronte alla vertenza della GKN, e più in generale davanti a temi come le delocalizzazioni e il potere della finanza, gli assenti illustri sono i grandi partiti e il Governo italiano.

         

        Riferimenti: