Al Presente 32

Nascita di un sindacato in una big tech: il caso di Google

di Federico Martino

Archivio della rubrica

Articolo in PDF

Negli ultimi anni la storia di Google è stata costellata da una serie di controversie che hanno alimentato le tensioni tra l’azienda di Mountain View e i suoi dipendenti. Una lunga vertenza che ha rianimato lo spirito di una categoria di lavoratori generalmente disinteressata a tematiche di carattere sindacale: una buona parte delle figure professionali della Silicon Valley, infatti, è altamente specializzata, beneficia di condizioni di impiego agiate ed è oltremodo richiesta sul mercato del lavoro; pertanto non avverte la necessità di formulare delle rivendicazioni di natura strettamente sindacale, ascrivibili ad esempio alle retribuzioni, ai benefit o alla stabilità contrattuale. Questi elementi indubbiamente moderano la componente conflittuale nei rapporti tra la forza-lavoro e il management, e ostacolano la formazione di una rappresentanza collettiva omogenea che intercetti contestualmente le esigenze dei lavoratori precari e quelle del personale qualificato.

Al tempo stesso, le big tech che popolano l’industria tecnologica americana nutrono un sentimento di ostilità nei confronti dei sindacati, i quali vengono considerati un intralcio: nonostante siano ormai composte da decine di migliaia di dipendenti, infatti, molte realtà ragionano come se fossero delle startup snelle che non necessitano di un soggetto intermediario tra sé e il personale. Questa contrarietà, peraltro, si traduce spesso in azioni ritorsive nei confronti dell’ala attivista dei lavoratori o campagne propagandistiche interne volte a screditare l’iniziativa sindacale: a questo riguardo, il tentativo di sindacalizzazione recentemente manipolato da Amazon nel polo logistico di Bessemer, in Alabama, ne è una chiara testimonianza.

    Lo sciopero “globale” del 2018

    La reiterata condotta eticamente discutibile di Google ha provocato nel tempo la reazione anche dei dipendenti più benestanti, la cui inquietudine rispetto all’operato del proprio datore di lavoro ha raggiunto l’apice nel 2018. Uno degli episodi che ha scosso maggiormente la sensibilità dei lavoratori del gigante di Mountain View fu lo scandalo sessuale che investì la multinazionale nel 2014. A circa quattro anni dall’accaduto, il New York Times fornì una ricostruzione dettagliata in merito al misterioso licenziamento di Andy Rubin, una delle figure di spicco dell’azienda, nonché creatore del sistema operativo per dispositivi mobili “Android”. Rubin fu esortato da Google a dimettersi dal proprio incarico nell’ottobre 2014, a seguito delle accuse di molestie sessuali ricevute da una dipendente con cui aveva intrapreso una relazione extra coniugale sul posto di lavoro. Ultimate le proprie indagini, Google ritenne credibili le accuse della donna, vittima di abusi - secondo la sua testimonianza – in una stanza d’albergo nel 2013, e pertanto procedette con l’allontanamento di Rubin.

    Tuttavia, l’aspetto più ambiguo della vicenda fu la cospicua buona uscita che venne elargita al fondatore di Android: una cifra intorno ai novanta milioni, riconosciuta a Rubin nonostante la società di Mountain View non fosse obbligata ad esborsare una cifra di tali proporzioni. La medesima strategia, oltretutto, venne adottata con altri dirigenti autori negli anni di violenze sessuali: essi, al pari di Rubin, vennero accompagnati alla porta senza che l’azienda diffondesse pubblicamente le deplorevoli ragioni del loro addio forzato. La priorità di Google, dunque, era evidente: insabbiare il caso Rubin al fine di evitare strascichi mediatici che avrebbero potuto ledere la reputazione del colosso della Silicon Valley. In tal senso, è importante sottolineare come le donne vittime di molestie non potessero appellarsi alla giustizia ordinaria, dal momento che Google imponeva loro l’obbligo di agire tramite arbitrato privato; un espediente adottato storicamente dalla nota big tech per evitare processi nei tribunali pubblici.

    La reazione dei lavoratori di Google fu veemente e si materializzò il 1° novembre 2018, quando il movimento Google Walkout organizzò uno sciopero globale senza precedenti che coinvolse alcune delle principali sedi dell’azienda. Alle ore undici dei rispettivi fusi orari locali, circa ventimila dipendenti lasciarono il posto di lavoro e scesero in piazza per manifestare contro la cultura sessista e discriminatoria che animava gli uffici di Google. Tale protesta suscitò numerose attenzioni e venne giudicata dagli attivisti come il pretesto ideale per avanzare delle richieste di cambiamento in nome di una maggiore equità. Una di queste rivendicazioni venne accolta dalla big tech californiana e sancì una conquista storica per i salariati, soprattutto per le donne vittime di violenza: la rimozione dell’obbligo per i dipendenti di Google di risolvere le controversie di natura sessuale, e non solo, attraverso arbitrati privati. Il provvedimento entrò in vigore il 21 marzo 2019 e testimoniò l’efficacia dell’azione collettiva della forza lavoro di Google.

    Lo scontro “etico” con l’azienda

    Il malumore dei lavoratori di Google aveva affondato le proprie radici già nei mesi precedenti: la protesta condotta dal movimento Google Walkout, infatti, non va interpretata come un’azione estemporanea, bensì come la naturale conseguenza del risentimento che i dipendenti avevano covato nel corso del tempo nei confronti del proprio datore di lavoro. A tal proposito, pochi mesi prima dello sciopero globale, due ulteriori scandali sottoposero Google a un nuovo linciaggio mediatico: il primo riguardò la collaborazione che la big tech di Mountain View aveva instaurato con il Pentagono, ovvero il Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti. Nello specifico, la multinazionale tecnologica mise a disposizione del governo americano le proprie competenze per sviluppare attraverso il software open source “TensorFlow” un progetto d’intelligenza artificiale volto all’analisi dei filmati raccolti dai droni militari. Questa collaborazione tra Google e il Pentagono era correlata al “progetto Maven”, noto anche come “Algorithmic Warfare Cross-Functional Team” (AWCFT), istituito nell’aprile 2017 con l’obiettivo di accelerare l’integrazione dei Big Data e del machine learning all’interno dell’esercito statunitense. Il coinvolgimento del colosso californiano nella produzione di tecnologie belliche incontrò il dissenso di una parte della forza lavoro di Google, la quale riteneva che un’attività delicata come quella della sorveglianza militare non dovesse essere espletata da un algoritmo, ma direttamente dagli esseri umani. Le paure coltivate in merito all’uso etico dell’intelligenza artificiale spinsero due dipendenti a rassegnare le proprie dimissioni in segno di protesta; dopodiché, migliaia di lavoratori unirono la propria voce e scrissero una lettera destinata all’amministratore delegato dell’azienda, Sundar Pichai, la quale conteneva al suo interno due esplicite richieste: annullare il progetto Maven e redigere una chiara politica che stabilisse in futuro il divieto per Google e per i suoi appaltatori di sviluppare tecnologie belliche. Il clamore mediatico della vicenda e la contrarietà della forza lavoro indussero l’azienda di Mountain View a fare un passo indietro: pertanto, nel 2019, non vennero rinnovati i termini della collaborazione con il Pentagono. Tale decisione fu annunciata da Diane Greene in una riunione con i dipendenti, durante la quale la responsabile dell'attività di infrastruttura cloud di Google ammise il terribile contraccolpo subito dall’azienda a livello di immagine.

    Il 2018 di Google fu tormentato da un ulteriore scandalo di natura etica. Nell’agosto di quell’anno, The Intercept rivelò un progetto segreto, nominato “Dragonfly”, che la multinazionale di Mountain View aveva intrapreso in collaborazione con la Cina: vale a dire un motore di ricerca fruibile nel territorio cinese, ideato e sviluppato nel rispetto delle stringenti leggi sulla censura imposte dal Partito Comunista di Xi Jinping. Un affronto alla libertà di espressione che sconfessava la scelta di Google, risalente al 2010, di abolire il proprio servizio nel territorio cinese a causa dei continui tentativi del governo locale di limitare la libertà di parola, bloccare i siti Web e hackerare i sistemi informatici dell’azienda della Silicon Valley. Il nuovo motore di ricerca di Google era studiato per assecondare meticolosamente la rigida censura cinese: pertanto, ogni forma di esaltazione della democrazia e dei diritti umani, nonché tutte le informazioni antitetiche ai governi autoritari e all’anticomunismo, non sarebbero state reperibili online. Una parte considerevole dei lavoratori della società controllata da Alphabet non venne tenuta al corrente del progetto, che era già in via di sviluppo dalla primavera del 2017: ciò non fece altro che alimentare ulteriormente l’insofferenza degli stessi, i quali firmarono in centinaia una lettera interna in cui denunciarono di essere tenuti all’oscuro delle attività dell’azienda. Gli attivisti richiesero, in particolare, una struttura di revisione etica che includesse dei rappresentanti dei dipendenti e l’implementazione di processi di trasparenza finalizzati a consentire loro di intraprendere una scelta etica individuale in relazione alle mansioni da eseguire. Dopo mesi di tensioni e rimostranze, nell’agosto 2019 arrivò ufficialmente per voce di Karan Bhatia, vicepresidente degli affari governativi e delle politiche pubbliche di Google, la retromarcia del colosso di Mountain View. Durante un’udienza alla commissione Giustizia del Senato degli Stati Uniti, infatti, Bhatia dichiarò che il progetto Dragonfly era stato accantonato, anche se non escluse in ottica futura possibili collaborazioni con il governo cinese, che ad ogni modo sarebbero state preventivamente sottoposte alla consultazione delle principali parti interessate. Anche in questa circostanza, quindi, lo sforzo collettivo dei lavoratori venne premiato e contribuì all’evaporazione dell’inquietante progetto Dragonfly, il quale avrebbe permesso a Google di sbarcare nel prospero mercato orientale creando un precedente pericoloso nelle contrattazioni con il mondo degli affari cinese.

    Il primo sindacato in una big tech

    Le ricorrenti diatribe tra Google e i suoi lavoratori hanno indotto questi ultimi a percorrere la via dell’organizzazione sindacale: il 4 gennaio 2021, dunque, venne annunciata la fondazione di “Alphabet Workers Union” (AWU), il primo sindacato istituito all’interno di una big tech. Una decisione storica, nata dalla necessità di garantire un’adeguata rappresentanza alla variegata forza lavoro dell’azienda della Silicon Valley: questa nuova alleanza, infatti, intende dare voce da un lato alle preoccupazioni di carattere etico che angosciano gli ingegneri, o comunque le figure professionali di spicco che vivono in condizioni economicamente agiate; e dall’altro alle tradizionali esigenze dei dipendenti precari, i quali reclamano salari più alti e una maggiore stabilità contrattuale. I lavoratori temporanei rappresentano circa la metà della forza lavoro di Google, eppure hanno spesso denunciato di subire trattamenti discriminatori da parte del management, per via del loro status di “appaltatori” assunti da agenzie interinali: a tutti gli effetti, essi non sono dei dipendenti di Alphabet e ciò presuppone dunque l’impossibilità, ad esempio, di godere di determinati bonus, i quali rappresenterebbero un reddito imponibile a carico della holding di Google, oppure di accedere a informazioni rilevanti per il loro lavoro. Combattere questo “sistema a due livelli”, simbolo della disparità tra i salariati assunti a tempo indeterminato e quelli precari, è una delle priorità dell’AWU: più in generale, l’unione degli attivisti di Alphabet, attraverso l’azione collettiva, ambisce a ottenere condizioni lavorative più eque e inclusive, come frutto di un ambiente che rigetta comportamenti ritorsivi, discriminatori e sessualmente illeciti. Inoltre, l’AWU si adopera affinché i dipendenti vengano coinvolti attivamente nei processi decisionali orientati al concepimento di nuovi, e quindi potenzialmente opinabili, progetti. L’AWU rappresenta i lavoratori di Alphabet che prestano servizio negli Stati Uniti e in Canada; tuttavia, non è riconosciuto formalmente come sindacato dalla legge americana poiché non registrato presso il National Labour Relations Board (NLRB); di fatto, quindi, si tratta di un sindacato di minoranza, affiliato al “Communications Workers of America”, che non dispone della facoltà di concordare un contratto collettivo con il proprio datore di lavoro. A tale proposito, occorre precisare che, nella storia americana, prima che nel 1935 venisse approvato il National Labour Relations Act (NLRA), il quale prevedeva che le persone elette dalla maggioranza della forza lavoro avessero il diritto di diventare rappresentanti esclusivi dei lavoratori nella contrattazione collettiva con il datore di lavoro, il ricorso al sindacato di minoranza era una consuetudine: questo strumento, infatti, permetteva quantomeno di instaurare un filo diretto con i vertici dell’azienda, presupposto fondamentale per esporre delle rivendicazioni. Ad ogni modo, le ricorrenti difficoltà incontrate dai lavoratori statunitensi nell’acquisire il riconoscimento sindacale nei luoghi di lavoro, hanno esortato gli attivisti a mobilitarsi attraverso questa singolare forma di rappresentanza.

    Detto ciò, ad oggi, l’Alphabet Workers Union ha oltrepassato gli ottocento iscritti e ha ispirato la formazione di un’alleanza sindacale globale, denominata “Alpha Global”, che riunisce i dipendenti di Alphabet di dieci Paesi nel mondo. Nel 2021 l’azione dell’AWU ha stimolato un’ondata di attivismo nell’industria tecnologica che ha anche “bussato alle porte” degli uffici di Apple: Cher Scarlett e Janneke Parrish, due dipendenti della multinazionale di Cupertino, hanno recentemente fondato il movimento #AppleToo, che nel giro di poche settimane si è mobilitato per dare voce ad oltre cinquecento racconti anonimi che hanno come oggetto abusi verbali, molestie sessuali, ritorsioni e atti discriminatori sul posto di lavoro. L’ambizioso intento di questa nuova associazione di lavoratori è smascherare i modelli di razzismo, iniquità e coercizione che guidano i vertici aziendali di Apple: una mission che ricalca le battaglie condotte negli anni dalla forza lavoro di Google.

    La strada verso l’organizzazione di un’autorevole rappresentanza sindacale all’interno delle big tech è ancora lunga e ricca di ostacoli; ma la crescente vocazione attivista dei lavoratori di Google potrebbe aver posto le basi per un futuro all’insegna della contrattazione, nel quale i colossi tecnologici siano indotti a scendere dal proprio piedistallo per instaurare un confronto sistematico con le altre parti sociali.

    Breve bibliografia

    • Dan Lyons, Lab Rats: How Silicon Valley Made Work Miserable for the Rest of Us, Hachette Books, 2018
    • Alex Pentland, Fisica sociale. Come si propagano le buone idee, Milano, Bocconi editore, 2020
    • Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 2010
    • Arnaldo Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2008
    • Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell'umanità nell'era dei nuovi poteri, Roma, Luiss University Press, 2019 

    Articoli consultati: