Le pensioni in Francia: mobilitazioni sociali e questioni di civiltà tra XIX e XXI secolo

di Michel Pigenet

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(Pubblichiamo di seguito la prima parte dell'intervento che lo storico francese Michel Pigenet ha scritto per Al presente sul tema della riforma delle pensioni in Francia, che da oltre cinque mesi sta animando il dibattito pubblico e mobilitando i francesi).

La questione delle pensioni, ancora una volta, ha dato vita in Francia a una mobilitazione sociale per certi versi “storica”, per la sua portata e durata. L’osservazione vale anche per ciò che rivela della ristrettezza della base socio-politica del “macronismo” e di una pratica verticale del potere, caratterizzata dal rifiuto del confronto e dalla sfida alle parti sociali. Con il passare delle settimane, l’opposizione al progetto di riforma delle pensioni si è rafforzata fino ad attestarsi intorno al 66-72% di pareri sfavorevoli, percentuale che sale oltre il 90% tra la popolazione attiva. La dimensione politica della crisi sociale, intrinseca all’origine governativa del conflitto, ha evidenziato i limiti, se non l’esaurimento democratico, di un regime le cui risorse istituzionali consentono la riduzione, poi l’interruzione senza voto, del dibattito parlamentare e tollerano la palese dissociazione della “volontà generale” dalle decisioni che dovrebbero esprimerla.

Il rischio di divorzio tra legalità e legittimità, aggravato dalla mancanza di una coalizione alternativa, non è mai stato così evidente durante la Quinta Repubblica, le cui molteplici maggioranze alternative non hanno cancellato le stimmate del suo avvento, all’indomani del putsch algerino del 13 maggio 1958 e sotto la minaccia di un rovesciamento del regime da parte dell’esercito. In questa prospettiva, la sequenza macroniana, singolare per la caparbietà di un presidente addestrato ai “colpi in borsa” delle fusioni e delle acquisizioni, e con scarso radicamento e cultura politica, non saprebbe spiegare, da sola, la posta in gioco.

La Francia oggi

Ma torniamo alla goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo settimane di incontri, in particolare con i sindacati, invitati non tanto per negoziare quanto per informarli, il 31 dicembre 2022 Emmanuel Macron dichiara la sua intenzione di completare la sua nuova riforma delle pensioni entro la fine dell’estate 2023. Se le tensioni sociali causate dall’inflazione giustificherebbero altre priorità, l’annuncio non sorprende. Il Presidente della Repubblica vuole mantenere l’impegno assunto come candidato durante la recente campagna elettorale, accorciata e offuscata in parte dalla guerra in Ucraina. Già nel 2018-2019 un precedente progetto di legge era stato fortemente contestato prima di essere abbandonato nel marzo 2020 a causa della pandemia. All’epoca si trattava di istituire un sistema “universale” di pensioni a punti, il cui valore fluttuante avrebbe reso incerto l’importo degli assegni. Più diretta, anche se non meno complessa, la riforma del 2022-2023 cumula l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni e l’accelerazione del passaggio ai 43 anni di contributi necessari per ricevere una pensione completa: misure che erano state scartate tre anni prima con la motivazione che “sarebbe piuttosto ipocrita posticipare l’età legale” prima di aver “affrontato il problema della disoccupazione” e dell’occupazione degli anziani...

Basato sull’ambizione dichiarata di realizzare risparmi rapidi e consistenti, in linea con il dogma della riduzione della spesa pubblica e dell’esclusione di un contributo da parte dei datori di lavoro e dei redditi elevati, il progetto è stato adottato dal governo di Elisabeth Borne il 23 gennaio 2023. Ben presto, la strategia comunicativa destinata a esaltare gli obiettivi perseguiti e a individuare i «vincitori» della riforma - donne, beneficiari di piccole pensioni, dipendenti con carriere lunghe - soffre di imprecisioni e dannose incongruenze. I commenti presidenziali, percepiti come arroganti e fuori tema, non aiutano la situazione, così come la scelta di utilizzare la strada stretta della modifica dei testi sul finanziamento della previdenza sociale per approvare un testo importante . La procedura è indicativa della «determinazione» dell’esecutivo ad agire «in fretta» più che della sua preoccupazione di discuterne il contenuto. Accorcia i tempi parlamentari, in primo luogo quelli dell’Assemblea Nazionale – 20 giorni. In prima lettura, quest’ultima non ha potuto esaminare più di due articoli, uno dei quali è stato respinto. A sua volta, il Senato è stato chiamato ad esprimersi in 15 giorni. Il 16 marzo, il ricorso finale alle facilitazioni offerte dall’articolo 49-3 della Costituzione ha esentato i deputati dal voto, tranne che per censurare il governo, cosa che una parte della destra repubblicana non macroniana ha rifiutato di fare. Pronto a scendere a compromessi con quest’ultima, il governo non cede ai sindacati, che rifiutano le misure legate all’età che colpiranno in particolare i dipendenti più «modesti», con carriere brevi, spesso assegnati a lavori faticosi. A differenza del piano precedente – approvato dalle organizzazioni «riformiste» (CFDT, UNSA, CFTC) in disaccordo con CGT, FSU, FO, CFE-CGC e Solidaires – questa volta le otto centrali sindacali parlano con una sola voce, attraverso una «Intersindacale», la cui solidità contribuisce alla tenuta e alla forza del movimento.

Contrariamente alla scommessa del governo sulla rassegnazione e sulla stanchezza, il livello delle manifestazioni quasi settimanali che si sono susseguite a partire dal 19 gennaio, variava ma richiamava regolarmente folle enormi, le cui cifre approssimative e controverse, salite a 3,5 milioni il 7 e il 23 marzo, oscillavano tra i 380.000 (polizia) e il milione e mezzo (sindacati) la sera del dodicesimo giorno di azione, il 13 aprile. Fin dall’inizio, i cortei riuniti ai quattro angoli del Paese hanno coinvolto centinaia di località, comprese le grandi cittadine, dove i contadini e i negozianti si sono talvolta uniti ai lavoratori, mentre gli artigiani sono arrivati con i loro lavoranti. Sotto forme e slogan diversi, la geografia e la sociologia dei raduni si intersecano con quelle dei «gilet gialli» del 2018-2019. Fino a metà marzo, la maggior parte dei cortei, inquadrati dai sindacati e a distanza da forze dell'ordine meno «offensive» di prima, si sono svolti senza gravi incidenti. Tuttavia, l’emozione suscitata dall’adozione della procedura rapida 49-3 ha portato a reazioni spontanee specie da parte dei più giovani e a un ritorno ai metodi di mantenimento dell’ordine tanto criticati: controllo della folla, interventi delle brigate motorizzate, uso intempestivo di granate particolari (esplodenti), ecc.

Nonostante le interruzioni del lavoro durante le manifestazioni, gli appelli a scioperi duri e ricorrenti hanno avuto meno successo e attenuato l’impatto della pressione economica. Il rilancio della sindacalizzazione non è sufficiente a ricucire la rete sindacale che è stata sfilacciata per decenni e a costituire gruppi di militanti in grado di rispondere alle domande dei lavoratori, molti dei quali, indipendentemente dal costo dell’azione, non sono consapevoli dei loro diritti. In assenza di statistiche e nonostante una nuova e notevole partecipazione del settore privato, le interruzioni non si sono comunque spinte fino alla «chiusura» del Paese voluta dall’«Intersindacale» il 7 marzo. Ancora una volta, lo sciopero ha coinvolto soprattutto i lavoratori dei settori strategici o di quelli la cui interruzione dell’attività non passa inosservata: trasporti ferroviari e urbani, porti, raffinerie ed energia, raccolta e trattamento dei rifiuti, istruzione, ecc.

Non è detto che le decisioni del Consiglio Costituzionale, rese pubbliche il 14 aprile, e che convalidano la parte principale del testo e censurano la richiesta di organizzazione di un «referendum di iniziativa condivisa», chiudano la parentesi della protesta. Senza dubbio le sue forme e i suoi ritmi si evolveranno, ma le reazioni registrate appena dato l’annuncio non fanno pensare che il movimento si stia spegnendo. Migliaia di manifestanti si sono riuniti spontaneamente in serata, mentre l’«Intersindacale» ha lanciato un appello per un Primo Maggio unitario su larga scala. Poco prima, una seconda richiesta di referendum era stata ricevuta dal Consiglio costituzionale, che non uscirà di certo indenne da questa prova . Se l’influenza politica che regola la sua composizione ha da tempo minato il dogma della sua infallibilità giuridica, le ultime posizioni del Consiglio non hanno mancato di sollevare interrogativi sulla mancanza di un fondamento democratico e, di conseguenza, sulla legittimità di una Costituzione che rende possibile uno scollamento così evidente del potere dai cittadini. Per il momento, i “concerti” di pentole (“casserolades”) durante il discorso presidenziale e le proteste che accompagnano ogni viaggio di un membro dell’esecutivo mettono in dubbio l’idea di un ritorno alla normalità. Questo per il presente, ma la forza del movimento attuale invita ad un passo indietro di natura storica.

Le lotte per la difesa degli ultimi 30 anni  

Per un terzo di secolo, le mobilitazioni sulle pensioni si sono susseguite, sempre massicce e sostenute dall’opinione pubblica, per la semplice difesa dei diritti acquisiti, ma senza successo, con la sola notevole eccezione del movimento del 1995. Da questo punto di vista, gli anni Duemila sono in contrasto con gli anni Sessanta e Settanta, caratterizzati da movimenti offensivi, legati all’aumento dell’aspettativa di vita che diede alla maggioranza delle persone la certezza di accesso alla pensione. Facendo eco alle aspirazioni dei lavoratori, i sindacati hanno di conseguenza rivalutato il posto delle pensioni nelle loro rivendicazioni. La richiesta di un’età pensionabile di 60 anni per gli uomini e di 55 per le donne acquistò slancio durante numerose «giornate » di mobilitazione interprofessionale. Tuttavia, tali istanze non furono abbastanza forti da scuotere la determinazione delle autorità pubbliche, che riuscirono a tenerla fuori dai negoziati di Grenelle nel 1968. La richiesta crebbe, tuttavia, e fu parzialmente soddisfatta con l’arrivo della sinistra al potere. Il 26 marzo 1982 un’ordinanza introdusse il pensionamento a 60 anni per tutti gli assicurati del regime generale, uomini e donne. E proprio questa data segnò l’ultimo avanzamento sociale in questo campo.

Tutte le misure successive sono state in realtà una sfida ai diritti precedentemente acquisiti. Alcune hanno attaccato l’età legale di pensionamento, portata a 62 anni nel 2010 e a 64 nel 2023. Altre hanno puntato sull’aumento del numero di anni di contribuzione, da 30 a 37,5 nel 1971, fissato a 40 nel 2003, prima di passare gradualmente a 43 dal 2013, uno sviluppo che si accelera nel 2023. Altre modifiche hanno riguardato l’importo delle pensioni, come la sostituzione dell’indicizzazione sui prezzi anziché sui salari nel 1987. Per quanto riguarda il calcolo del livello delle pensioni, il tasso di sostituzione pari al 40% del salario medio dell’intera vita lavorativa e poi, nel 1946, degli ultimi 10 anni, nel 1971 (come nel 1987) è salito al 50% dei guadagni dei dieci anni migliori, come controparte contemporanea del forte aumento del numero di anni di contribuzione. Non c’è stata però alcuna compensazione quando, nel 1993, la legge ha mantenuto i migliori 25 anni come base di riferimento per stabilire le pensioni del regime generale. Non più che nel 1987, gli assicurati non si resero conto, sul momento, della portata del passo indietro adottato senza sollevare forti resistenze. La situazione era diversa nel 1995 con il «piano Juppé», una delle cui componenti attaccava i regimi speciali per i funzionari e gli impiegati pubblici. La loro lunga e vigorosa lotta, sostenuta dall’opinione pubblica, costrinse il governo ad abbandonare questa parte del piano. La spettacolare vittoria sindacale del 1995 ha creato una forte memoria collettiva tra gli oppositori delle successive contro-riforme.

Paradossalmente, nonostante il ricorrente richiamo ai deficit presenti o futuri, l’evoluzione del finanziamento dei fondi pensione ha suscitato poche polemiche e ancor meno mobilitazioni. Tuttavia, in mezzo secolo, i cambiamenti avvenuti meritano attenzione. È indifferente, cioè, constatare che la quota dei contributi, oggi vicina ai due terzi delle entrate, ha perso terreno rispetto alle imposte come la CSG (Contribution sociale généralisée) creata nel 1991? Ciò non ha impedito che l’aliquota contributiva complessiva sia più che raddoppiata, arrivando al 17,75% per il solo regime generale e raggiungendo un minimo del 28% se si includono le pensioni integrative, obbligatorie dal 1972. Va notato che questo aumento è più marcato per i dipendenti, mentre la quota dei datori di lavoro si è stabilizzata negli anni Novanta.

Le somme in gioco sono considerevoli. Nel 2020, l’importo totale delle pensioni pagate a quasi 17 milioni di pensionati ammontava a 332 miliardi di euro, ovvero più delle entrate nette del bilancio dello Stato - 293 miliardi - o del 41% delle prestazioni sociali totali e del 14,4% del Prodotto interno lordo. È comprensibile che questo «gruzzolo» possa gettare nel panico più di un fondo pensione. I loro lobbisti e i loro rappresentanti eletti, debitamente ricondotti all’ordine, si sono affrettati a notare il prevedibile calo delle pensioni rispetto agli stipendi, per promuovere l’interesse della capitalizzazione individuale tra le popolazioni solvibili. Senza soffermarsi, è vero, sui rischi che comportano gli investimenti finanziari.