Al presente

Matteotti e il lavoro

Valerio Strinati

Giugno 2024

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Malgrado omissioni e inadempienze della parte pubblica nella tardiva attuazione di una legge (legge 10 luglio 2023, n. 92, Celebrazioni per il centesimo anniversario della morte di Giacomo Matteotti) approvata all’unanimità dalle Camere, il centenario dell'assassinio del deputato socialista si è realizzato finora in un crescendo di iniziative, di discussioni e di pubblicazioni che, uscendo spesso da un tracciato strettamente celebrativo, si sono mosse nella direzione di ricostruire il profilo di una personalità che ha ancora molto da dire al nostro presente. In altri termini, nella ricorrenza, il sacrosanto richiamo alla memoria del martire, impavido oppositore della tirannide fascista, si è costantemente e significativamente combinato con l'intento di evitare che il mito potesse offuscare la figura di Giacomo Matteotti nella sua concreta realtà storica.

Opportunamente, dunque, uno smilzo ma denso volume, a cura di Stefano Caretti e Jaka Makuc (Giacomo Matteotti, Per il lavoro, Pisa University Press, 2022) ha raccolto alcuni scritti sul lavoro, che coprono quasi completamente l'arco temporale della militanza socialista di Matteotti, dal 1901 (nato nel 1885, Matteotti aveva allora sedici anni) al 1924; si tratta di articoli, alcuni pubblicati sul giornale dei socialisti di Rovigo e del Polesine («La lotta»), altri sull’«Avanti!», altri ancora in forma autonoma di opuscolo o monografia (l’ultimo scritto antologizzato è una parte di Un anno di dominazione fascista, pubblicato nel febbraio 1924), specificamente centrati su problemi di natura politica e sindacale.

Il lavoro è in effetti la lente più idonea a mettere a fuoco uno dei tratti più tipici della figura di Matteotti dirigente politico, ovvero la peculiare qualità del suo riformismo, diverso e in una certa misura contrastante con la tradizione del riformismo socialista italiano, quale si era formata nella lotta contro i tentativi autoritari a cavallo tra il XIX e il XX secolo e nel confronto con la politica giolittiana. In estrema sintesi, si può affermare che mentre il riformismo di Turati, Treves, Kuliscioff e di tutto il gruppo dirigente che aveva dato vita al Partito si basava in larga misura sul dialogo e laddove possibile sull’alleanza politica con le componenti avanzate, o presunte tali, della borghesia, e sulla costruzione di strategie parlamentari conseguenti, nel pensiero di Matteotti la connotazione classista era prioritaria e costituiva la condizione indispensabile di una politica riformista che alle combinazioni politiche e parlamentari (di cui pure egli riconosceva l’esigenza) anteponeva l’obiettivo primario di redenzione di plebi che, soprattutto nelle campagne padane e segnatamente nel Polesine, sembravano condannate senza alcuna possibilità di riscatto a una condizione di miseria e di sudditanza: una redenzione attuata in primo luogo attraverso la lotta rivendicativa e l’organizzazione. Per questo aspetto, il riformismo di Matteotti si nutriva di concretezza, e integrava l’apostolato prampoliniano con una meticolosa e sistematica costruzione degli strumenti del riscatto operaio e contadino: la costruzione di piattaforme rivendicative realistiche ma idonee a modificare i rapporti di forza tra le classi, la creazione e stabilizzazione di leghe sindacali in grado di sostenerle, nonché la costruzione a fianco ad esse di una rete di istituzioni proletarie (camere del lavoro, cooperative, società di mutuo soccorso, fino ai comuni socialisti) in grado di alimentare lo sforzo di emancipazione con l’acquisizione, da parte dei lavoratori, di quelle capacità, di quelle competenze, di quei saperi, che li avrebbero dovuti mettere in grado di amministrare, di gestire, di leggere un bilancio, di stabilire nelle imposte, in una parola, di addestrarsi come classe dirigente ai compiti di governo del domani. È un campo, peraltro, nel quale Matteotti primeggiava: organizzatore sindacale, sindaco di diversi paesi, consigliere provinciale a Rovigo, riversò le sue ampie conoscenze scientifiche e tecniche (la pubblicazione della tesi di diritto penale, sulla recidiva, gli avrebbe agevolmente aperto le porte dell’università) sul terreno pratico, guadagnandosi la fama di profondo conoscitore di problemi di elevato grado di complessità tecnica (soprattutto sul versante fiscale e finanziario) che lo avrebbe accompagnato anche nella sua attività parlamentare.

Nel 1919, al Congresso socialista di Bologna, Matteotti, in polemica con i massimalisti, affermava:

Un politicantismo massimalista che aspettasse tutto il socialismo dal potere politico futuro violentemente conquistato, non sarebbe meno aberrante del politicantismo riformista che tutto aspetta dal potere politico attuale.

E subito dopo aggiungeva:

Invece noi riponiamo tutte le nostre speranze nelle organizzazioni economiche, che sono il vero germe, il vero nucleo della libera società di lavoratori di domani. È di esse, molto più che di codeste dispute ideologiche che dovrebbero occuparsi i nostri congressi. Così come bene farebbero i compagni del Meridione, che sperano nel miracolo insurrezionista, a lavorare invece ogni giorno per organizzare quei lavoratori.

Matteotti, per questo aspetto, si poneva sulla scia del socialismo agrario padano che sin dagli ultimi anni del XIX secolo era riuscito, con un paziente lavoro di organizzazione, a strappare larghe masse contadine, soprattutto bracciantili, all’egemonia padronale e clericale, e a dare vita nel giro di pochi anni (1901), alla Federterra, ovvero alla più grande organizzazione economica contadina di dichiarata ispirazione socialista in Europa; un’organizzazione che, dopo i primi strepitosi successi, aveva subito i colpi di una dura controffensiva padronale, dai quali si era risollevata grazie all’opera indefessa di riorganizzazione, di ridefinizione degli obiettivi e delle forme di lotta condotta con una sapiente combinazione di prudente realismo e intransigente classismo, dalla segretaria generale, Argentina Altobellli e da dirigenti come Carlo Vezzani, Savino Verrazzani e Egidio Bernaroli.

Matteotti apparteneva a una generazione più tarda, e la sua maturazione politica avvenne in un momento successivo, alla fine del primo decennio del XX secolo, quando cioè la guerra di Libia, nel dare fiato alle correnti nazionaliste e apertamente reazionarie, aveva posto in luce le difficoltà del socialismo riformista, diviso sulle posizioni da prendere rispetto alla guerra e disorientato dal declino del giolittismo, mentre una pesante crisi industriale si abbatte sul Paese.

È un contesto nel quale l’antigiolittismo diventa la cifra di una profonda radicalizzazione che accomuna le correnti politiche più diverse e determina sia la crisi del riformismo e la conquista della maggioranza del Psi da parte delle correnti intransigenti (analogamente, peraltro, tra i repubblicani nello stesso periodo si affermerà la corrente di sinistra) sia la nascita dei primi gruppi nazionalisti, apertamente e dichiaratamente antisocialisti e antioperai, in qualche caso in ambigua contiguità con il radicalismo liberista.

Matteotti restò insensibile alle dispute ideologiche che caratterizzavano questo momento politico: nella polemica contro il protezionismo, uno dei punti di convergenza tra orientamenti politici molto diversi tra loro, non si schierò, se non in ragione della tutela degli interessi fondamentali dei lavoratori. A guerra finita, nel 1921, quando il problema del protezionismo si riproponeva soprattutto in termini di politica estera e di rapporto tra vincitori e vinti, si esprimeva in termini inequivocabili:

Il socialismo non ha bisogno di immatricolarsi nelle due categorie astratte del liberismo o del protezionismo. Com’è internazionalista, così è anche per abbattere tutte le barriere economiche, senz’altro. […] Certo un liberismo assoluto, cocciuto, teorico in un momento in cui purtroppo tutti gli Stati, dopo l’ultima guerra di liberazione! chiudono le loro frontiere, illudendosi di vincere meglio la crisi, potrebbero anche risolversi in un danno. Ma almeno fosse la libertà la meta, la bussola costante delle nostre leggi e dei nostri trattati.

La distanza dalle disquisizioni puramente ideologiche e la costante propensione a valutare l’azione politica sul metro esclusivo del perseguimento dei reali interessi dei lavoratori rendevano Matteotti del tutto immune dalle sirene dell’interventismo, alle quali presteranno ascolto non pochi socialisti (primo fra tutti Mussolini), anarchici e sindacalisti rivoluzionari. Il suo pacifismo era intransigente, aveva la medesima cifra etica oltre che politica del suo riformismo, si nutriva degli stessi riferimenti ideali. E nell’intransigenza del suo pacifismo vanno ricercate anche le radici del suo antifascismo.

Matteotti comprese infatti che la guerra era l’occasione offerta alle classi dominanti per compiere un’opera di inquadramento della società civile che aveva tra i suoi principali vantaggi politici quello di porre un freno all’autonomia organizzativa del movimento operaio e di ricondurre quest’ultimo nell’alveo di una economia regolata dall’alto, rendendo, anche se temporaneamente, inoffensive le istituzioni operaie e contadine alle quali era affidato il compito di tradurre le conquiste graduali nel compimento del progetto politico complessivo del riformismo socialista.

La fine della guerra aveva rimesso in moto la situazione, prospettando un capovolgimento dei rapporti di forza tra le classi, anche alla luce di eventi, a partire dalla Rivoluzione russa, che rinfocolavano le speranze di una palingenesi totale. Come si evince anche dalla precedente citazione dell’intervento al Congresso socialista di Bologna, Matteotti era fortemente preoccupato del diffondersi di un rivoluzionarismo parolaio, poiché era convinto che qualora il grande potenziale di lotta espresso nel biennio rosso non si fosse sedimentato in una serie di conquiste politiche ed economiche tali da rappresentare un salto di qualità nel rapporto tra le istituzioni e le masse popolari, queste ultime si sarebbero trovate disarmate di fronte a una cruenta vendetta delle classi dominanti, quale già si era profilata in alcuni episodi dell’immediato dopoguerra.

L’opposizione netta, intransigente e vorremmo dire strategica al fascismo nasceva dall’immediata comprensione che esso perseguiva una strategia di completamento dell’opera di disciplinamento autoritario della società civile intrapreso con la guerra, ma attraverso un salto di qualità, che poneva gli strumenti della violenza politica, ereditati dalla guerra, nella loro dimensione materiale e simbolica, al servizio della volontà di riscossa delle classi dominanti. Non si trattava solo di limitare e coartare l’autonomia delle organizzazioni operaie, ma di distruggere fisicamente la rete faticosamente costruita negli anni precedenti.

Per questa ragione, Matteotti, pure nominato segretario del Partito socialista unitario, nato dalla scissione del gennaio 1922, non solo rimase fermamente convinto della necessità di pervenire a una riunificazione dei due tronconi del socialismo, premessa indispensabile per ridare fiducia a un movimento demoralizzato dalle sconfitte subite, ma si oppose con forza a quanti, nel suo stesso partito, e soprattutto tra i dirigenti della CGdL, coltivavano l’idea di una possibile normalizzazione del fascismo giunto orami al governo del Paese, e non escludevano l’ipotesi di una collaborazione con esso. Dagli ultimi scritti di Matteotti, e, in particolare, da Un anno di dominazione fascista emerge una valutazione diametralmente opposta, basata sulla consapevolezza della volontà del governo Mussolini di distruggere le organizzazioni operaie privandole della loro autonomia e inquadrandole coattivamente in una posizione subordinata nell’ambito di un regime autoritario orientato nella direzione del totalitarismo (la legge sindacale segue a poco meno di due anni di distanza il delitto Matteotti, ed è una delle prime leggi varate dopo il discorso del 3 gennaio 1925); emerge quindi una visione chiara della natura del fascismo come regime reazionario, irriducibile alle regole dello Stato liberale e intenzionato a intraprendere un’opera di eversione dello stesso. Non a caso, come leader di partito, Matteotti intraprenderà un’azione, prematuramente stroncata dalla mano omicida del regime, presso i partiti aderenti all’Internazionale socialista, per confutare la lettura del fascismo come prodotto peculiare dell’arretratezza politica italiana (una opinione diffusa soprattutto nelle socialdemocrazie del Nord Europa) e sottolineare invece come esso fosse l’espressione politica di una tendenza comune a tutto il vecchio continente, consistente nella volontà delle classi dirigenti di disfarsi delle istituzioni democratiche nel momento in cui esse fossero diventate strumento della limitazione delle loro prerogative e dei loro privilegi per effetto dell’ascesa delle classi subalterne.

L’opposizione al fascismo di Matteotti rappresentò l’ultimo ostacolo alla strategia mussoliniana di conquista del potere, e il suo assassinio e quanto ad esso seguì fu di monito a tutti gli antifascisti sulla vera natura del regime, monito che avrebbe costituito un elemento cruciale di riflessione e di ripensamento critico e autocritico negli anni della dittatura e dell’esilio. Di certo, l’opposizione di Matteotti traeva le sue radici più profonde, politiche e morali, da un classismo intransigente, da un riformismo concepito come processo graduale ma costante di trasformazione in senso socialista della società, da un attaccamento alla causa dell’emancipazione dei lavoratori che, negli anni più oscuri, sarebbe rimasto un insegnamento imperituro, uno dei semi, forse il più fecondo, dai quali sarebbe germogliata la Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro.