Al presente
Storia, lotte e prospettive del diritto al lavoro per le persone con disabilità in Italia.
Federico Ciani, Irene Fattacciu, Giampiero Griffo
Maggio 2025
Per mostrare come la piena ed effettiva partecipazione delle persone con disabilità al mercato del lavoro in Italia sia un risultato lontano dall’essere ottenuto pochi dati sono già sufficienti: solo il 32,5% delle persone con disabilità in età lavorativa (15-64 anni) è occupato, rispetto al 58,9% della popolazione generale (ISTAT, 2024).
La mancata inclusione lavorativa è parte di una complessiva esclusione sociale delle persone con disabilità dato che, in coerenza alla nostra costituzione, il lavoro, non rappresenta solo una fonte di reddito, ma anche un elemento chiave per l'autodeterminazione e la partecipazione attiva alla vita sociale. Questo tipo di approccio viene confermato e rilanciato dalla recente Legge 62/2024, che ribadisce l’adozione di un approccio bio-psico-sociale alla disabilità e introduce il Progetto di Vita Individuale (PVI), riconoscendo quindi il ruolo cruciale del lavoro nell'inclusione sociale, sottolineando la necessità di un approccio integrato che coinvolga non solo i servizi sociali e sanitari, ma anche il settore educativo, quello delle politiche attive per il lavoro e il terzo settore. Questo segna un passo importante nella concezione del lavoro sia come diritto, che come strumento per l'emancipazione e l'autonomia delle persone con disabilità (Montanari 2024).
Per questa ragione, è utile ripercorrere l’evoluzione del diritto al lavoro delle persone con disabilità in Italia con i relativi risvolti storici, socio-politici e legislativi (Rodriguez, 2015). L’intreccio tra questo percorso e i cambiamenti culturali, economici e politici, sia nella società italiana che a livello internazionale, offre spunti importanti per comprendere le trasformazioni e le sfide che caratterizzano il presente.
Sebbene l’analisi delle traiettorie di lungo o lunghissimo periodo relative alla evoluzione della relazione tra disabilità e società, possa offrire prospettive analitiche interessanti, ragioni di spazio ci hanno spinto a focalizzarci su quanto accaduto dal primo dopoguerra ad oggi. Il riconoscimento del diritto al lavoro per le persone con disabilità nasce in questo momento principalmente per l’esigenza di trovare soluzioni per il reinserimento dei mutilati e invalidi di guerra. La prima legge significativa in questo contesto, emanata nel 1917, riguardava misure di collocamento per i reduci di guerra e aveva un carattere principalmente assistenziale e risarcitorio (Kowalsky, 2007; Griffo & Frevola, 2016). Il tema della dignità personale, sebbene portato avanti nel dibattito pubblico da figure come Maria Montessori, rimaneva marginale. Nei decenni successivi, si assistette a un progressivo ampliamento delle categorie di beneficiari (le persone cieche, ad esempio), ma l’approccio assistenzialista restò dominante, anche durante il ventennio fascista. Le politiche rimanevano orientate a garantire protezione, concentrandosi su impieghi di basso profilo, mentre la scarsa scolarizzazione delle categorie coinvolte contribuiva a mantenere basse le aspettative professionali delle persone con disabilità.
I primi anni del secondo dopoguerra non determinano un cambio di passo nell’approccio anche se si assiste a un aumento delle possibilità di impiego, soprattutto durante il boom economico degli anni ‘50 e ‘60 e in seguito all’approvazione del sistema delle quote di riserva, che prevedeva una percentuale di posti di lavoro riservati nelle aziende. Questo sistema viene potenziato nel corso del tempo, fino a giungere a un’unificazione di un gran numero di provvedimenti legislativi frammentati in un unico quadro normativo nel 1968, con la Legge 482, che introduce un sistema di quote legato alla grandezza delle aziende (Griffo, 2015).
Anni di svolta: dal modello sociale alla CRPD
La seconda parte degli anni Sessanta vede un sostanziale evoluzione consistente nella “presa di parola” da parte delle persone con disabilità. Già la Legge 482 può essere letta come una prima conquista ma, aldilà dei provvedimenti legislativi, quello che il movimento ottiene è una messa in discussione del lavoro come forma di compensazione assistenziale. E’ con questo stimolo che si arriva a una progressiva revisione delle politiche pubbliche in vari settori, tra cui quello dell’istruzione e del lavoro, si devono aspettare i movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta (Blanck, 2008). A livello internazionale, è del 1975 la Dichiarazione dei Diritti delle Persone con Disabilità approvata dalle Nazioni Unite, che riconosce formalmente la necessità di eliminare la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità, anche in ambito lavorativo (McCusker 2023, Rodriguez 2015) e le regole standard per la parificazione di opportunità per queste persone (Nazioni Unite 1993). A livello italiano, la risonanza di questi movimenti si inserisce in un clima politico post-Sessantotto, caratterizzato da lotte per i diritti dei lavoratori e per una maggiore giustizia sociale. L’evoluzione dei diritti delle persone con disabilità sul lavoro è infatti indissolubilmente legata alla più ampia lotta per i diritti dei lavoratori. Da una parte, il sindacato si poneva come soggetto autonomo rispetto ai partiti rivendicando uno spazio di azione all’interno della società andando quindi ad affrontare temi che travalicavano il mondo del lavoro strettamente inteso. Dall’altro il movimento delle persone con disabilità sviluppava una sua autonomia e una sua agenda che porta poi a un rapporto dialettico e a tratti conflittuale con le centrali sindacali.
Le battaglie sindacali per migliori condizioni di lavoro, sicurezza e partecipazione democratica influenzano profondamente le politiche di inclusione lavorativa, che diventano sempre più mirate a valorizzare le competenze individuali e a superare le discriminazioni (D’Ascola 2017; Vaccà, 2000). Alla base di questo processo c’è la progressiva concettualizzazione della disabilità come fatto sociale e non prettamente biomedico (Shakespeare, 2006). Nel momento in cui si inizia a concettualizzare la disabilità come il frutto dell’interazione tra persona e il contesto, nei fatti si crea il terreno a dinamiche di carattere rivendicativo: le condizioni di vita delle persone con disabilità si cambiano non solo agendo sulle persone stesse ma anche cambiando il contesto attraverso politiche pubbliche e attraverso la regolazione di attività private.
La crescente consapevolezza e mobilitazione sui diritti delle persone con disabilità da forza a nuovi movimenti e associazioni. Tra questi, la Lega Nazionale per il Diritto al Lavoro degli Handicappati, nata alla fine degli anni ‘70, svolge un ruolo fondamentale, raccogliendo 100.000 firme su una legge di iniziativa popolare di riforma della 482/68,collaborando continuativamente con i sindacati e portando avanti battaglie per la sistematizzazione e generalizzazione di sperimentazioni come quella di Enrico Montobbio a Genova. Qui Montobbio e il suo gruppo di lavoro avevano sviluppato modelli di collocamento mirato, un concetto allora innovativo che superava il mero obbligo di riserva di posti per le persone con disabilità, concentrandosi invece sulla valutazione delle capacità e competenze delle persone con disabilità (Griffo, 2015; Lepri & Montobbio, 1994; Montobbio, 1982).
I sindacati, dal canto loro, iniziano a includere nelle loro negoziazioni collettive la protezione dei lavoratori con disabilità, promuovendo accordi che prevedono l’inserimento di clausole antidiscriminazione e il miglioramento delle condizioni lavorative. Questo impegno sindacale è essenziale per superare la resistenza delle imprese, che spesso continuano a percepire l’assunzione di persone con disabilità come un costo aggiuntivo. Oltre a negoziare accordi collettivi che prevedessero agevolazioni per le persone con disabilità, i sindacati svolsero un ruolo importante nella vigilanza sull’applicazione delle leggi, denunciando le aziende che non rispettavano le normative in materia di assunzione obbligatoria (Vaccà, 2000). Anche la creazione di responsabili sui temi dei lavoratori con disabilità coinvolgerà CGIL, CISL e UIL.
Le lotte per i diritti dei lavoratori forniscono una cornice concettuale e politica essenziale per comprendere l’evolversi degli approcci e dei diritti delle persone con disabilità nel mondo del lavoro (D’Ascola 2017; Vaccà, 2000). Questo legame è visibile nell’inclusione di temi come la prevenzione degli infortuni sul lavoro e la protezione della salute dei lavoratori, ambiti che diventano sempre più rilevanti anche per le persone con disabilità. Ad esempio, la Legge 833 del 1978, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale in Italia, non solo garantisce l’accesso universale alla sanità, ma riconosce il diritto alla prevenzione e alla sicurezza sui luoghi di lavoro, un tema cruciale per i lavoratori disabili che, spesso, sono stati esposti a condizioni lavorative non sicure o inadatte alle loro necessità.
Anche a livello globale l’attenzione sul tema cresce, tanto che il 1981 viene dichiarato dalle Nazioni Unite come Anno Internazionale delle Persone Disabili. Questo corrisponde e alimenta al contempo una sensibilizzazione dell’opinione pubblica globale sul tema della disabilità, una maggiore pressione sui governi nazionali e su istituzioni comunitarie come la CEE, diventando un catalizzatore per iniziative legislative mirate a migliorare l’accesso al lavoro e alla partecipazione sociale delle persone con disabilità.
In Italia, il culmine di questi sviluppi è l’approvazione prima della Legge 104/1992 e della Legge 68/1999, in cui le associazioni di le persone con disabilità hanno svolto un ruolo importante, che rappresentano due punti di svolta per i diritti delle persone con disabilità. La prima, del 1992, era basata su un approccio integrato e sanciva chiaramente il diritto all’inclusione scolastica, sociale e lavorativa, introducendo specifici strumenti per garantire che le persone con disabilità potessero partecipare attivamente alla vita pubblica (Legge 104/1992). Questa legge non solo sanciva il diritto all’inclusione lavorativa, ma introduceva anche specifiche tutele per i lavoratori con disabilità, ispirandosi in parte ai principi dello Statuto dei Lavoratori del 1970. La Legge 104/92 prevedeva infatti l’adozione di misure che facilitano l’integrazione lavorativa, come la possibilità di adattare il posto di lavoro alle esigenze del lavoratore disabile e l’obbligo per i datori di lavoro di rimuovere le barriere fisiche e culturali che ostacolano la partecipazione dei lavoratori con disabilità. Nel contesto scolastico, si rafforza quanto già stabilito dalla Legge 517/77, prevedendo la possibilità di adattare i programmi educativi alle esigenze degli studenti con disabilità, l’impiego di tecnologie assistive e la formazione specifica degli insegnanti di sostegno (Covelli 2019).
Successivamente, il secondo perno su cui si dovrebbe basare l’approccio sistemico all’inclusione è rappresentato dalla Legge 68/1999, che introduce strumenti concreti per favorire l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità attraverso il collocamento mirato (Lepri, 2005). Fortemente voluta dai movimenti per i diritti delle persone con disabilità, la legge riflette un cambiamento di mentalità: La disabilità non è più vista come un ostacolo insormontabile, ma come una condizione che, se gestita adeguatamente, consente al lavoratore di esprimere al meglio le proprie potenzialità, contribuendo alla produttività aziendale. La legge prevedeva che ogni persona con disabilità venisse valutata sulla base delle sue capacità lavorative e non solo in funzione della gravità della sua disabilità.
Questo cambio di prospettiva si inserisce in un più ampio discorso di lotta alla discriminazione sul lavoro. Da un lato, non si parla più solo di pari opportunità per le persone con disabilità, ma anche per altre categorie marginalizzate, come donne e migranti (Acconcia, D’Amico et al., 2012). Allo stesso tempo, le persone con disabilità hanno guadagnato un ruolo centrale nelle decisioni che le riguardano, ottenendo maggiore visibilità e influenza nelle politiche pubbliche, nonché richiedendo non solo accesso al lavoro, ma anche la valorizzazione delle competenze e opportunità di carriera. Un approdo cruciale è stata in questo senso la ratifica in Italia della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità nel 2009. La Convenzione ha infatti cambiato il modo di vedere la disabilità, spostando l’attenzione dall’assistenza ai diritti umani e promuovendo un approccio bio-psico-sociale. Questo concettualizza la disabilità come risultato dell’interazione tra diverse dimensioni: la dimensione biologica, che riguarda le condizioni fisiche o mediche che influenzano la persona; quella sociale, che riguarda l’ambiente circostante e le barriere culturali, economiche e architettoniche che possono limitare la partecipazione sociale; e infine quella psicologica, che esplora come la persona vive soggettivamente la propria disabilità (Grue, 2023).
Dalla norma alla prassi: bilanci e prospettive
Nonostante i progressi normativi, l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità continua a incontrare forti resistenze da parte delle imprese, resistenze ulteriormente aggravate da un mercato del lavoro in costante evoluzione a causa della globalizzazione, dell’automazione e della crescente specializzazione richiesta dai nuovi settori economici. Dopo l’approvazione della Legge 68/1999, l’occupazione delle persone con disabilità ha visto una prima fase di espansione dal 1999 alla metà degli anni Duemila. Il numero di iscritti al collocamento obbligatorio e le assunzioni in quegli anni è aumentato costantemente. Successivamente, il numero di iscritti è rimasto stabile sopra le 700.000 unità. Tuttavia, oltre il 60% degli iscritti era concentrato nel Sud e nelle Isole, e il divario di genere ha continuato a crescere, con gli uomini che rappresentavano il 54,6% degli iscritti nel 2018. Le assunzioni invece sono calate drasticamente dopo la crisi del 2008 (da 34.600 a 15.700 persone), per riprendere a partire dal 2014. Gli ultimi dati, del 2021, segnalano un trend in crescita nonostante l’arresto dovuto alla pandemia e alla crisi economica, con 41.323 nuovi ingressi (8.545 ingressi in più rispetto al 2020 ma ancora lontani dalle 58.000 assunzioni del 2019). La maggior parte di questi contratti, però, è a tempo determinato (59%), e il settore pubblico accoglie una percentuale maggiore di persone con disabilità rispetto al settore privato (Giovannone, 2022; ISTAT 2019, 2021; Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2024).
Questi dati segnalano una serie di problemi strutturali, culturali e contestuali. Uno dei principali ostacoli resta infatti lo stigma sociale legato alla disabilità, che spinge molte aziende a considerare le persone con disabilità come meno produttive o inadatte ai ritmi del mercato attuale, una questione che, come evidenziato dai dati, rende questi lavoratori e lavoratrici più vulnerabili ai momenti di crisi economica (Caldin & Scollo, 2018). Questo pregiudizio si scontra inoltre con la crescente domanda di competenze tecniche e digitali, alle quali le persone con disabilità spesso non riescono ad accedere a causa di un’offerta formativa inadeguata e poco inclusiva. Queste forme di esclusione non si manifestano però soltanto in termini di accesso limitato a opportunità formative o lavorative, ma anche nella percezione sociale della disabilità. In questo contesto, la "parità partecipativa" richiede non solo l'adattamento dei luoghi di lavoro, ma anche il riconoscimento delle persone con disabilità come membri uguali della società, capaci di contribuire attivamente alla produzione e alla vita collettiva (Friso, 2013; Bernardini & Addis 2021).
Se il cambiamento culturale richiesto per superare queste resistenze è già di per sé difficile, le difficoltà aumentano in un contesto come quello italiano, dove i servizi per l’impiego non funzionano adeguatamente e il mercato del lavoro ha conosciuto una costante precarizzazione in un contesto di bassa crescita economica e debolezza strutturale. Nonostante le innovazioni legislative introdotte dalla Legge 68/99, che ha cercato di promuovere un collocamento mirato, i servizi per l’impiego non riescono a tenere il passo con le nuove dinamiche economiche, lasciando il problema dell’inclusione irrisolto e amplificando le disuguaglianze territoriali. Basti pensare che solo nel 2022, con l’introduzione delle linee guida del collocamento mirato, sono stati definiti standard di funzionamento per questi servizi (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2022; Martiniello, 2018).
Parallelamente, il welfare ha subito trasformazioni profonde. Le crescenti limitazioni di bilancio e la complessità delle nuove esigenze del mercato del lavoro hanno portato a un crescente coinvolgimento del privato e del terzo settore. Cooperative sociali, ONG e imprese sociali hanno sviluppato programmi innovativi di inserimento lavorativo e supporto, come percorsi di tirocinio personalizzati e servizi di supporto psicologico, spesso in grado di rispondere con maggiore flessibilità rispetto ai servizi pubblici tradizionali. Allo stesso tempo, la crescente dipendenza da attori privati ha creato una frammentazione dei servizi, con notevoli differenze in termini di qualità e accesso tra le diverse regioni (Benini, 2019). A complicare ulteriormente il quadro del rapporto tra pubblico, privato e terzo settore c’è infatti il tema della decentralizzazione. Le aree più sviluppate, soprattutto nel Nord Italia, offrono servizi di inclusione lavorativa più avanzati e accessibili, mentre nel Sud c’è una maggiore difficoltà a garantire opportunità paritarie. Il settore pubblico fatica sia a garantire un’adeguata supervisione che salvaguardi il bilanciamento tra profitto e inclusione, sia a trasformare progettualità puntuali in innovazioni sistemiche che durino nel tempo.
In un contesto sempre più frammentato, è essenziale tornare a ispirarsi alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD), che offre una solida base per orientare le politiche di inclusione lavorativa verso la promozione della dignità e dei diritti delle persone con disabilità. Un passo cruciale per migliorare la situazione attuale consiste nell’aggiornamento e adeguamento della Legge 68/1999, rendendola più flessibile e capace di valorizzare le competenze specifiche delle persone con disabilità. L’obiettivo non deve essere solo il rispetto delle quote, ma la creazione di un sistema in cui le persone con disabilità possano accedere a lavori qualificati e ben remunerati, in linea con le loro competenze e aspirazioni. È fondamentale sviluppare strumenti che agevolino l’accesso ai settori emergenti, come quello tecnologico, attraverso percorsi di formazione mirata e incentivi alle aziende che investono nell’inclusione (McCusker, 2023).
Il concetto di employability gioca qui un ruolo chiave, riferendosi alla capacità di un individuo di acquisire, mantenere e sviluppare competenze in risposta alle esigenze del mercato del lavoro. Questo approccio valorizza i punti di forza delle persone e promuove lo sviluppo di competenze che consentano loro di partecipare attivamente e competitivamente al mondo del lavoro. Tuttavia, è importante non trascurare la dimensione dei diritti umani, concentrandosi eccessivamente sul valore economico prodotto dall’individuo. La formazione continua e i programmi di apprendistato personalizzato rappresentano settori in cui è necessario investire di più, poiché l’accesso a corsi qualificanti e aggiornati rimane limitato, soprattutto in ambiti tecnologici altamente specializzati.
Negli ultimi anni, si è registrata però una crescita significativa della scolarizzazione delle persone con disabilità in Italia. Attualmente, circa 300.000 studenti con disabilità frequentano le scuole di ogni ordine e grado, e circa 36.000 studenti con disabilità o bisogni educativi speciali (BES) sono iscritti all’università (ISTAT, 2022). Questo aumento della partecipazione scolastica è un segnale positivo, ma evidenzia anche la necessità di politiche più incisive per garantire che queste persone possano tradurre le loro competenze in opportunità lavorative concrete, con corsi di formazione qualificanti e aggiornati, e il potenziamento soprattutto in settori ad alta specializzazione tecnologica.
Partendo dal principio che il lavoro è un diritto umano fondamentale che contribuisce alla dignità e alla realizzazione personale di ogni individuo, affinché questo diritto si traduca in una reale inclusione è necessario un cambiamento culturale che superi le barriere sociali e i pregiudizi che ancora oggi ostacolano l'accesso al lavoro. Le politiche inclusive devono andare oltre il semplice rispetto delle quote, inserire questi lavoratori nelle politiche attive del lavoro e puntare alla creazione di un sistema in cui le persone con disabilità possano accedere a lavori qualificati e ben remunerati, valorizzando appieno le loro competenze e aspirazioni. Solo attraverso un impegno congiunto delle istituzioni, delle aziende e della società civile sarà possibile garantire che l'inclusione lavorativa non resti un ideale lontano, ma diventi una realtà tangibile per tutte le persone con disabilità.
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