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Agosto 2017

Diritto del lavoro: genitivo metaforico 

 di Umberto Romagnoli

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Un giorno, Gino Giugni mi confidò che trovava divertente suddividere i giuristi in tre categorie. Chiamava “ripetitori” quelli che masticano idee altrui e “amplificatori” quelli che hanno l’inclinazione ad andare sopra le righe. Accanto a loro, ci sono i “riduttori”. I quali, se condividono con gli “amplificatori” il rischio di esagerare, si fanno perdonare perché hanno almeno l’intenzione di tendere all’essenzialità e badare al sodo. Secondo Giugni, io rientravo in questa categoria. Può darsi che non si sbagliasse. Però, ce ne ho messo di tempo per scoprire ciò che avevo sotto il naso.

Solo di recente, infatti, sono giunto alla conclusione che diritto “del” lavoro è un accostamento di parole meritevole di attenzione da parte dei semiologi. In effetti, somiglia al giochetto di prestigio comunicativo praticato dai primi esploratori vichinghi che, per attirare coloni in un luogo inospitale come la Groenlandia, lo chiamarono Terra verde. Anche l’espressione che nelle Facoltà giuridiche designa uno dei corsi rientranti nel piano di studi per arrivare alla laurea ha la proprietà di ingrossare la categoria degli “amplificatori”, perché persino molti professori di diritto del lavoro la scambiano emotivamente per la sintesi conclusiva di una epopea sociale: uscito da una condizione d’insignificanza culturale che si sommava all’ininfluenza politica, il lavoro dispone finalmente di un suo diritto; un diritto che è “suo”perché da lui prende tanto il nome quanto le ragioni.

Per rendersi conto che il genitivo è all’origine di un depistaggio cognitivo, bisogna compiere lo sforzo di sottrarsi ai condizionamenti dell’orizzonte di senso disegnato da una metafora provvista di una forza espressiva che i linguisti definiscono mitopoietica. Solamente risalendo nel tempo, infatti, ci si rende conto che lo storico competitore del capitale possiede una lunga tradizione giuridica unicamente perché, avendo sempre riempito di sé il mondo reale, legislatori e giudici non potevano non occuparsi di lui. Assai più breve, invece, è la tradizione disciplinare originata dagli incontri del lavoro col diritto, perché nel diritto che gli capitava d’incontrare il lavoro non poteva riconoscersi. Infatti, la tradizione disciplinare del diritto del lavoro inteso come partizione del sapere giuridico impallidisce al confronto con quella formatasi intorno al diritto di proprietà che ha costituito la spina dorsale delle grandi codificazioni dell’età moderna polarizzate sull’avere piuttosto sul fare. Ne differisce per durata, ampiezza e ruolo. Assente fino all’avvento della grande industria, non varca i confini dell’Europa ed è legata ad un diritto venuto al mondo con la sola pretesa di aggiustarlo un po’, smussandone le spigolosità più acuminate. Per questo, da quando si è diffusa la percezione dell’irripetibilità dell’incontro del lavoro col diritto nella forma assunta durante quello che Tony Judt definiva «il lungo momento socialdemocratico dell’Europa del secolo XX», il medesimo mucchietto di parole alimenta la nostalgia di un bel tempo che non fu mai. Del resto, Gérard Lyon-Caen è stato sempre del parere che «le droit du travail est mal denommé: il est proprement le droit du capital». In effetti, cambiargli nome in modo da porre visibilmente fine allo stato di latenza della strutturale ambivalenza di un diritto che non può essere del lavoro più di quanto sia contemporaneamente del capitale sarebbe una misura salutare. Renderebbe trasparente che i contrasti non si esauriscono sul piano della produzione delle regole e si trasferiscono sul piano dell’interpretazione: qui, cambiano i duellanti, ma le ragioni del contendere permangono intatte. Non a torto Federico Mancini affermava che «il giurista fa politica e i suoi tempi sono quelli della politica».

Ciononostante, personalmente sono meno interessato a cambiare il nome che a spiegarne l’universale successo. A mio avviso, esso dipende dalla sistematica assenza dalla cornice discorsiva in cui si colloca l’espressione lessicale dell’elemento la cui inclusione o esclusione potrebbe, di volta in volta, eliminare o, al contrario, avvalorare le suggestioni di senso che produce e dunque chiarisce l’esatta portata della proposizione.

Lo spunto mi è stato offerto dalla rilevazione di un dato empirico incontrovertibile: da noi, quell’insieme di vocaboli era estraneo ai discorsi giuridici anteriormente all’insediarsi di un regime che, allo scopo di mettere polemicamente in risalto una cesura rispetto al passato, sfoggia una vociante sensibilità alle ragioni del lavoro. È nel 1927 infatti che nasce, ad iniziativa di Giuseppe Bottai, la rivista di dottrina e giurisprudenza «Il diritto del lavoro», destinata a restare in vita fino alla fine del ‘900. Occhio alla data. La rivista esordisce nell’anno in cui è emanata una Carta che prende il nome dal lavoro per celebrare la centralità del ruolo dei produttori (non solo) subalterni in una società pacificata, assistita e senza classi contrapposte. Dunque, l’evento che motiva esplicitamente l’iniziativa editoriale del ministro delle corporazioni è la deliberazione di un documento che, elaborato da un organismo sfornito di competenza legislativa come il Gran Consiglio del Fascismo, ha un’intonazione ideologico-programmatica. Privo di valore giuridico, la sua risonanza non poteva che essere mediatica. Bisogna però riconoscere che lo è stata nella maniera più solenne possibile. Se allo scopo di incentivare i giuristi di regime a considerarla una super-legge, la Carta del lavoro venne pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale», tutto lascia pensare che la campagna pubblicitaria ideata per enfatizzare l’alba di una nuova era contemplasse anche la nascita di una rivista giuridica dedicata alla questione-lavoro la cui sponsorship da parte di un uomo politico di punta ne avrebbe accresciuto l’autorevolezza.

A questo punto cade opportuno osservare che il significato dei lemmi che compongono la testata è predeterminato dalla legge del 1926. Legata al nome di Alfredo Rocco, Guardasigilli del Regno, è la legge che aveva gettato le basi costitutive del regime, precludendo la possibilità stessa che il diritto del lavoro si formasse attraverso gli itinerari evolutivi che solamente la libera misurazione dei rapporti di forza è in grado di tracciare. Infatti, aveva confiscato la libertà sindacale proprio allo scopo di facilitare la gestione dei rapporti individuali di lavoro in conformità ai canoni vetero-liberali che esigono l’intangibilità dell’ordinamento capitalistico della produzione. È documentabile, infatti, che il diritto corporativo non ha disturbato la preesistente e ormai consolidata communis opinio che comprimeva le regole dello scambio lavoro-retribuzione negli involucri confezionati dai privati nell’esercizio di un potere di autodeterminazione negoziale considerato come la più sacra manifestazione dell’individualismo economico e giuridico. Stando così le cose, la testata del periodico non poteva che riferirsi al diritto relativo ad un contratto che permette di soddisfare l’aspettativa dell’imprenditore sia di disporre di manodopera docile e ubbidiente sia di potersene disfare in ogni momento col solo obbligo del preavviso. È il diritto che, se protegge il contraente debole, lascia al tempo stesso intatte le cause di fondo della sua debolezza. È il diritto che coincide con la disciplina di un contratto istitutivo d’immodificabili rapporti tra diseguali, perché è figlio della generale condivisione dell’idea che al lavoro sia stato permesso di rompere il suo millenario silenzio a condizione che metabolizzasse il divieto di alzare la voce. Come dire che l’accostamento di parole scelto come testata della rivista il cui sponsor era seriamente impegnato a creare nell’ambiente accademico un clima d’opinione interessato alla Carta del lavoro ha il pregio dell’incompletezza. Infatti, sarebbe stato insopportabilmente riduttivo comunicare che, nel periodo corporativo, il diritto del lavoro non era altro che il diritto del contratto di lavoro. Certo, comunicare che il lavoro ha un “suo” diritto è una forzatura, una manipolazione, una mistificazione; ma il fascismo ci fa una bella figura.

Chissà se i funzionari del ministero della pubblica istruzione incaricati dal governo Badoglio di far sparire dall’ordinamento degli studi universitari le tracce più vistose del regime collassato avessero piena consapevolezza di tutte le possibili implicazioni del maquillage che avevano ricevuto l’ordine di eseguire. Probabilmente no. Di sicuro, nessuno li informò che, proponendo di inserire il diritto del lavoro (in luogo del diritto corporativo) nei piani di studio offerti dagli atenei dell’Italia (non ancora repubblicana, ma solo) post-corporativa effettuarono una scelta meno banale di quanto pensassero. In realtà, l’anno accademico 1944-‘45 sanciva la Caporetto del corporativismo giuridico e certificava, nell’invarianza di docenti e materiali didattici, la vittoria culturale della giusprivatistica. Quest’ultima non solo aveva sempre visto nel contratto di lavoro reinventato dal capitalismo industriale un’insula in flumine nata di cui appropriarsi a titolo originario, ma anche la più apprezzata monografia del ventennio in materia di lavoro fa parte di uno dei più prestigiosi trattati di diritto civile pubblicati nel nostro paese e il suo autore da buon civilista non poteva non considerare la Carta come un contenitore di principi generali cui l’ermeneutica assegna solitamente un rilievo secondario.

La convenzione linguistica oggetto di questa riflessione è giunta inalterata fino ai nostri giorni. Nel frattempo, però, è entrata in vigore una costituzione che fa del lavoro l’elemento fondativo dello Stato. Pertanto, il mutato contesto potrebbe mettere l’iperbole letteraria in grado di dare lustro e spessore ad un più complesso disegno in divenire, acquistando così una validità conoscitiva che non aveva mai avuto. Viceversa, l’accostamento di parole ha conservato il senso che produceva in passato. Perché? I teorici della comunicazione risponderebbero: perché non c’è senso senza cornice e dalla cornice del discorso giuridico la Costituzione è rimasta fuori o il più distante possibile ed è a causa di questa esclusione che non si è determinato uno spostamento dell’asse nella produzione di senso. Infatti, in questi settant’anni il diritto del lavoro non ha stabilito con la Costituzione lo stesso intreccio che esiste tra la lingua e la grammatica. Come dire: intere generazioni di giuristi e giudici del lavoro non si sono discostate, o l’hanno fatto il più tardi possibile e controvoglia, dalle certezze del più politico tra gli allievi di Arturo Rocco: Alberto Asquini era del parere che la struttura del rapporto individuale di lavoro dovesse rimanere inalterata. «Questa struttura - diceva - resta sempre privata e contrattuale».

Pertanto, l’accostamento di parole che in passato identificava nel mercato dell’editoria giuridica un periodico specializzato o un corso di lezioni svolto nelle Facoltà giuridiche della Repubblica è ancora un piccolo grande capolavoro di sarcasmo. Più di prima, però, adesso può trovare la sua giustificazione soltanto sul terreno della retorica, perché la normativa applicabile al rapporto instaurato dal contratto di lavoro tende più a contraddire il principio fondante della nostra democrazia costituzionale che a interiorizzarlo.