Discussioni #4

Andrea Rapini e Gilda Zazzara discutono:

Anna Di Qual, Eric J. Hobsbawm tra marxismo britannico e comunismo italiano,

Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2020, pp. 337

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Quando verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso lasciai la facoltà di Economia e commercio per iscrivermi a Storia contemporanea nell’ateneo bolognese, mi imbattei per la prima volta in Eric Hobsbawm. Quel nome, di cui ignoravo tutto, inclusa la pronuncia, era impresso sul quadrato nero che, nel progetto grafico di Bruno Munari, affiancava quello di colore più vivace della collana Piccola Biblioteca Einaudi. Negli spazi di via Zamboni 38 era impossibile non avere a che fare con lui. In particolare, ricordo i corsi di Massimo Legnani e Mariuccia Salvati. Benché né l’uno né l’altra fossero gramsciani – certamente non in quel periodo – il primo lo proponeva specialmente per gli studi sul nazionalismo, mentre la seconda, che aveva partecipato alla discussione sulla storia sociale negli anni Settanta (lo avrei scoperto dopo), si confrontava costantemente con le sue tesi e periodizzazioni della storia contemporanea. Entrambi, in ogni caso, erano posizionati nella zona sinistra del campo storiografico italiano, pur con sensibilità diverse: più vicina alle diramazioni del socialismo la prima, all’azionismo il secondo. Legnani e Salvati restano fissati nella memoria per la loro autorevolezza e perché gioivano del confronto, talvolta polemico, con quei giovani studenti, facendosi così mediatori attivi della trasmissione del sapere. Hobsbawm, poi, usciva dalle aule e accompagnava gli studenti più brillanti che avevano animato i dibattiti alla fine delle lezioni. Me lo ritrovavo quindi nelle battute al bar dello studente, sui banchi del “36” occupato di via Zamboni, nelle citazioni durante assemblee o seminari autorganizzati, nelle chiacchierate notturne all’osteria Onagro in via Avesella. Per me che insieme alla storia cercavo una comunità politica, Hobsbawm fu un inevitabile rito di passaggio. Quando dopo qualche anno andai a vivere con alcuni di quegli studenti e di quelle studentesse in Via San Donato, in quella casa si potevano trovare tre o quattro copie di ciascun libro dello storico inglese.

Questo frammento vuole introdurre il nucleo più importante – a mio avviso – della bella inchiesta di Anna Di Qual: i testi, le idee e le teorie non viaggiano – per usare un’espressione di Edward Said – spontaneamente grazie alla loro “scientificità” o intrinseca forza comunicativa e neppure stocasticamente. Esse, invece, circolano dentro spazi sociali (contesti da individuare e definire) solcati da relazioni di potere e nelle trame di reti di relazioni in cui gli individui, con le loro attitudini storicamente plasmate e con le loro risorse, svolgono funzioni attive di mediazione. Questa sarà dunque la lente attraverso cui discuterò l’inchiesta. Qual è la sua struttura? Il testo è suddiviso in tre parti. La prima – intitolata Reti – si compone di tre capitoli (Il ritorno della guerra; La scoperta dell’Italia; 1956). La seconda – Progetti – si articola in due capitoli (Nel segno di Marx; …e di Gramsci). La terza – Ritratti – ospita il capitolo Ricezione e fortuna.

È noto che Hobsbawm era attratto – principalmente per ragioni storico-politiche – dall’Italia e che a aprirgli le porte del nostro paese fu Piero Sraffa, insediato a Cambridge dalla fine degli anni Venti. Da qui, però, Di Qual ricostruisce la rete di relazioni attraverso cui Eric arrivò nel nostro Paese, non certo da sconosciuto turista. Sraffa aveva un rapporto di lavoro e familiarità con Maurice Dobb e una certa affinità politica. Il primo era legato per note vicende al Partito comunista italiano e alla nascente Fondazione Antonio Gramsci (1950); il secondo all’Editore Einaudi. Entrambi lo immisero dentro questo triangolo di istituzioni, ma non astrattamente. Il punto di ingresso fu Cantimori che, per la centralità dentro tali spazi, dischiuse a Hobsbawm la frequentazione della galassia di storici marxisti italiani, anche più giovani di Cantimori. Le funzioni politiche e il riconoscimento tributato loro nel partito comunista, stupirono immediatamente Eric. A dirla tutta, stupisce ancora e soprattutto oggi. Trovo godibili tutti i passaggi in cui – grazie a un uso accorto delle fonti – Di Qual immagina dialoghi e scampoli di confronti diretti tra questi attori, forse mai avvenuti veramente, ma che dentro la rete di relazioni schizzata, appaiono come “verosimili”.

In quel frangente, si cementò un sodalizio persistente di cui l’autrice evidenzia i fattori sociali, culturali e politici. Da una parte, le istituzioni menzionate - e gli uomini che le animarono - videro in Hobsbawm l’opportunità per tessere una trama internazionale e per entrare in contatto con il campo storiografico inglese, nonché col mercato editoriale. Tanto più cresceva nel tempo il capitale simbolico di Eric su scala nazionale e internazionale, tanto più egli costituiva un prezioso tramite e al tempo stesso un sigillo di legittimazione per coniugare “scientificità” e “impegno”. Quale impegno, però? Dal punto di vista di questi attori, la permanenza di Hobsbawm nel partito comunista (CPGB) dopo la crisi del 1956 - diversamente da altri storici e intellettuali marxisti inglesi, come ad esempio E. P. Thompson - era una caratteristica che lo rendeva prossimo. Ci sono infine le attitudini personali di Eric: il suo amore per l’Italia che indubbiamente lusingava gli interlocutori italiani, la sua disposizione verso l’apprendimento delle lingue e quindi dell’italiano, la sua affabilità, la sua autentica vicinanza a quella sorprendente “giraffa” che fu il Pci, secondo la definizione di Togliatti volta a coglierne l’anomalia nella “natura” dei soggetti politici. Dall’altra parte, Eric aveva modo di entrare dalla porta principale nell’universo politico, culturale e geografico di Gramsci che Sraffa a Cambridge gli aveva presentato e su cui era in corso un’operazione imponente di edizione e diffusione condotta dal partito. Era, inoltre, un viatico per soddisfare il genuino e profondo fascino verso il “laboratorio italiano”: il paese del fascismo, il paese di un esteso movimento resistenziale antifascista, il paese di un partito comunista di massa in cui gli intellettuali si incontravano col popolo, un paese che attraverso il Pci assegnava alla storia e agli storici un prestigio inedito o, quanto meno, tale per il piccolo partito comunista della Gran Bretagna.

Paradossalmente, il filo più sottile di questo sodalizio e di questa connessione sembra essere la storia, intesa come disciplina. Di Qual scrive pagine molto limpide sulla partecipazione di Hobsbawm alla nascita di quel gruppo di storici marxisti che si organizzò all’interno del partito comunista britannico nell’immediato dopoguerra per rinnovare il modo di fare storia contro «la storiografia dominante» (p. 61), coniugandolo, appunto, con l’impegno politico. Benché nel libro resti forse poco chiaro il paesaggio storiografico contro cui essi si mobilitavano, è invece trasparente la scelta del gruppo a favore dello studio della “gente comune”, delle sue condizioni di vita e di lavoro, delle sue forme culturali, della sua azione politica e del movimento operaio in senso lato. Quindi: poco spazio alla speculazione teorica e all’erudizione, poco spazio pure ai vertici delle organizzazioni politiche e sindacali, ai congressi. L’etichetta Labour History - com’è noto - sintetizzò già all’epoca questa tensione, che si ritrova poi all’origine della rivista «Past and Present», di cui quel gruppo fu ispiratore. Una tensione che apriva risolutamente a un dialogo intenso e fecondo con l’economia, la sociologia, l’antropologia, in una parola: con le scienze sociali. Per questa ragione, ritroviamo Hobsbawm nella sessione di storia sociale del primo congresso internazionale di studi storici di Parigi del 1950, organizzato dal Comité international des sciences historiques. Per la stessa ragione egli si sentiva particolarmente in sintonia con la scuola delle «Annales», Ernest Labrousse e i suoi allievi più giovani che beneficiavano dell’eredità di un’intensa discussione sul metodo della storia e sulle scienze sociali, animata all’inizio del secolo dal durkheimiano François Simiand.

Anna Di Qual argomenta l’esistenza di uno scarto con l’Italia dove, salvo pochi esempi come Dal Pane, gli storici con cui Hobsbawm entrò in contatto prendevano invece un’altra direzione, influenzata anche dal peso del modello cantimoriano di «storia delle idee come storia filologica» (Santomassimo) o, con le parole dello stesso Eric di alcuni decenni successive, di «erudizione filologica». Viene da chiedersi se la costellazione di storici marxisti ruotanti attorno al Pci fosse così omogenea, specie guardando alle generazioni successive. Perché, inoltre, l’orientamento di Hobsbawm e quello annalista (lato sensu), sarebbe restato minoritario in Italia? Dipende forse anche dalla debolezza della sociologia italiana e dall’assenza di un Durkheim o di un Max Weber? È sufficiente la tesi, che riappare anche nel libro, dell’egemonia crociana?

In ogni caso, la distanza di Hobsbawm emerge con nettezza in quelle pagine dedicate ai suoi viaggi nell’Italia meridionale, effettuati nel corso degli anni Cinquanta sulle tracce di “ribelli e banditi”. L’uso di un “resoconto” di viaggio consultato dall’autrice negli Hobsbawm’s Papers della Warwick University, mostra vividamente la disposizione scientifica di Eric. Se è giusto non tralasciare mai la componente sentimentale di fascinazione nei confronti di quel mondo, che induce a un atteggiamento di scoperta e meraviglia, quelle pagine possono essere accostate a una sorta di “diary and fieldnotes” tipico degli antropologi, un’osservazione partecipante in cui tra gli oggetti dell’analisi rientra anche il cambiamento di se stessi, della propria prospettiva verso l’oggetto. Pagine splendide, uno scorcio sul lavoro di un grande storico che, d’altronde, pochi anni dopo avrebbe affermato: per me tra «storia e sociologia non c’era una grande differenza», né una «linea troppo marcata» (p. 178).

Il tema della circolazione delle idee ritorna in controluce nelle pagine dedicate al ventennio Sessanta-Settanta durante il quale si consolidò il rapporto con la casa editrice Einaudi. Si tratta di pagine che offrono, al contempo, alcuni esempi - davvero impressionanti a distanza di anni e nella temperie attuale - sul modo di intendere il lavoro editoriale di quella che Hobsbawm ha definito «la migliore casa editrice mondiale nei quindici anni dopo il 1945» (Anni interessanti, Rizzoli, Milano, 2002, p. 391). La discussione interna all’Einaudi sulle scelte di “traduzione” in Italia della storiografia anglosassone e sulla scelta del mentore cui affidare l’impostazione della Storia del marxismo restituisce l’importanza di prendere in considerazione gli attori nello studio della circolazione e della ricezione delle idee. In questo caso, si vede bene che il polo Panzieri-Solmi, sostenitore di un’apertura verso gli storici della New Left (Thompson ad esempio) e vicino in Italia ai fermenti del lungo Sessantotto, perda rispetto alla linea Vivanti, Spriano e di Giulio Einaudi che intendeva, invece, affidarsi a figure più in sintonia con i partiti comunisti, dove essi stessi gravitavano. Questo affresco aiuta a comprendere come mai un testo come The Making of the English Working Class di Thompson, che era eccentrico quanto l’approccio di Hobsbawm rispetto alla storiografia italiana sul movimento operaio, non fu tradotto da Einaudi e si dovrà attendere l’iniziativa di Grendi del 1981 per avere un’edizione einaudiana di alcuni suoi scritti (Società patrizia e cultura plebea) nella collana “Microstorie”. Il posizionamento di Grendi - e di una parte dei microstorici, specie il filone più sociale - nella storiografia italiana e nel campo politico, insieme alla congiuntura che ormai legittimava certi approcci, rende trasparente questo timing.

Alla metà degli anni Settanta, quel sodalizio tra Hobsbawm, la casa editrice Einaudi, la Fondazione Gramsci (divenuta Istituto nel 1954) e il Pci si arricchì di un nuovo evento, dopo la comune progettazione della storia del marxismo. Alla presentazione parigina dell’edizione critica di Gerratana dei Quaderni del carcere di Gramsci presso l’École pratique des hautes études, il relatore che aprì i lavori fu Hobsbawm. Alle spalle dell’evento continuavano a persistere le stesse condizioni che avevano determinato l’incontro negli anni Cinquanta, rideclinate, però, nella nuova stagione. In questo tornante, ad esempio, l’uso dell’antifascismo quale chiave di lettura del quadro politico e delle alleanze nella strategia di Berlinguer giocò un ruolo chiave per riaccendere il legame politico con Eric, per il quale la memoria personale del fronte popolare era ancora materia incandescente. Nel frattempo inoltre, egli era diventato uno dei grandi vettori di diffusione internazionale del pensiero e dell’opera gramsciani. Nella ricostruzione della ricezione di Gramsci in Gran Bretagna, che situa molto opportunamente Hobsbawm, manca stranamente ogni riferimento alla scuola di Birmingham. Quei riferimenti, utili per disegnare lo spazio delle possibili interpretazioni in relazione al Gramsci dei comunisti italiani, mi sembrano pertinenti anche per cogliere come mai il pensatore sardo rientrò in Italia quasi dall’esterno, dopo un periodo di eclissamento negli anni Ottanta del Novecento, segnalato dalla quasi assenza di pubblicazioni di rilievo (Guido Liguori, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche. 1922-2012, nuova edizione riveduta e ampliata, Editori Riuniti, Roma, 2012, cap. VIII). Com’è noto, Stuart Hall e Dick Hebdige diedero un contributo notevole a una particolare rilettura di Gramsci, insieme agli studiosi “postcoloniali”. Quell’eclissamento in Italia, forse, era il riflesso della crisi del Pci, ma questo è un altro discorso.

Proprio alla ricezione - questa volta di Eric in Italia - è consacrata la parte finale del libro. In realtà, nonostante l’esplicita titolazione, questo argomento è disseminato ovunque e la mancanza di quadri d’insieme sulla storiografia, in cui collocare le singole traiettorie degli storici per apprezzarne meglio le specificità, è trascurabile di fronte ai pregi dell’inchiesta. Se il centro del libro resta - a mio avviso - la circolazione dei saperi e il metodo per la storia della storiografia, non schiacciato sulla ripetizione del canone della storia delle idee e della storia politica, esso merita di essere letto anche per altre ragioni, che voglio in conclusione almeno scorrere. Nel testo si può trovare uno scorcio sull’editoria italiana ed è anche una sollecitazione a riaffrontare la parabola del Pci, vittima di una damnatio memoriae. Nell’anno del suo centenario, accostarsi ad esso nello specchio di un grande intellettuale può essere una prospettiva riflessiva e critica.

Andrea Rapini, Università di Modena e Reggio Emilia

 

Bibliografia

  • Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1975.
  • Hall, Stuart, Gramsci's Relevance for the Study of Race and Ethnicity, in “Journal of Communication Inquiry”, Vol. 10 issue 2, pp. 5-27; Id., The Emergence of Cultural Studies and the Crisis of the Humanities, in “Humanities as Social Technology” vol. 53, 1990, pp. 11-23.
  • Hall, Stuart and Tony Jefferson, Edited by, Resistance through Rituals. Youth subcultures in post-war Britain, Routledge, London and New York, 1993, First published 1975 as Working papers in Cultural Studies no. 7/8.
  • Hebdige, Dick, Hiding in the light: on images and things, Routledge, London and New York, 1988.
  • Hobsbawm, Eric, Anni interessanti: autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano, 2002.
  • Liguori, Guido, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche. 1922-2012, nuova edizione riveduta e ampliata, Editori Riuniti, Roma, 2012.
  • Santomassimo, Gianpasquale, “La storiografia dei maestri”, in Tommaso Detti, Giovanni Gozzini, a cura di, Ernesto Ragionieri e la storiografia del dopoguerra, Angeli, Milano, 2001, pp. 39-54. 
  • Simiand, François, Méthode historique et science sociale. Étude critique à propos des ouvrages récents de M. Lacombe et de M. Seignobos, in “Revue de synthèse historique”, 1903, pp. 1-22, 122-157.
  • Thompson,Edward. P., The Making of the English Working Class, Gollancz, London, 1963; Id., Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, a cura di Edoardo Grendi, Einaudi, Torino, 1981.

 

La bella “biografia italiana” di Eric Hobsbawm di Anna Di Qual, frutto del suo lavoro dottorale, merita e certamente avrà attente recensioni capaci di collocarla, per ciò che aggiunge e aggiorna, nell’ormai vasta hobsbawmologia accademica. Della ricerca di prima mano il libro ha mantenuto la densità, il corpo a corpo con le fonti, la consistenza grumosa. Un lusso per un autore e un gusto per gli appassionati del genere: ma quale genere? Che storia è questa? Ci tornerò più avanti.

Il succo, per estrarlo in poche parole, sta nel ricostruire cosa ha rappresentato il comunismo italiano (storia, mito, persone) nella vita di Hobsbawm e cosa l’amicizia di Hobsbawm per il Pci, con il risultato di un affondo che è tanto sullo storico inglese, quanto sui modi di pensare e fare storia degli intellettuali comunisti italiani nel dopoguerra. Per Hobsbawm – forse è questa la sporgenza interpretativa più forte – il partito italiano avrebbe rappresentato l’àncora per restare nel movimento comunista anche dopo il 1956, dopo che i più brillanti tra i suoi compagni dell’Historians’ Group avevano lasciato il CPGB e iniziato il cammino della New Left. Nel Pci Hobsbawm avrebbe trovato una serie di condizioni assenti in Gran Bretagna e rispondenti al suo habitus: un’organizzazione di massa, tanto ampia da sfuggire inevitabilmente all’assenza di pluralismo, anche nei frangenti più duri; un’istituzione nella quale gli intellettuali non erano semplicemente “rispettati” e confinati in una torre eburnea, bensì assumevano ruoli politici a diretto contatto con la base sociale. Un partito, cioè, non minoritario come il cugino britannico e con quadri intellettuali non elitari come gli accademici inglesi. Non solo e non ultimo: il Pci avrebbe offerto a Hobsbawm il ristoro di un caloroso compagnonnage nel frangente doloroso della separazione dalla moglie e dell’esclusione da Cambridge, bruciante per un delfino di Munia Postan, un affiliato dell’esclusiva società degli Apostoli, considerato dai suoi coetanei come il migliore tra loro. Non c’è dubbio che nell’accoglienza che gli fu riservata in Italia ebbero un peso le autorevoli credenziali con cui poté presentarsi all’intellighenzia del Pci: Piero Sraffa e Maurice Dobb, per capirci. 

Al Pci l’endorsement di Hobsbawm, che in Interesting Times se ne definì un «membro spirituale», avrebbe portato soprattutto un capitale simbolico di relazioni internazionali e di credito in circuiti politico-culturali impenetrabili senza mediatori. Talvolta persino copertura politica, come quando l’amico Giorgio Napolitano lo volle partner nella fortunatissima serie di interviste di Laterza. Si chiusero un fine settimana nella casa romana dell’editore e registrarono quindici ore di conversazione, da cui sortì – accortamente rimaneggiato da Napolitano – un best-seller tradotto in tutte le lingue europee e persino in cinese. Era il 1975, il compromesso storico a un passo dal diventare solidarietà nazionale, l’eurocomunismo l’ultima revisione di un partito che si sentiva in ascesa. Allora Hobsbawm era già diventato Hobsbawm, non serviva che facesse davvero l’intervista, era sufficiente la sua presenza perché la linea ufficiale ne uscisse rafforzata.

Questa estrapolazione di due prospettive con cui attraversare il volume – versante inglese e versante italiano, diciamo – non rende però giustizia al lavoro di microstoria translocale (p. 15) intrapreso da Di Qual, in cui Hobsbawm è davvero in-between mondi linguistici e politico-culturali e frenetico «attore di connessioni» (p. 241). Un approccio originale e tanto più apprezzabile per la capacità di sottrarsi all’“illusione biografica”. Hobsbawm, cioè, è inseguito come vettore di un campo già segnato da “gradi di separazione”, viaggiatore di un’infrastruttura retrostante. Per usare la tube londinese come metafora, alla stazione di King’s Cross si può arrivare con la Northern o con la Piccadilly Line, ma ci sono sempre una stazione prima e una dopo. Per arrivare a Cantimori si parte da Dobb o Sraffa e da lì si va a Dal Pane e a Ragionieri. E così via, in un tessuto che si infittisce e che riporta la storia degli intellettuali alla sua concretezza sociale di scambi, incontri, affinità tra individui, per quanto già posizionati. Talvolta, se manca l’anello, la linea si interrompe o devia: ad esempio non si raggiungono Panzieri e De Martino.

Hobsbawm è dunque una stazione della metropolitana degli intellettuali comunisti, a cui porta in dote la naturalezza con cui un vero cosmopolita e poliglotta fuoriesce dagli steccati nazionali. Oggi l’accademia chiama questo lavorìo di connessioni “internazionalizzazione”, a cui dedica appositi uffici e comitati. Quella generazione lo chiamava internazionalismo. Le pagine sullo straordinario cantiere della Storia del marxismo Einaudi sono tra le più riuscite nel restituire il significato politico di quel cercarsi. Attorno a un tavolo – siamo a Londra nel 1970 – Eric Hobsbawm, Franz Marek, Ernesto Ragionieri, Pierre Nora, Vittorio Strada discutono (in che lingue si saranno parlati?) il piano e lo spirito dell’opera: una storia marxista del marxismo o una storia della storicità del marxismo? Otto anni dopo - passando per rotture, scontri, abbandoni, allargamenti di cui Hobsbawm è il regista e il garante - il primo volume sarebbe stato presentato alla Festa dell’Unità di Genova, alla presenza di oltre mille persone. Una foto riprodotta nel libro immortala il palco dei presentatori. Ho immaginato Hobsbawm, dopo, mangiare con gusto un piatto di trenette al pesto sotto un tendone, ancora affascinato da quel colto comunismo di popolo.

In questo lavoro di connessione frequenti sono i cali di rete, i fraintendimenti, le proiezioni di sé sull’altro. L’incontro con Cantimori – una delle prime stazioni italiane raggiunte negli anni Cinquanta – ha questo retrogusto. Nel maestro dei marxisti italiani Hobsbawm cerca anche il partito della Resistenza, ma conosceva l’itinerario complesso di Cantimori attraverso il fascismo, il rapporto contorto con il Pci, le prese di distanza dagli allievi che si volevano storici militanti, il suo marxismo in ultima istanza antisociologico? A Piana degli Albanesi, trascinato per le strade dal vulcanico sindaco comunista, cerca la lotta di classe prima della lotta di classe, un idealtipo del movimento allo stato primitivo, e lo trova (nasceranno lì i Primitive Rebels), anche se ancora parla italiano a stento. Sollevo questi punti non per diminuire Hobsbawm o di Qual, all’opposto per dire – ne sono convinta – che gli scarti di comprensione, riempiti dalle domande di chi ricerca (uno scambio, un argomento, una prospettiva per penetrare il passato) sono il lievito della creatività storiografica.

Se nell’oralità e nella dimensione interpersonale i disallineamenti non lasciano tracce facilmente ricostruibili, se non per via ipotetica, lo fanno però nella storia della ricezione, nel passaggio della traduzione, a cui pure Di Qual è molto attenta. Per anni Einaudi tiene Primitive Rebels nel cassetto, prima di considerarli pronti per il gusto italiano. Le note sugli studi storici italiani chieste a Cantimori per «Past and Present» (destinazione occultata nella raccolta Storici e storia,in cui comparvero vent’anni dopo) non verranno mai tradotte. Troppo filologiche ed erudite, probabilmente, o scritte in quello stile «somewhat mandarin» (p. 194) inadatto al palato inglese. Ma è più in generale l’incontro tra la storiografia italiana e il progetto di «Past and Present» a mancare di sincronismo.

L’aver messo in luce anche l’asincronia della ricezione e del riconoscimento è a mio parere uno degli aspetti metodologicamente più stimolanti del lavoro di Di Qual. E qui torno alla domanda iniziale: che storia è mai questa? È “storia della storiografia”, perché ha per oggetto uno storico consacrato a livello mondiale? Certo, lo è. Ma non quella che parte dalle opere, possibilmente in ordine cronologico (e teleologico) verso i capolavori della maturità, ragionando in termini di acquisizioni, accumulazione del sapere o al massimo dialettica tra tradizione e innovazione; in cui tutto ciò che viene prima delle opere, che sta dietro, sorregge e orienta, è solo cornice aneddotica. La storia della storiografia di questo libro è storia di storici implicati nel mondo sociale che cambia e li cambia, che li riposiziona continuamente tutti, rendendo possibili incontri che prima non lo erano e creando improvvise distanze. La doppia appartenenza degli attori, al campo scientifico-scolastico nazionale e a quello politico dell’intellettualità comunista internazionale, ha esiti controintuitivi: Hobsbawm apprezza lo Spriano istituzionale della Storia del Pci, e gli storici del Pci apprezzano la sua Age of Revolution, che ad altri circuiti italiani appare panoramica e divulgativa. Il terreno dissodato dall’amicizia politica apre la porta a ricezioni culturali altrimenti incomprensibili.

Fare storia della storiografia in questo modo comporta un lavoro faticosissimo, su una varietà impressionante di documenti: le opere edite, certo, e non solo le maggiori, ma anche tutte le tracce di ciò che le precede e le ha rese possibili. Significa muoversi tra molti archivi (case editrici, centri culturali, università, partiti, epistolari privati, qui persino le intercettazioni dell’intelligence, che sorveglia Hobsbawm tra guerra calda e fredda) e tra fonti “a chiave” (lettere, verbali di riunioni, schemi di progetti). Spesso - questo è il caso - sotto lo sguardo esigente del Super-Io autobiografico: con le «memorie senili» (p. 234), con gli Anni interessanti, Di Qual fa opportunamente i conti in tutti i passaggi importanti, riposizionando l’autorappresentazione di Hobsbawm nel proprio reticolo di fonti.

Comporre questi materiali impone di riconoscere i vuoti, gli anelli mancanti, e provare a colmarli con una buona immaginazione storiografica: una facoltà preziosa, anche se caduta un po’ in sospetto dopo la svolta postmoderna. Mi hanno entusiasmato alcuni passaggi, che trovo coraggiosi e convincenti: «è verosimile che nelle camminate che Dobb e Hobsbawm facevano assieme nelle estese aree verdi alle spalle dei college di Cambridge, il primo riferisse al secondo le sue impressioni circa l’ambiente comunista italiano» (p. 75). È verosimile, sì: non ne avremo mai conferma, ma sappiamo – lo sappiamo ciascuno nella nostra piccola esperienza – quanto dobbiamo, per arrivare a una certa stazione, all’informalità delle relazioni che cerchiamo. Durante i miei studi di dottorato più di una volta mi è capitato di sentirmi dire da chi mi guidava che la storia della storiografia non era un campo “appropriato” per un debuttante. Chissà se è successo anche ad Anna Di Qual. Allora quelle osservazioni mi scoraggiavano e mi ferivano, poi leggere Pierre Bourdieu, a mani nude, senza strumenti, per via di connessioni appunto, mi ha aiutato a capire le radici di quel pregiudizio. Ma sarebbe un’altra discussione.

L’Hobsbawm di Di Qual esce a breve distanza dalla summa biografica di Richard J. Evans Eric Hobsbawm: A Life in History. La prima presentazione all’Università di Londra, durante una giornata di sciopero contro le esternalizzazioni del personale dei servizi, è stata contestata proprio nel nome di Hobsbawm. Un nome che per qualcuno, evidentemente, mobilita ancora l’idea che l’attività scientifica non può pensarsi indifferente ai conflitti di potere. Non ho letto Evans, ma non ho dubbi che il contributo di Di Qual gli si affianchi più che degnamente.

Gilda Zazzara, Università Ca’ Foscari Venezia

 

Riferimenti

Per gli scritti di Hobsbawm rimando alla ricca bibliografia del volume di Anna Di Qual.

La biografia di Richard J. Evans (Eric Hobsbawm: A Life in History, Little, Brown Book Group, London 2019) è stata recensita da Simon Levis Sullam in «Italia contemporanea», n. 292, 2020. La recensione è scaricabile qui.

Le Note sugli studi storici in Italia (1926-1951) di Delio Cantimori apparvero nella raccolta postuma Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico, Einaudi, Torino 1971, pp. 268-280.

Con “gradi di separazione” richiamo un concetto della cultura di massa reso popolare dal film Six Degrees of Separation di Fred Schepisi (1993).

La metafora della metropolitana per lo studio delle biografie è di Pierre Bourdieu, L’illusione biografica, in Ragioni pratiche, il Mulino, Bologna 1995, pp. 71-79.