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Settembre 2019

Per una Labour Public History

Stefano Bartolini

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Negli ultimi anni in Italia abbiamo letteralmente assistito all’esplosione del fenomeno della Public history, con la nascita di un’associazione dedicata, l’AIPH, che ha dato vita dal 2017 a oggi a tre conferenze nazionali, capaci di mettere in mostra la ricchezza di esperienze presenti nel nostro paese in tutte le branche della disciplina storica. Questo successo si spiega anche con la circostanza che l’arrivo nella penisola del concetto di Public history – elaborato negli Stati Uniti fin dagli anni Settanta – ha risposto all’esigenza diffusa di dare un nome alle tante pratiche già poste in essere de facto dagli storici italiani e da un variegato universo di enti, musei, associazioni, fondazioni, biblioteche e archivi, che finalmente trovavano un contenitore concettuale capace sia di racchiuderle che di elevarle a una dignità che fino a quel momento faticavano a conquistare. Il “riconoscimento” ha poi stimolato, come era prevedibile, un effervescente dibattito che sta contribuendo a mettere a fuoco le specificità della Public history e la molteplicità di declinazioni che può assumere.

La storia del lavoro non è stata assente dalla scena, ma nemmeno presente in maniera proporzionale alla sua effettiva consistenza. Nelle tre conferenze dell’AIPH infatti la storia del lavoro è stata partecipe con un panel promosso da un gruppo di archivi della CGIL, in altri sei sotto forma di singole relazioni e con un poster sugli archivi di mestiere, a cui si aggiungono una tavola rotonda e una relazione sul movimento cooperativistico nonché - ma con un focus diverso - un panel e una relazione sui musei d’impresa. Momenti in cui sono stati illustrati progetti e prodotti importanti nati negli ultimi anni, dal documentario Il polline e la ruggine al blog La CGIL nel Novecento, alle attività dell’Archivio del Lavoro e della Fondazione Valore Lavoro. Tuttavia la storia del lavoro può vantare un’articolazione molto più ampia, fatta da un arcipelago di musei, archivi e iniziative disparate. Potendone qui richiamare solo alcune, senza nessuna pretesa di esaustività, basti pensare all’organizzazione a Venezia del seminario Ascoltare il lavoro, giunto alla sua decima edizione, dalla chiara implicazione Public, alla realizzazione di un libro collettivo come Meccanoscritto (Alegre 2017), felice combinazione di letteratura, storia e lavoratori, alle attività dei numerosi archivi sindacali (in particolare quelli della CGIL) sparsi sul territorio, all’attenzione dedicata al tema dalla rivista Clionet, dichiaratamente di impostazione Public, fino all’organizzazione del primo Festival della storia del lavoro a Lecce.

Quello che manca non sono quindi le pratiche e le esperienze, ma la concettualizzazione, anche in Italia, di una declinazione della storia del lavoro come storia pubblica capace di attivare una maggior consapevolezza in questo senso. Una mancanza che risalta ancor di più se messa a confronto con l’attenzione di lunga data posta su questo nesso nei paesi di lingua anglofona e anche in America Latina, ribadita negli Stati Uniti nel corso del 2017 quando la North American Labor History Conference e il National Council on Public History hanno dato vita a un gruppo di lavoro congiunto. Una mancanza che diventa un vero e proprio ritardo se ci confrontiamo con articoli come quello del canadese Craig Heron, che già venti anni fa in The Labour Historian and Public History discuteva con lucidità tutti i nodi che gli storici del lavoro affrontano quando sono alle prese con un’attività di Public history, compresi quelli italiani oggi, che sentiranno già riecheggiare argomenti familiari in questa rapida carrellata: la marginalizzazione, se non l’occultamento, della storia del lavoro dalla scena e dal “senso comune” storico della cittadinanza; la competizione con le altre branche della storia per guadagnare l’attenzione pubblica; la necessità di imparare a maneggiare gli artefatti (utensili, striscioni, bandiere, oggettistica varia), che assumono la doppia valenza di fonti e di “cose” capaci di raccontare la storia, ma anche la difficoltà nel reperirli, specie se di tipo sindacale; il bisogno di imparare a padroneggiare diversi media comunicativi e di parlare a diverse audience, scartando il rischio di “stampare libri sui muri” in caso di percorsi espositivi; il dovere di confrontarsi con altri attori all’opera e con approcci consolidati, da quello dell’Heritage Community, dominante nei contesti territorialmente definiti, agli storici locali, agli appassionati, ai testimoni; la costruzione di una narrazione distinguibile da quella dei musei della tecnologia, della produzione industriale, della cultura rurale ed etnografici, che spesso tendono a presentare una versione neutralizzata e pacificata della storia; la difficoltà nel fare i conti con la nostalgia e la mitizzazione del passato da parte tanto del pubblico che di numerosi committenti o finanziatori, portatori di un approccio spesso acritico o celebrativo.

È un paradosso che questo ritardo nel declinare una propria accezione di Public history del lavoro avvenga in un paese come l’Italia, dove fino ad alcuni decenni fa la storia sociale aveva vissuto una stagione feconda, con importanti contributi provenienti dalla storia orale e dall’esperienza della microstoria nonché, fuori dall’ambito strettamente storico, dalla demologia – oggi in crisi secondo Fabio Dei per l’incapacità a individuare nel presente il proprio oggetto di studio – che aveva avuto un precoce slancio Public lasciando sul terreno quel patrimonio di centri che richiamavamo sopra e una serie di studi importanti.

Anche qui siamo in presenza del portato di quel fenomeno di inabissamento della storia del lavoro che già la SISLav evidenziava nel suo appello costituente del 2012, così definito: «Il ritorno della storia politica tradizionale e la diffusione di una sensibilità “culturalista” sembrano aver sancito la definitiva emarginazione di oggetti che si vogliono desueti quali i lavoratori, le lavoratrici, le loro vite dentro e fuori i luoghi di lavoro, i loro movimenti e le loro organizzazioni». Una marginalità che non si è risolta nella scomparsa della storia del lavoro ma nella sua frammentazione, con singoli centri o ricercatori isolati, in assenza di un circuito dentro al quale confrontarsi e che spiega anche il ritardo nel declinare una concettualizzazione di Labour Public history italiana. Ma ancora una volta una nuova generazione è all’opera in questo senso, e può giovarsi dei risultati prodotti nel mondo dalla «Labour history as Public history». Converrà allora provare a mettere in luce quali possono essere gli elementi, gli ambiti e le forme caratterizzanti e di interesse per costruire questa declinazione e su cui intavolare una discussione aperta.

Prima di tutto, sgombriamo il campo da un diffuso malinteso. Public history è divulgazione, disseminazione e condivisione della conoscenza storica, ma non solo. Può esistere una funzione Public anche per l’attività di ricerca. Nel loro discusso Manifesto per la storia, David Armitage e Jo Guldi inquadrano bene quest’aspetto: «In un contesto in cui sia la scienza del clima sia l’economia ci hanno spesso prospettato un mondo nel quale poco o nessuno spazio è lasciato a futuri alternativi, il ruolo della storia deve consistere non solo nell’esaminare i dati relativi alle responsabilità dei cambiamenti climatici, ma anche nell’indicare altre direzioni, percorsi utopici diversi, modelli di produzione agricola e di consumo alternativi che in ogni epoca si sono sviluppati», ben sapendo che «fra le varie ricerche di lunga durata su forme alternative al capitalismo vi è la notevole storia del movimento cooperativo mondiale dei lavoratori, dei suoi successi e della sua eliminazione dalla politica internazionale». Per i due storici americani «la riflessione storica dovrà confrontarsi […] con la realtà di ciò che storicamente ha ostacolato il nostro percorso verso la realizzazione di una civiltà più giusta, sostenibile o ecologicamente equilibrata». A loro avviso «il rapporto della storia col futuro pubblico consiste nella sua capacità di delineare un contesto di lunga durata» perché «ragionare in termini storici è sempre stato un modo per rimodellare il futuro». Il rapporto fra questi ragionamenti e la Public history è esplicitato nella chiusa del lavoro: «rispondere all’appello per un futuro pubblico significa anche scrivere e parlare del passato e del futuro in pubblico».

Su questa linea la funzione della storia del lavoro è subito evidente ed è la stessa dichiarata nel documento fondativo della SISLav come il «tentativo di praticare una storia del tempo presente, di individuare e discutere le caratteristiche del mondo attuale in una dimensione temporale non schiacciata sull’attualità, ma che sappia però raccoglierne le domande, nonché valorizzarla e ricondurla nello spazio di una contemporaneità lunga». Infatti è proprio l’indicazione per una storia di lunga durata che mette la storia del lavoro in condizioni di avere molto da dire al pubblico e in pubblico oggi: sulle forme contrattuali e la regolazione del lavoro; sulla distinzione fra lavoro e non lavoro; sul lavoro gratuito; sulla pluriattività e il lavoro domestico; sul lavoro autonomo; sulle pratiche di riuso e riciclaggio proprie del lavoro in ambienti rurali, così pressante di fronte all’emergere della questione ambientale; non ultimo, sulla precarietà nella storia.

Una storia siffatta si avvicina molto a quel sottoinsieme della Public history che negli USA prende il nome di Applied history, una storia utile ai “decisori”, politici, governi, sindacati, aziende, a chi è nella posizione di determinare le scelte sul futuro del proprio Paese o della propria organizzazione. Ma è anche una storia che accetta la sfida della cultura di massa e della battaglia, per dirla con Gramsci, per l’egemonia culturale, che è sempre in fin dei conti anche politica.

Un secondo ambito in cui ricercare possibili declinazioni Labour è quello della storia “dal basso”. La Public history porta con sé un’istanza partecipativa e democratica, terreno sul quale incrocia i temi e gli strumenti della storia orale, e dove entra in gioco quella che viene chiamata da Ridolfi la «funzione sociale» dello storico. Prendiamo ad esempio il tema della deindustrializzazione. Il lavoro del Labour Public historian può qui diventare quello di sollecitare l’attivazione e la partecipazione della comunità locale che ha subìto un processo di deindustrializzazione alla costruzione e comprensione della propria storia. Spesso la deindustrializzazione ha un impatto violento, con la distruzione delle comunità operaie, la perdita di lavoro, legami, relazioni e identità, a cui può far seguito in determinati luoghi l’espulsione e lo sradicamento delle famiglie dei lavoratori a seguito della gentrification degli ex quartieri operai. La ricostruzione del processo storico può, da una parte, venire incontro alla necessità di elaborare il senso di una parabola sia nella dimensione locale che in quella globale, mentre dall’altra gli ex lavoratori e la comunità, tramite gli strumenti dell’Oral history, possono essere coinvolti nel processo di “fare storia” favorendo una patrimonializzazione del proprio passato in una dimensione dotata di senso. Analoghe considerazioni possono essere fatte nei casi di disastri ambientali legati al lavoro industriale, dove il conflitto e le contraddizioni sono accesi: un buon esempio di Community history è rappresentato dal libro di Giulia Malavasi, Manfredonia. Storia di una catastrofe continuata (Jaca Book 2018). Funzioni simili sono state svolte dalla storia sociale, già in passato, rispetto alla fine del mondo contadino e al cosiddetto “esodo” dal contesto rurale e possono essere rilanciate per lo studio del lavoro precario nella contemporaneità, dotato ormai di una propria storia a cui appare urgente riuscire a fornire una dimensione cognitiva capace di delinearne le traiettorie, anche per le stesse organizzazioni sindacali.

Questa seconda declinazione ci porta in prossimità della People’s History, teorizzata e praticata da Raphael Samuel e dall’esperienza dell’History workshop nel Regno Unito. E può mettere la nuova storia del lavoro nella condizione di dare il proprio contributo nel chiarire il significato di categorie come quelle di “classe” e di “popolare”, oggi assai confuse, tendenti a scivolare nella sovrapposizione in un caso, oppure nella contrapposizione nell’altro. Su questa strada, lo storico pubblico del lavoro dovrà anche confrontarsi con la questione dell’autorità condivisa, di cui parla Michael Frisch nel suo A Sharing Authority (State University of New York Press, 1990) e su cui ha efficacemente ragionato in Italia Alessandro Portelli. Non si tratta di un porsi alla pari dello storico con i propri testimoni, in quanto il ricercatore conserva l’ultima parola e la facoltà di ordinare i fatti e i racconti per restituirli dotati di una chiave interpretativa e di un senso compiuto, ma del riconoscimento di una soggettività che compartecipa al processo del “fare storia”.

Le stesse organizzazioni sindacali, che sono spesso gli unici interlocutori interessati a implementare e finanziare progetti di Labour Public history anche per la consapevolezza della propria storia che si è sviluppata come risposta all’attacco a cui sono sottoposte da alcuni decenni, potrebbero giovarsi da una concettualizzazione di queste attività più lineare e ordinata rispetto all’attuale contesto caratterizzato da intriganti sperimentazioni, mancanti però di una cornice che ne delinei la funzione come politiche culturali. Su questa strada andrebbe superato l’approccio che nella penisola ricomprende sotto il termine di “memoria” una serie di attività caratterizzate, più che da un ragionamento critico sul passato utile al lavoro sul presente e sul futuro, da una pratica che si concentra sulla sola «memoria-ripetizione», un ricordo che cristallizza un passato venato di nostalgia per i grandi successi e il senso di coesione del mondo del lavoro in funzione identitaria quando non etica, alla ricerca di modelli di riferimento di fronte agli smarrimenti della contemporaneità. Quello che andrebbe costruito è un nuovo approccio alla memoria, definito dal filosofo francese Paul Ricoeur come «memoria-ricostruzione», e quindi storia, in grado di aprire la partita dell’interpretazione dei processi economici e di regolazione del lavoro, dei passaggi generazionali, delle trasformazioni che hanno investito il mondo del lavoro e il fare sindacato nel corso degli ultimi decenni. Una ricostruzione storica attenta al lungo periodo, alle diverse cassette degli attrezzi utilizzate dai sindacati nei vari momenti, al lavoro delle donne e a come nel corso del tempo è stata affrontata l’organizzazione del lavoro subalterno – come gli avventizi  o i braccianti – prima dell’affermarsi nel Novecento del modello di lavoro basato sul contratto di lavoro a tempo indeterminato, oppure negli ámbiti restati fuori sempre o a lungo da questa copertura, come la mezzadria o il lavoro a domicilio, alla ricerca di informazioni sulla riuscita o mancata sindacalizzazione di queste figure, sui successi e i fallimenti, potrebbe donare un significato meno retorico alla “memoria” e fornire utili elementi ai sindacati per affrontare con cognizione le nuove emergenze come il lavoro autonomo, i lavori della Gig economy, le pratiche di contrattazione inclusiva di cui tanto si parla, permettendo di soppesare novità, persistenze o rimozioni e di immaginare, sulla scorta della propria storia, un’azione incisiva.

Una Labour Public history declinata su queste linee non sarebbe quindi più solo patrimonio ad uso esclusivo degli storici e degli operatori culturali concerned. Sarebbe una storia fatta in pubblico, capace cioè di creare “cultura”, e per un pubblico fatto di cittadini, lavoratori, organizzazioni sindacali, politiche e governative, generante opportunità in termini di capacità progettuali, di coinvolgimento delle persone, di azioni formative, di influenza nel dibattito pubblico e non ultima di possibilità di superare la marginalità di cui oggi soffrono i temi del lavoro.


Per approfondire:
- T. M. Klubock, P. Fontes, Public History and Labor history, in «International Labor and Working-Class History», 76, 2009
- G. Heron, The Labour Historian and Public History, in «Labour/Le Travail», 45, 2000
- P. Bertella Farnetti, L. Bertucelli, A. Botti (a cura di), Public history. Discussioni e pratiche, Milano, Mimesis, 2017
- M. Ridolfi, Verso la Public history. Fare e raccontare storia nel tempo presente, Pisa, Pacini, 2017