Al presente

archivio della rubrica

Aprile 2020

La quotidianità in tempo di pandemia. L'esperienza della "spagnola" in Italia (1918-1919)

Francesco Cutolo

<scarica il pdf>

La pandemia di Covid-19 ha riattivato nell’immaginario collettivo la memoria di fenomeni epidemici del passato. È emerso anche un interesse per l’influenza “spagnola” del 1918-1919 che uccise globalmente tra i 24 e i 100 milioni di persone (1,3-5% della popolazione), fissatasi nella memoria occidentale come l’ultima grande pandemia dell’epoca contemporanea. La “spagnola” fu l’acme di un processo storico osservato sin dal Medioevo e, in particolare, durante l’Età moderna, quando la circolazione globale delle malattie andò di pari passi alle scoperte geografiche e allo sviluppo dei commerci.

Negli ultimi decenni, la storiografia ha dedicato particolari attenzioni ai fattori sociali, economici e culturali della malattia. Come si propone di illustrare questo contributo, le tre ondate pandemiche, e in particolare quella dell’autunno ’18, ebbero pesanti effetti sulla quotidianità delle popolazioni. In Africa e Asia, la malattia impose lo stravolgimento dei ritmi economici e produttivi. La mancanza di manodopera per i lavori nei campi – in un’agricoltura arretrata e non meccanizzata – spinse ad abbandonare le colture più impegnative, per prediligere coltivazioni semplici e dalla resa più alta. In Nigeria ad esempio la produzione della patata fu soppiantata dalla manioca, una radice dagli alti valori nutrizionali, che richiedeva meno impegno.

Nei paesi europei e nordamericani, il virus provocò interruzioni di servizi e attività essenziali per il funzionamento dello Stato e dell’economia. Per citare un caso, nel luglio 1918, a Francoforte, un terzo dei lavoratori impegnati nei servizi pubblici e nelle fabbriche fu contagiato. Tuttavia, in particolare nei paesi belligeranti, non fu possibile andare oltre l’imposizione di generiche misure profilattiche, non essendo praticabile un blocco totale delle attività produttive e dei servizi necessari al funzionamento della complessa macchina statale. Ciò chiarirebbe, secondo alcuni, l’altissima letalità della malattia nella fascia tra i 20 e i 40 anni, ovvero il segmento della popolazione più attivo. Così, l’alta incidenza della malattia tra le donne troverebbe spiegazione nel loro maggiore impegno pubblico e lavorativo, determinato tra le altre cose dalla guerra. L’inazione dei governi alimentò il malcontento popolare, scatenando proteste in alcuni Paesi. Nella neutrale Svizzera, la “spagnola” acuì la crisi sociale, sfociata nel primo sciopero generale della storia elvetica (Landesstreik) che paralizzò il paese dal 12 al 14 novembre 1918. Per far terminare le proteste, il governo accolse la richiesta di potenziare il sistema assistenziale e di migliorare le condizioni lavorative.

Fenomeni analoghi toccarono anche l’Italia, una delle nazioni europee più colpite dalla pandemia con 325.000-600.000 vittime (circa 1-1,5% della popolazione). L’alta incidenza della “spagnola” deve essere anzitutto imputata ai ritardi dello sviluppo alimentare e sanitario nazionale, che le privazioni e la povertà del contesto bellico acuirono. Inoltre, alcune scelte governative favorirono la circolazione del virus, nonostante l’esordio della seconda ondata, nell’agosto 1918, avesse suggerito al ministero dell’Interno l’immediata adozione di misure igienico-profilattiche, via via integrate da circolari e direttive. Le autorità centrali e locali avviarono una campagna di disinfezione dei luoghi pubblici, per venire incontro alle richieste dell’opinione pubblica. L’inizio della scuola venne quasi ovunque posticipato a data imprecisata. Fu ridotto l’orario di apertura dei negozi, in modo da frenare il flusso di persone nelle strade: solo le farmacie ebbero un allungamento dei turni. Cinema e teatri furono chiusi in vari centri del Paese, scatenando la protesta dei gestori che richiesero un’indennità economica alle amministrazioni.

Tuttavia, per quanto solerti, queste misure si rivelarono insufficienti per fronteggiare l’emergenza pandemica. Le autorità si limitarono a bloccare servizi non essenziali, mentre lasciarono a pieno regime le principali attività economico-produttive, sia per difficoltà oggettive sia per scelta politica: fermare la complessa macchina statale avrebbe avuto incalcolabili ripercussioni sull’operatività dell’esercito in un momento decisivo del conflitto (settembre-ottobre 1918). La campagna profilattica e sanitaria evidenziò, in generale, molte falle, analogamente ad altre nazioni europee: le risorse umane e materiali necessarie a svolgere un’azione più incisiva erano state quasi interamente assorbite dall’esercito. La scarsa efficacia dei provvedimenti profilattici fu percepita anche al tempo, come è possibile evincere da alcuni articoli piuttosto critici e dagli scritti autobiografici. Via via che l’emergenza si aggravava, rendendo palesi i limiti dell’azione statale, il governo ricorse a una strategia comunicativa volta a tranquillizzare l’opinione pubblica, minimizzando (fino al punto di censurare) la criticità della situazione. La stampa interventista e l’associazionismo patriottico furono chiamati a svolgere una “propaganda tranquillante” contro ogni accenno allarmista.

Il dato più evidente di tale insuccesso furono gli agglomerati di persone che affollarono quotidianamente l’ingresso dei negozi alimentari soggetti al tesseramento. Nonostante le code fossero pericolosi vettori del contagio, tanto da esserne consapevole la stessa popolazione, lo Stato evitò di imporre limitazioni e regolamentazioni, al fine di non turbare lo spirito pubblico. I ceti popolari, infatti, erano angosciati di rimanere senza viveri. Gli ufficiali del Servizio P (l’organizzazione interna all’esercito addetta alla vigilanza, all'assistenza e alla propaganda) osservarono che i soldati tornati dalle licenze mostravano una forte e seria preoccupazione per la scarsità dei generi alimentari. Tale psicosi fu verosimilmente innescata dall’impatto della “spagnola” sui cicli produttivi, che determinò una contrazione dei rifornimenti di derrate alimentari. Il ministero degli Approvvigionamenti e dei consumi alimentari provvide ad aumentare il contingentamento della pasta, della carne, del riso e fece distribuzioni gratuite ai poveri. Laddove possibile, le amministrazioni locali – coadiuvate dai comitati di preparazione civile – integrarono queste politiche d’assistenza. Erano risposte volte a rasserenare la popolazione, assicurando scorte di pane e la creazione di spacci alimentari per i malati, ma non valsero a calmarne l’irrequietezza per la penuria di beni di prima necessità.

Infatti, nelle aree rurali, i lavori agricoli ebbero interruzioni anche piuttosto estese, incidendo sul momento del raccolto. Secondo il «Nuovo giornale» di Barberino di Mugello, «famiglie intere di coloni sono ammalati, tantoché si vede la difficoltà o meglio l’impossibilità di raccogliere il granoturco, le uve e le castagne. È un disastro dei più grandi data la scarsità di uomini validi al lavoro». In varie famiglie, i membri attivi – spesso le donne, considerato che gli uomini avevano buone possibilità di trovarsi al fronte – non poterono per giorni svolgere i consueti lavori, facendo mancare braccia indispensabili nell’economia di sussistenza. Nondimeno, la carenza di manodopera fu anche l’opportunità per strappare momentanei miglioramenti salariali. Nel foggiano, per non sospendere la produzione, le maestranze comunali furono occupate – dietro la corresponsione di un lauto compenso – nei lavori agricoli e specialmente nelle vendemmie. Di ritorno in Sicilia per una licenza, Vincenzo Rabito descrisse la crisi della viticoltura a causa della pandemia. Il testimone ammise, visti i cospicui compensi assicurati ai braccianti in condizione di lavorare, che la “spagnola” fu un’occasione:

Io, per natura, stava sempre arrabiato, perché li solde, quelle che avevino dato a mia madre, non ci n’erino più. Cosi, io voleva fare solde. Poi, domandale a mio fratello Vito, e ci ho detto: “Ma tu dove vaie a travagliare?” E mi ha detto: “Mi ne sto antanto a Vettoria Perché per racoglire l’uva si quadagnava 25 lire al ciorno, perché non c’erino uomine a racoglira, perché tutte li uommine erino soldate. C’erino li sole ferrimene che potevino racoglire questa uva, ma la spagnola faceva morire alle donne, propia quelle che avevino di 18 a 30 anne». Cosi, ammio fratello Vito, ci ho detto che ci antava magare io, perché io, sentento lire 25 al ciorno di quadagno, impazie e disse: “Di la spagnola non tenco paura”. E davero partie. Perché io disse che se faceva 4 ciorne quadagnava lire 100, e lire 100 io non l’aveva visto maie... Che, con quelle solde che io aveva quadagnato a coglire racina, mia madre si ha comperato 5 tummina di farina e tante altre cose per mandare, e vino che quanto più assaie si ne poteva bere quanto più meglio era.
(V. Rabito, Terra matta)

Il governo, con l’intento di garantire lo sforzo bellico, non impose sensibili riduzione di orario e chiusure temporanee alle industrie. Movimentare quotidianamente migliaia di operai, però, moltiplicò le occasioni di contagio tra le maestranze, i familiari e i civili con cui entravano in contatto. Le condizioni igieniche e lavorative delle fabbriche erano, del resto, inadeguate a garantire la salute dei salariati. La malattia avanzò praticamente incontrastata nelle industrie, impattando inevitabilmente sulla produttività. Ad esempio, gli stabilimenti dipendenti dal Comitato regionale di mobilitazione industriale per l’Italia centrale e la Sardegna (nei centri di Roma, Ancona, Terni e Chieti) ebbero dal 10 ottobre al 27 novembre 12.426 casi d’influenza su 40.048 operai, causando circa 74.967 assenze dal lavoro. Il decorso della malattia costò circa 6 giorni lavorativi per salariato, con una media di 1.270 operai assenti per “spagnola” al giorno. In novembre, la malattia era scemata, decrescendo a un centinaio di nuovi colpiti giornalieri. In totale, i morti ufficialmente refertati come influenza furono 60, ma il Comitato ammise che solo una frazione dei casi letali era stata denunciata. È possibile ipotizzare che altri stabilimenti italiani registrarono dati non molto diversi.

L’indifferibile necessità di far affluire rifornimenti al fronte impedì l’applicazione di adeguate misure sanitarie a tutela del personale ferroviario. Il contagio dilagò tra i ferrovieri al punto che fu appena consentita l’esecuzione dei trasporti merci d’interesse militare indilazionabile e di quelli assolutamente indispensabili per l’esercito, mentre le spedizioni private, escluse quelle vendemmiali, vennero soppresse. Alla vigilia di Vittorio Veneto, circa il 40% dei manovratori e dei macchinisti era ammalato. I trasporti pubblici, allo stesso modo, non furono fermati per le esigenze lavorative dei civili, ma si adottarono misure per ridurne l’affollamento, anche se piuttosto blande vietando la vendita di un numero di biglietti superiore ai posti effettivamente a disposizione sui treni. La condizione delle carrozze passeggeri era particolarmente preoccupante e fu oggetto di un’interrogazione parlamentare del deputato socialista Arturo Caroti.

Le autorità assicurarono maggiori tutele igienico-sanitarie ai dipendenti degli uffici pubblici, con l’intento di salvaguardare l’apparato statale: nelle circolari ministeriali emergeva la preoccupazione per la diffusione del morbo tra i funzionari, gli impiegati e l’utenza. Nel settore, senza imporre interruzioni all’erogazione del servizio, venne avviato un massiccio intervento di pulizia e disinfezione dei locali unitamente a misure a tutela dell’igiene individuale. Una parte del personale fu destinato alla pulizia degli ambienti e vennero aumentate le dotazioni di utensili per le ordinarie pulizie. I locali frequentati dal pubblico subirono frequenti tinteggiature con la calce. A ogni funzionario fu assegnata una vaschetta a spugna, per impedire che, nel maneggiare le carte, si portasse le dita alle labbra.

La mancata applicazione di proporzionate misure di contenimento in questi settori lavorativi facilitò la circolazione del virus. Infatti, le categorie professionali maggiormente colpite furono quelle più esposte al contatto con persone, come confermano le statistiche delle cause di morte del 1918 (che, però, conteggiano solo i lavoratori di sesso maschile): autisti, ferrovieri, tramvieri, impiegati, funzionari, commercianti, operai, minatori, medici, infermieri, personale militare. La scelta di mantenere a pieno regime il funzionamento della burocrazia statale, dell’economia e delle attività produttive, essenzialmente per garantire l’operatività della macchina bellica, ebbe inevitabili conseguenze sulla popolazione. Il direttore generale della Sanità pubblica, Alberto Lutrario, ammise che le priorità erano state altre:

Le prevalenti esigenze dell’ora compromisero così il successo che, sia pure limitatamente avrebbe potuto sperarsi da varie disposizioni di indiscutibile valore profilattico. È quel che può dirsi ad esempio del divieto di affollamento. Mentre si chiudevano i locali di pubblico ritrovo, si riduceva l’orario dei pubblici esercizi, si protraeva l’apertura delle scuole, si limitavano le funzioni religiose e via dicendo, si dovevano chiudere gli occhi agli impressionanti affollamenti dei treni, delle vetture pubbliche, di ogni altro locale disponibile, pei continui, tumultuosi movimenti di popolazione determinati da esigenze della guerra e del traffico.
(A. Lutrario, La tutela dell'igiene e della sanità pubblica durante la guerra e dopo la vittoria)

La popolazione manifestò la propria preoccupazione, impressionata dalle spaventose scene che si vivevano nelle città e nelle campagne italiane a causa dell’eccesso di mortalità. Tuttavia, non si registrarono – complici le misure repressive del governo – proteste o scioperi su vasta scala per richiedere maggiori tutele, al di là del diffuso malcontento e della sfiducia dei ceti popolari per l’operato dello Stato. Non mancarono, però, eccezioni. I medici e il personale sanitario protestarono per le estreme condizioni lavorative – essendo sotto organico e senza mezzi –, al punto che alcuni abbandonarono il servizio. Merita poi segnalare che in varie città italiane i necrofori si rifiutarono di seppellire i morti d’influenza per paura del contagio. Le amministrazioni comunali ebbero difficoltà a trovare operai disposti a scavare fosse nei cimiteri, anche dietro la corresponsione di paghe elevate, mentre il ricorrere a prestazioni personali coattive per i bisogni d’ordine militare non diede risultati. Le autorità civili affidarono tali mansioni a militari della territoriale, soldati in licenza, prigionieri di guerra e operai militarizzati. Questi si trovarono a lavorare in situazioni di forte esposizione al virus, senza garanzie supplementari. Anzi, una circolare del Comando Supremo (ottobre 1918) escluse l’influenza dalle malattie denunciabili come infortunio sul lavoro, negando la corresponsione di un’indennità agli operai militarizzati deceduti per la “spagnola”. Non è da escludere che la disposizione fu determinata dal consistente numero di lavoratori uccisi dalla pandemia contratta in servizio. Il provvedimento divenne, inevitabilmente, oggetto di contenziosi tra le famiglie dei deceduti e le autorità militari nell’immediato dopoguerra.

Alla luce delle vicende descritte, sorge spontanea una riflessione sull’esperienza presente. La “spagnola” ci insegna l’importanza di imporre rigide misure di isolamento a quanti più ambiti possibili della quotidianità, a costo di danneggiare le attività economico-produttive e il funzionamento dell’apparato statale. Nel 1918, migliaia di donne e uomini, risparmiati dall’invio al fronte, pagarono la scelta di dare priorità al funzionamento della macchina statale e bellica. Oggi, in un mutato contesto igienico-sanitario, assistenziale e politico, sembra essere emersa una maggiore consapevolezza nella collettività e nelle autorità dell’importanza di rigide misure di quarantena che tutelino la salute pubblica, a costo di sacrificare la produttività e il profitto. Questo nonostante le resistenze delle imprese colpite dal blocco.


Per approfondire

- Harrison Mark, Disease and world history from 1750, in John R. McNeill - Kenneth Pomeranz (a cura di), The Cambridge World History, vol. VII, Production, Destruction and Connection, 1750-Present, part I, Structures, Spaces and Boundary Making, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, pp. 237-257.
- Phillips Howard, Influenza Pandemic (Africa), in 1914-1918-online. International Encyclopedia of the First World War, Berlin, Freie Universität Berlin, 2014-10-08 (link).
- Phillips Howard, Influenza Pandemic, in 1914-1918-online. International Encyclopedia of the First World War, Berlin, Freie Universität Berlin, 2014-10-08 (link).
- Ratti Felicia, «Qui sono diventati ‘spagnoli’ in molti». Storia sociale comparata della pandemia influenzale 1918-1919 nella provincia di Modena e nel Land Salisburgo, in Fabio Montella - Francesca Paolella - Felicia Ratti (a cura di), Una regione ospedale. Medicina e sanità in Emilia-Romagna durante la prima guerra mondiale, Bologna, CLUEB, 2010.
- Tognotti Eugenia, La spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo, Milano, Franco Angeli Editore, 2002.
- Webb James, Globalization of disease, 1300 to 1900, in Jerry H. Bentley - Sanjay Subrahmanyam - Merry E. Wiesner-Hanks (a cura di), The Cambridge World History, vol. VI, The Construction of a Global World, 1400-1800 CE, part I, Foundations, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, pp. 54-75.