Al presente

Schiavitù contemporanee, tratta e regolarizzazione dei migranti (*)

di Thomas Casadei

 

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I vari modelli di schiavitù si sono sempre basati, nella storia, sulla dipendenza e sulla vulnerabilità del soggetto dominato o che si intende dominare. Quantificare con precisione il fenomeno è assai difficile perché, come si è osservato da più parti, le catene della schiavitù paiono, di fatto, invisibili.Essendo vietata, essa può sopravvivere solo nel segreto, ed effettivamente, non serve incatenare le vittime per metterle in trappola, basta confiscare le carte d’identità, i passaporti, perché cessino di esistere sul piano giuridico.
È l’identità stessa delle persone soggiogate ad essere completamente negata: coloro che sono vulnerabili diventano “vite di scarto”, “a perdere”, “non persone”, corpi “usa e getta”, corps d’exception,  in sostanza – e di nuovo, come ai tempi della schiavitù legale – cose.

Una “fenomenologia del corpo” si collega alle “geografie della dannazione” legata a tratta e riduzione in schiavitù, come ha illustrato in maniera assai efficace Monica Massari: corpo “senza vita” (trasportato dalle onde, alla deriva durante il naufragio); corpo “assediato, tenuto a distanza, respinto” (alla frontiera, sul confine), corpo “in transito”, “infranto”, “fuori luogo”, “esotico” e dunque “venduto”, acquistato”, “abusato e violato” (come avviene nei casi di sfruttamento della prostituzione e di schiavitù sessuale); corpo “temuto e dunque denigrato e offeso”, in quanto “simbolo di alterità” (come succede nelle tante manifestazioni di razzismo); corpo “subalterno”, “sottomesso”, “razzizzato”; corpo “silente e tacitato”; corpo “straniero” ma anche “globale” (come insegna brutalmente il fenomeno della tratta); corpi “muti”, “nudi”, “esclusi”, “resi invisibili” (e dunque “negati in assoluto”), eppure così “trasparenti” e ben visibili, solo a cambiare la visuale.

Corpo denudato oltre che dei diritti di ogni valenza umana (de-umanizzato), senza cittadinanza giuridica né tanto meno sociale: lo attesta, in concreto, il caso degli “ingabbiati” e dei “diniegati”, in quel limbo, giuridico ed esistenziale, che può portare, e spesso porta, a vivere nei ghetti.
Il corpo, ancora con le parole di Massari, nella sua “insopprimibile materialità” e nella sua “profonda valenza simbolica”, disvela le pratiche di violazione dei diritti.
I “corpi degli altri”, i “corpi delle altre” – con specifico riferimento alla schiavitù sessuale – possono subire ciò che è indicibile e indegno per l’umanità, per chi ne fa parte, per chi non è uno “scarto” dell’umanità stessa.
Assoggettamento, sofferenza, reclusione – tutto ciò che accompagna una condizione di vulnerabilità che diviene segregazione – sono le condizioni che caratterizzano la schiavitù odierna e i corpi ingabbiati e incatenati, le “vite di scarto”, le “vite a perdere”, di cui nessuno si dovrebbe, in fondo, interessare.

Nei paesi occidentali, la clandestinità ‒ creata dalle legislazioni sulle migrazioni ‒ è il terreno sul quale crescono tutte le crudeltà, a scapito dello ius migrandi, del “diritto al viaggio” e alla libertà di circolazione, sanciti in documenti fondamentali a livello internazionale, ma anche a scapito delle tutele nel mondo del lavoro. In tal senso emerge la connessione – sempre più dura – tra immigrazione e schiavitù, ossia tra tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù. In quella che è stata definita «età dei diritti» si è costretti a registrare la loro più massiccia violazione e «la più profonda e intollerabile disuguaglianza», nonché il più alto numero di schiavi (e schiave) della storia. È in questi termini che ragiona Luigi Ferrajoli, il quale porta l’attenzione sulla questione della schiavitù nel contesto di una sistematica analisi della «libertà personale».

Egli osserva che, rispetto alle odierne forme di schiavitù, «le garanzie primarie della libertà lesa che occorrerebbe introdurre e rafforzare sono quelle dirette a garantire l’uguaglianza delle persone, la loro libertà di circolazione, nonché i diritti sociali e del lavoro: in breve, tutti gli altri diritti vitali che concorrono a definire la dignità della persona» .

Se si vuole spezzare l’avvenire della tratta e del neoschiavismo e il loro porre una linea divisoria tra esseri umani e corps d’exception ‒ discriminati, de-umanizzati e disumanizzati, ridotti a cosa, superflui una volta usati ‒ ciò che occorre è, come ho avuto modo di argomentare in altri scritti, una strategia integrata, articolata lungo molteplici piani, supportata da atti pubblici, normativi ma anche simbolici.

Una questione nodale in questo contesto, con riferimento al caso italiano, diviene quella della “regolarizzazione”.Da quanto emerge da molte ricerche sul campo, “il possesso del permesso di soggiorno non è, di per sé, garanzia sufficiente contro lo sfruttamento lavorativo e neanche contro il lavoro nero o grigio” o, ancora, contro la riduzione a vere e proprie forme di schiavitù. La vulnerabilità degli stranieri sul mercato del lavoro deriva, infatti, dal loro status giuridico “speciale” e subalterno, ossia dallo stretto legame tra il contratto di lavoro e il permesso di soggiorno. Se una regolarizzazione non selettiva costituisce una premessa fondamentale per l’accesso al sistema dei diritti garantito dallo Stato democratico-costituzionale, occorre tuttavia prendere in esame – entro una visione d’insieme che inquadri l’esistenza delle persone non per singole fasi o “stagioni” (come accade, emblematicamente, per i lavori stagionali) – anche la specifica dimensione del lavoro. Come ha puntualmente rilevato Federico Oliveri: “Una volta ‘emersi’ grazie alla regolarizzazione, chi proteggerà i lavoratori e le lavoratrici dai datori di lavoro che li hanno fatti ‘emergere’? Chi assicura che vengano rispettati gli standard in materia di retribuzione, orari di lavoro, igiene e sicurezza, condizioni alloggiative? Aver dato, come avviene dalla regolarizzazione del 2002, ai datori di lavoro il potere di ‘sanare’ gli stranieri in condizione di irregolarità prefigura il rischio di un rapporto fortemente asimmetrico tra datore di lavoro e lavoratori/lavoratrici, che non promette nulla di buono sul fronte del rispetto dei diritti”.

Ben oltre una regolarizzazione selettiva e condizionata, un’articolata politica di contrasto e di prevenzione dello sfruttamento e delle sue forme più estreme, che comportano condizioni di vera e propria schiavitù, deve unire almeno cinque fattori: una diversi politica dell’immigrazione, che non crei più soggetti giuridici vulnerabili e come tali sottoposti costantemente ai ricatti connessi alla loro “dipendenza”; controlli sistematici sul lavoro e applicazioni rigorose delle norme penali in materia di contrasto dello sfruttamento e del caporalato; nuove politiche agricole e commerciali tali da attribuire maggior potere contrattuale ai soggetti più deboli della filiera produttiva, e bilanciare lo strapotere dei soggetti che impongono prezzi insostenibili per i prodotti agricoli (di cui fanno le spese i lavoratori in termini di retribuzioni irrisorie e orari di lavoro prolungati o, appunto, in termini di condizioni para-schiavili e schiavili); un sistema di etichettatura trasparente e di certificazione etica affidabile della filiera produttiva, che consenta ai consumatori di scegliere criticamente i prodotti, specialmente quelli agricoli, evitando di acquistare frutta, verdura e trasformati ottenuti con lo sfruttamento del lavoro e delle persone, sovente ridotte a cose; politiche del mercato del lavoro, sociali, abitative, dei trasporti che liberino i lavoratori, soprattutto quelli stagionali, dalla necessità di ricorrere ai caporali per soddisfare il bisogno di lavoro, di alloggio, di mobilità o che li sottraggano dalle nuove forme di tratta.

(*) L'articolo corredato di note è disponibile nel formato PDF.