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Festival della letteratura working class: un atto di lotta culturale, dalla GKN alle vite di tutt3

di Francesca Gabbriellini

 

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Sono tantissimi i contributi sia giornalistici che narrativi che si sono occupati del primo Festival della Letteratura Working Class, promosso da Edizioni Alegre, che si è tenuto per la prima volta in Italia tra il 31 marzo e il 2 aprile presso la fabbrica ex GKN di Campi Bisenzio (Fi). Così tanto è stato scritto, detto, fotografato, mandato in onda durante e dopo l’evento, che non è semplice raccontare qualcosa di originale, nei limiti del possibile non retorico e, nello specifico, adeguato a uno spazio di riflessione scientifica sulla storia del lavoro. Un’operazione che non promettiamo centri tutti questi obiettivi, ma certamente utile per portare alla luce di quale lavoro, di quali lavori, di quali desideri e aspettative condensati attorno alla vita messa al lavoro si sia parlato in uno dei capannoni, e nei piazzali circostanti, della ex fabbrica di semiassi di Campi Bisenzio.

 

Si può cominciare col dire che sono state migliaia le storie del lavoro e dei lavori che hanno riecheggiato nello stabilimento nei giorni della rassegna letteraria: non soltanto quelle dei romanzi protagonisti delle presentazioni, che hanno ritrovato multidimensionalità nella voce delle autrici e degli autori accors3 da tutta Europa, ma anche quelle del folto pubblico che ha animato l’evento, che ha raccolto le storie e si è accostato, emozionato, impressionato, riconosciuto. Il piazzale della ex fabbrica di semiassi per autoveicoli, si è riempito per tre giornate consecutive di autrici e autori che hanno raccontato, discussant variegati che l3 hanno accompagnati e soprattutto un vasto pubblico che ha trovato l’occasione per condividere gli interstizi tra una presentazione e l’altra per interrogarsi sulla propria condizione lavorativa: chiedersi come sia cambiata negli anni in termini di carichi e ritmi, quale equilibrio stia reggendo o vacillando tra vita personale e vita messa a lavoro, quali scelte si intraprendono o si rimandano o si depennano dalle aspettative.     

 

Come già accennato, si è trattato dell’esordio della rassegna: per la prima volta nel nostro paese un intero evento di divulgazione letteraria è stato incentrato su un genere che, per definirsi, interpella il milieu delle autrici e degli autori, la loro provenienza geografica e familiare, la loro collocazione nel sistema produttivo - pienamente dentro o periferic3 all’industria culturale. Mœurs de province, ma anche delle città globali, storie e rappresentazioni della vita di una classe lavoratrice sempre più attraversata da linee e tensioni identitarie che articolano uno spazio letterario - o sarebbe meglio dire uno spettro. Questo fantasma è la questione di classe, che nella letteratura cosiddetta working class re-irrompe nella narrazione, mobilitando con sé tutto il reticolato intersezionale che reca appresso. Il titolo dell’ultimo saggio dello scrittore Alberto Prunetti, direttore artistico del festival, racchiude in sé il senso ultimo di questo tipo di scritture: «non [sono] un pranzo di gala», bensì un crogiolo di lingue e registri, un affresco ricco tanto di nuances quanto di campiture di colore pieno, uno scrivere che fissa una singola storia e libera una pluralità di voci, una scrittura che non sempre cammina di pari passo alla sovversione dell’esistente, ma di certo non porta mai con sé quei vittimismi. La realizzazione di questo festival e la decisione che si sarebbe tenuto alla ex GKN si inscrive nel desiderio delle lavoratrici e dei lavoratori di far sì che la vertenza sia anche un’occasione di riappropriazione e trasformazione della propria identità, un modo per spostarsi dai «margini della storia» e di auto-rappresentarsi tanto nella determinazione quanto nelle fragilità; lo stesso mélange di repertori letterari e forme di vita che attraversano le opere che sono state presentate.

 

Tra i dialoghi il cui effetto si è maggiormente riverberato vi è quello tra Cash Carraway, autrice del memoir «di povertà, maternità e sopravvivenza» “Skint Estate”, tradotto da Alberto Prunetti nella sua collana Working Class di Edizioni Alegre con il titolo “La porca miseria”, e la scrittrice Claudia Durastanti, arrivata al grande pubblico con il romanzo “La Straniera” (La Nave di Teseo, 2019). Una voce, quella della scrittrice British-Irish, che riporta densità alla parola “prole-taria” e racconta, senza vittimismo alcuno, la lotta quotidiana contro la deprivazione materiale, tra mille lavori e spostamenti, nell’Inghilterra delle politiche di disinvestimento del welfare di David Cameron. Accostandomi a una cara amica neo-mamma non ho avuto bisogno di spiegazioni per i suoi occhi liquidi e rabbiosi: la retta dell’asilo-nido da pagare, la perdita di potere d’acquisto dei salari, il pensiero a chi figl3 non ne ha e si deve pure sorbire il vociferare del ministro dell’Economia sulle famiglie con più di due figli che verrebbero sollevate dal gettito fiscale.

Tutto questo mentre in un’altra ala della fabbrica prende vita lo Spazio Prole, con un programma di attività, presentazioni di libri ed eventi che non ha nulla da invidiare allo spazio adulti: Andy Warhol, Karl Marx, Sherlock Holmes, Pietra Pane, sono solo alcuni dei protagonisti della rassegna working class dedicata alle più piccole e ai più piccoli, con il doppio obiettivo di socializzare il lavoro di cura e progettare momenti di educazione e di gioco di altissima qualità. Perché la cultura non può essere solo appannaggio di chi ha tanto capitale culturale e tempo reso libero dalla possibilità di pagare una baby-sitter e perché imparare e divertirsi ai massimi livelli possibili deve essere garantito anche per le figlie e i figli della working class.

 

Abbiamo raccolto commozione e decine di fogli di appunti durante la conversazione tra lo scrittore senegalese Pap Abdoulaye Khouma, la consigliera comunale Antonella Bundu e il professor Alessandro Portelli, che forte dei suoi studi decennali di storia della letteratura afroamericana e di storia orale, di memorie del lavoro e dei territori, ha discusso nella maniera più semplice e avvincente che si potesse immaginare le storie di migrazione verso l’Italia, delle seconde e delle terze generazioni e di come queste vengono impiegate nel mondo del lavoro in Italia, in cui i corpi non bianchi, la lingua perfetta oppure incerta, tutti i titoli di studio oppure nessuno, vengono differentemente valorizzati vuoi in lavori degradanti, vuoi in impieghi al pubblico che rendano visibili gentilezza, affabilità o competenza razzializzate. E mentre Portelli passava in rassegna l’origine dei canti di lavoro degli schiavi africani negli stati del Sud e ci dava conto della storia di brani storici dei movimenti per i diritti civili come “We shall overcome”, era come se nell’hangar allestito con sedie, punto bar e banchetti si fosse stretta una promessa collettiva, quella di attraversare, oltrepassare, disincagliare insieme lo stallo in cui riversano le lavoratrici e i lavoratori ex GKN.

 

È tornato in Italia anche D. Hunter, che con le sue memorie raccolte in “Chav”, anch’esso tradotto da Alberto Prunetti per Alegre, ha sbattuto in faccia al pubblico italiano che cosa significa assumere un punto di vista intersezionale quando è la tua vita stessa punto di condensazione di una stratificazione di oppressioni multiple: essere nero, non eterosessuale, non fisicamente assimilabile allo stereotipo del maschio nero aitante, piazzato sul mercato del lavoro sessuale fin da bambino dalla madre caduta in disgrazia, la rise and fall di D. Hunter squarcia lo spioncino del voyeurismo dal quale il pubblico di massa può essere solito osservare una vita del genere e dalle parole dell’autore arriva dritto allo stomaco un flusso di consapevolezza, dignità, solidarietà. Lungo queste molteplici linee di marginalizzazione e con il medesimo desiderio di riscatto, si collocano le presentazioni attorno al libro di Filo Sottile “Senza titolo di viaggio” (Alegre, 2021), discusso con l’attivista e operaio Marte Manca, e la discussione attorno a “Tuta blu” di Tommaso di Ciaula (Alegre, 2022) animata dal figlio Davide e da Giusi Palomba, autrice de “La trama alternativa” (MinimumFax, 2023). Incancellabili le poche e ficcanti parole pronunciate dall’attivista Enrico Gullo durante l’assemblea che si tenne nei pressi di Campi Bisenzio a giugno 2022, che preludeva al sodalizio tra Collettivo di Fabbrica GKN e assemblea Stati Genderali, piattaforma composita che da anni prova ad aggregare soggettività differenti attorno al tema del lavoro, delle identità e della cultura da una prospettiva queer: «Le persone Lgbtq+ lavorano, fanno parte della classe lavoratrice». E quale momento migliore se non il Festival della Letteratura Working Class per porre le basi della ricucitura di uno scostamento delle lotte e rimettere al centro quanto siano compenetrate la precarietà lavorativa e la discriminazione di genere e/o orientamento sessuale? Allo stesso modo, come non guardare a un altro storico divario, quello nord-sud, sul quale lavora brillantemente Carmine Conelli nel suo saggio “Il rovescio della nazione”, andando alle radici dello sguardo coloniale e razzista che origina la rappresentazione del Mezzogiorno retrogrado e non-perfettamente-bianco.  

 

Molte autrici e autori si sono moss3 da tutta Europa per partecipare in presenza al festival; per ovvie ragioni, quelle di una morte prematura, si è sentita fortemente la mancanza di Joseph Ponthus, giovane educatore professionale francese appassionato di scrittura, costretto a impiegarsi come interinale in diverse fabbriche del nord della Francia. Un operaio ex GKN mi ha raccontato che il sabato sera, in occasione del reading preparato da alcune sue colleghe e colleghi a partire dal romanzo “Alla linea”, è dovuto scappare via dal capannone dove si stava tenendo lo spettacolo, frustrato fino alla nausea dalle parole dell’operaio e scrittore francese prematuramente scomparso lo scorso anno. La lettura ad alta voce dei minuti rubati alla catena di smontaggio del pescato o alla sanificazione del mattatoio, dei gesti e dell’abbrutimento sempre uguali, delle sigarette accese nelle pause l’una con il mozzicone della precedente, lasciavano affiorare ricordi e sensazioni che i quasi due anni di fabbrica ferma hanno contribuito a seppellire, ma non a rimuovere dai corpi di chi li ha vissuti e di chi sta combattendo per vederli ritornare, ma con spirito e organizzazione rinnovate. Infatti, durante tutta la tre-giorni campigiana, è più e più volte risuonato l’appello a sostenere la campagna di crowdfunding messa in piedi per contribuire a trasformare la ex GKN nella prima fabbrica ecologicamente riconvertita d’Italia, in uno stabilimento all’avanguardia nella produzione di pannelli solari e batterie di nuova generazione e cargo-bike per la movimentazione di merci priva di combustibili fossili. Una riattivazione produttiva e sociale, quella prefigurata dal Collettivo di Fabbrica, da realizzarsi attraverso la forma cooperativa e l’azionariato popolare, a ribadire l’integrazione e la sinergia con il territorio solidale che la fabbrica l’ha sempre difesa. All’oggi, la raccolta si è conclusa con quasi 180mila euro di ricavato, che costituirà il primissimo capitale di avvio. E mentre procedono a tappe serrate i processi di certificazione dei prodotti che costituiranno il nuovo core business, il nuovo assetto societario si consolida nella costituzione formale della GKN FOR FUTURE Società Cooperativa, nata a Firenze il 10 luglio 2023, a due anni e un giorno dall’invio delle prime lettere di licenziamento, che condurranno il progetto “ex GKN for Future” al suo consolidamento e riattivazione produttiva.

 

Nella cornice più generale della vertenza, il Festival ha rappresentato un ulteriore tassello di quella che il Collettivo di Fabbrica ha spesso richiamato come «politica della convergenza» come strumento principale dell’organizzazione politico-sindacale, consolidata in ormai due anni di assemblea permanente e di confronto continuo con altre vertenze del mondo del lavoro, così come con i movimenti per la giustizia climatica e sociale, il movimento studentesco e quello Lgbtq+. L’abilità nella tessitura di relazioni tra la fabbrica e il territorio, limitrofo e non solo, ha condotto verso la piana fiorentina masse eterogenee e solidali; tra le migliaia di persone che hanno trascorso una notte a un picchetto, che hanno aiutato a organizzare un corteo o una cena sociale o che hanno distribuito volantini per giorni e giorni, acquisiscono visibilità altrettante migliaia di lavori svolti, background politici, culturali, di classe e di provenienza a dir poco eterogenei. Tra le convergenze più saldamente messe a punto, spicca quella tra chi lavora nel mondo della conoscenza e della cultura, che ha avuto la possibilità di mettere la propria cassetta degli attrezzi al servizio della lotta delle lavoratrici e dei lavoratori, da un lato per strutturare un piano di riconversione ecologico-produttiva dello stabilimento, dall’altro per infondere significato ulteriore alla ricerca e alla valorizzazione di chi, in Italia e all’estero, scrive da una posizione working class. In questo senso, si tratta di una potente e riconfigurata sinergia tra il mondo del lavoro culturale e della conoscenza a confronto con il mondo del lavoro operaio, una nuova saldatura che trova valorizzazione persino nel progetto di riconversione della fabbrica. L’idea è quella di destinare un’ala sotto-utilizzata dello stabilimento a un “distretto della conoscenza”, un centro di R&D interdisciplinare, dove lo sviluppo di prototipi e gli studi sull’ergonomia procedano di pari passo alla valorizzazione dell’archivio storico dell’attività sindacale e all’indagine sociologica dell’organizzazione del lavoro e dei processi produttivi.

 

La percezione stessa della vertenza delle lavoratrici e dei lavoratori della ex fabbrica dell’automotive fiorentina è mutata non poco, e in positivo. Il fatto che la rassegna si sia svolta nel cuore del sito produttivo e che gli operai siano stati protagonisti dell’evento, e non solo co-organizzatori e addetti alla logistica dello stesso, ha reso ancora più evidente agli occhi dell’opinione pubblica i molteplici binari lungo i quali questa vertenza ha saputo dispiegarsi: un piano politico-sindacale, di risignificazione ed empowerment degli strumenti della rappresentanza; un piano di vera e propria lotta culturale, in una costante ridefinizione dell’immaginario lungo la fondamentale traiettoria ecologista che la mobilitazione ha sposato fin dall’inizio; un piano basculante tra il personale e il politico, in cui la centralità del lavoro da un lato sfuma e dall’altro acquisisce nuovi significati e si può prendere parola per raccontare sì di lavoro “alla linea”, ma anche di riappropriazione del tempo libero e cura degli affetti, di fragilità e desiderio di riscatto.

 

E con il senno di poi, il senso più profondo del primo festival della letteratura working class in Italia si è addensato di pari passo allo sviluppo di questa lotta. Che l’intenzione fosse di «scrivere le nostre storie, di fare la storia» di un pezzo di storia politica e sindacale è evidente fin dai primi giorni di presidio in difesa dello stabilimento su cui si era abbattuto il primo licenziamento collettivo dopo il blocco dei licenziamenti predisposto dal governo Conte durante la pandemia. Che tra gli operai vi fosse una larga consapevolezza dei processi globali di ristrutturazione dei processi produttivi, specialmente nel settore metalmeccanico, era un qualcosa di già noto alle cronache. A tal proposito, ritorna in mente un pomeriggio di metà agosto del 2018, umido e raffermo come solo il contado pisano sa essere nella settimana dell’anno che i più dedicano alla villeggiatura. Io e Alberto Prunetti siamo alla «Festa Rossa», ai piedi del borgo medievale di Lari, a presentare l’allora sua ultima fatica, «108 metri», pubblicato da Alegre pochi mesi prima. Al tavolo insieme a noi siedono rappresentanti dei lavoratori del comprensorio del cuoio, delegati RSU dalle acciaierie di Piombino, della Bekaert di Figline Valdarno, l’ennesima fabbrica vittima di delocalizzazione industriale. E poi tale Matteo, delegato di una fabbrica dell’automotive della piana fiorentina; insieme a lui è venuto al dibattito anche un certo Dario, ma non riesco a ricordarmi se siano colleghi o se lui fa il regista, perché mi ha accennato qualcosa sulla realizzazione di un docufilm sulla strage di matrice razzista che si è consumata nel 2011 a Firenze, in Piazza Dalmazia. Alberto parla di paghe da fame e lavori sfibranti nelle peggiori cucine d’Inghilterra, infestate dai fantasmi di Margaret Thatcher e da retoriche più tossiche dei fumi che esalano - «vai a lavorare fuori, così fai un’esperienza e impari la lingua». Matteo racconta di una realtà aziendale infestata da simili entità inafferrabili: nuove tecnologie, nuovi mercati globali, nuovi contratti, a termine, per affrontare i picchi di produzione. Ed è lo spettro delle grandi dismissioni quello più spaventoso: la prossima fabbrica a chiudere potrebbe essere la loro. Poi, come in un montaggio un po’ troppo serrato, è di nuovo il caldo appiccicoso dell’estate toscana, è il 24 luglio 2021 per la precisione e insieme a migliaia di persone madide di sudore marciamo nella zona industriale di Campi Bisenzio, di fronte alla GKN Driveline, che fino alla notte prima produceva semiassi per autoveicoli e che adesso rischia di non riaprire mai più. Hanno montato un palco, ci raduniamo lì alla fine della manifestazione e sul palco ci sono quel Matteo e quel Dario che temevano già da anni per il loro posto di lavoro e per le sorti dell’intero settore produttivo italiano. Anni in cui si sono organizzati per essere pronti a lottare e ad accogliere. Ci dicono che la notizia del loro licenziamento collettivo fa semplicemente più rumore di tutti i contratti in scadenza, di tutte le dimissioni firmate in bianco, di tutte le intermittenze attraverso le quali ogni giorno il capitale mette a lavoro nuova forza precaria. Ci chiedono “E voi come state?” Questa domanda è già, in qualche modo, storia.

 

Fin dai primi mesi della vertenza, a partire dal Collettivo di Fabbrica si forma il collettivo di Convergenza culturale, che comincia a pensare e organizzare eventi culturali: una lezione di Alessandro Barbero sul tumulto dei Ciompi, una serata dedicata alla storia del lavoro, un incontro di approfondimento sull’ergastolo ostativo, decine di incontri sull’ecologia politica, la presentazione dell’ultimo libro del collettivo Wu Ming sugli anni Settanta. Perché anche i lavoratori hanno interessi: c’è chi scrive, chi disegna, chi fa musica e chi video, chi si interessa di storia, politica, sport. Nel tempo, chi è passato dalla ex GKN ha imparato a conoscere le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici che vogliono tornare a lavorare e anche incidere sul loro presente, padroneggiano nei dettagli la conoscenza del processo produttivo e rivendicano spazio e voce per ridisegnare il loro futuro. E verso questo nuovo orizzonte hanno deciso che non ci vogliono camminare da sol3, bensì assieme all’ampio gruppo di solidal3 che si sono attivat3 in supporto alla mobilitazione operaia, anch’esso composto da centinaia di lavoratrici e lavoratori provenienti dai settori e dagli abomini contrattuali più vari; anche per queste persone, si apre un’occasione per mettere in discussione la propria condizione di lavoro e di vita. Con alcune compagne e compagni provenienti prevalentemente da Pisa, con sommo dispiacere campanilistico della maggioranza dei lavoratori e dei solidali di marca fiorentina, decidiamo che con lo scoppio di questa vertenza operaia dichiariamo la nostra indisponibilità a tornare sui nostri luoghi di lavoro se non ripensando il nostro modo di intendere la ricerca e il lavoro intellettuale. Chiederci come e cosa studiamo non è tanto diverso dal domandarsi cosa e come si produce nell’industria italiana e globale. Domandarsi l’impatto del proprio lavoro, sgusciando fuori dalle valutazioni accademiche, è sempre più simile a interrogarsi su quali relazioni tra umano e non-umano contribuiamo a costruire, se di sopraffazione e competizione o di cura e tutela. Anche il lavoro intellettuale, seppur caratterizzato da una serie di privilegi, è lavoro impoverito, precario, sfibrante, con le sue complicazioni muscolo-scheletriche, i suoi burn-out, il suo tempo rubato all’ozio. Costituendo un Gruppo di Ricerca Solidale, proviamo ad aprire uno spazio di ricerca autentico, al servizio di una lotta operaia che eccede la battaglia per il salario e la salvaguardia dell’occupazione e ci parla a chiare lettere di giustizia ambientale e sociale. Gli operai già da mesi riprendono parola, affinano le consapevolezze, scrivono comunicati che saranno fonti d’archivio. A margine dell’assemblea permanente, ai picchetti notturni e ai punti ristoro, raccontano storie ordinarie, di mutui, figli, aspettative, paure, vizi. Ogni voce è un racconto, in un mosaico dal quale, tessera dopo tessera, spariscono la voce del padrone e i suoi interessi; di contro si compone la marcia degli operai e del territorio che insorge. Sono tante le manifestazioni alle quali le lavoratrici e i lavoratori ex GKN hanno chiamato a raccolta tutta Italia. La prima, il 18 settembre 2021, è stata quella della propulsione, quella dei 40 mila contro i licenziamenti che si sono riversati lungo i viali di Firenze come non succedeva dai tempi del Social Forum; l’ultima, quella del 25 marzo ancora una volta a Firenze, è stata quella della discesa in campo della gioiosa fragilità della quale la classe lavoratrice, tenuta sotto scacco dall’insufficienza delle politiche industriali del paese ma capace altresì di dare filo da torcere ai soggetti istituzionali che vorrebbero silenziarla, non deve vergognarsi.

Il Festival si è tenuto in fabbrica pochissimi giorni dopo l’ennesimo sforzo per tenere aperto il processo di reindustrializzazione a guida operaia, per reclamare l’intervento pubblico di fronte all’ennesimo avamposto della componentistica italiana che si perde, per rinfocolare la ragione ecologista e intersezionale della lotta. Il gruppo di lavoro che si è aggregato attorno alla rassegna è riuscito a spendersi non solo per quei tre giorni in fabbrica, ma anche per un percorso di avvicinamento, fatto di decine di tappe di Convergenza Culturale, dentro e soprattutto fuori dallo stabilimento.

Con il supporto di Arci Firenze, si è composto un calendario di presentazioni di libri, dj set di finanziamento, discussioni proprio attorno alla storia del lavoro, ai suoi strumenti e soprattutto i suoi oggetti e soggetti, incontri e chiacchierate che, come è giusto che sia, lasciano più suggestioni e domande che risposte.

E per chiudere proprio con una domanda, ce n’è una che abbiamo osservato stampata a chiare lettere sulle facce di tutt3 coloro che sono passati dal festival e che è esplosa nella gola di chiunque dopo i convenevoli di saluto. «Ma che sta succedendo? Che cosa è successo?». È interessante la “sospensione attiva”, evidente dagli occhi sgranati e vibranti delle/degli astanti, che questo interrogativo produce. Come un orizzonte che aiuta a camminare sia gli operai che resistono, sia chiunque decida che è tempo di mobilitarsi.