Al presente

L'istruzione professionale e le sue riforme

di Chiara Martinelli

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Sfianca, esaurisce, prosciuga. Perché mancano le ore. Perché ci sono troppi ragazzi che hanno bisogno di un supporto individualizzato tutti insieme, in classi dove, su ventiquattro studenti, la metà può avere un certificato di disturbo dell’apprendimento. Perché mancano le basi, di scrittura, del saper far conto, di sapersi atteggiare in un contesto come quello scolastico. Perché mancano i contesti e le famiglie, spesso troppo disgregate, troppo sole, troppo povere per poter seguire il figlio in maniera appropriata. Perché, prima di procedere con la didattica, è necessario procedere con l’educazione, e allora i primi due anni si spendono nella condivisione degli spazi e dei comportamenti accettabili. I primi due, ma anche i primi tre e i primi quattro, perché le lacune, in primo luogo educative, in secondo luogo didattiche, non consentono di procedere oltre, così come la casa senza fondamenta crolla, e rovina tra gli argini.

Tale è il lavoro che spesso accompagna le giornate in un istituto professionale ed è bene ricordarlo allorché, nei dibattiti su una nuova riforma, ci accostiamo all’argomento. È stato sempre così? Difficile dirlo. Nessun resoconto ci hanno lasciato gli insegnanti che, nel corso del XIX e del XX secolo, hanno varcato istituti dalle denominazioni simili. Ma altri documenti sono stati lasciati. E ci rivelano un aspetto importante: la funzione sociale che da subito, dai primi dell’Ottocento, ha assunto il settore. Istituti e scuole professionali non sono nati per formare lavoratori specializzati; sono stati fondati, piuttosto, con l’intento esplicito di disciplinare un popolo che l’urbanizzazione addensava davanti agli sguardi sempre più sbigottiti della classe dirigente. Istituti professionali sorsero negli orfanotrofi, nei ricoveri per fanciulli “pericolanti”, nelle case d’assistenza. Giunge l’Unità d’Italia: e gli istituti professionali vengono talvolta identificati come una “valvola di sfogo” per classi sociali medio-basse in cerca di un’emancipazione culturale di difficile risoluzione. Incede il Novecento: e l’istruzione professionale continua a essere vista come un terzo canale adatto a “sfollare” licei e istituti tecnici da elementi non graditi. Oltrepassiamo il Duemila: e l’istruzione professionale conserva il suo mesto, secolare ruolo di vaso di coccio tra i vasi di ferro.

Se anche al nostro vaso di coccio potessimo applicare l’ormai celebre tecnica del kintsugi1, l’istruzione professionale sarebbe tutto fuorché la cenerentola del nostro sistema educativo. Molte infatti sono state le riforme che si sono susseguite negli anni. Era il 2009 quando il decreto 87, emanato insieme a quelli sui licei e sugli istituti tecnici, è intervenuto sugli istituti professionali, abolendo la qualifica triennale e riducendo le ore settimanali destinate alle discipline di indirizzo. Trascorrono otto anni: e la legge 61/2017 riforma di nuovo il settore, reintroducendo, in caso di accordi specifici con le Regioni, la possibilità di ottenere la qualifica di metà percorso. La nuova riforma cambia il paesaggio istituzionale prima ancora che quella vecchia possa dispiegare i suoi effetti. Trascorrono nel frattempo altri sette anni. Interviene una terza, nuova riforma, quella promessa dal presente governo: e non può lo sguardo non correre al convulso ventennio 1859-1878, quando scuole e istituti tecnici casatiani vennero ritoccati, stravolti, modificati e poi di nuovo ritoccati da ben sette diverse riforme. Adesso sappiamo che quell’ipertrofico impegno nulla celava se non il desolato smarrimento di una classe dirigente poco abituata a immaginare studi secondari non fondati sulle letterature classiche; e forse quell’identico smarrimento è percepibile adesso, tra le tante riforme che, senza pace, si inanellano le une alle altre, ognuna con la sua idea di scuola, ognuna con la sua concezione di futuro. Concezione di futuro che, ovviamente, caratterizza anche quest’ultima legge, marcatamente aziendalista.

Aziendalista perché struttura e incardina, nell’architrave dell’istruzione tecnica e professionale, un “privato” tanto generico e vago quanto, per ciò stesso, pervasivo. Possono essere anche soggetti privati, infatti, i membri della «filiera tecnologico-professionale» (comma 1, articolo 25 bis) che cercherà di coordinare i nuovi quadriennali istituti tecnici e professionali, i percorsi regionali di istruzione e formazione professionale (conosciuti con l’acronimo di Iefp) e i percorsi di specializzazione post-secondaria – ovvero gli ITS, nonché gli esistenti, ma poco conosciuti percorsi di specializzazione di durata semestrale o annuale che vanno sotto il nome di IFTS (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore). «Filiera», si badi bene. Non comunità, non organizzazione, non gruppo: e lo stesso termine è una dichiarazione d’intenti, perché la filiera è quella aziendale, alla cui efficienza anche la scuola, intesa come produttrice di capitale umano, deve contribuire. In secondo luogo: quattro anni di percorso, invece dei tradizionali cinque. Non è un’invenzione del presente governo: già nel 2014 l’allora Governo Renzi autorizzò alcune sperimentazioni quadriennali nei licei. Nei licei, e non negli istituti: ed è un altro interessante dato di fatto, perché, mentre gli studenti dei licei sono diretti, presumibilmente, verso la prosecuzione degli studi, quelli degli istituti sembrano destinati a un’accelerata immissione sul mercato delle aziende. È un anno in meno di scuola. Ed è un anno in più di lavoro, in loco se sede del diplomato è una provincia del Centro-Nord, o di Neet e di emigrazione, se la sede è nel Sud. L’elemento ci ricondurrebbe, è vero, alla durata di studi europea: ma è un accorgimento che, alla lunga, consentirà al Ministero di ricorrere a un minor numero di assunzioni a tempo indeterminato, e che proietta un’ombra sulla possibilità, per i nuovi diplomati, di disporre delle competenze necessarie per completare un percorso universitario. Molti, infine, sono i compiti didattici demandati ai privati. Anche questa, è tutt’altro che un’innovazione recente: lento e inesorabile sembra l’ingresso dei privati nel sistema scolastico italiano, con movenze che già l’inclusione, nel 2000, dell’istruzione paritaria nell’alveo nazionale e l’introduzione, nel 2004, dell’alternanza scuola-lavoro, lasciavano presagire. Interessante tuttavia sembra l’implementazione, come da comma 7 dell’articolo 25 bis, del CLIL (Content and Language Integrated Learning): percorsi di studio delle discipline curriculari in lingua straniera che, a finanziamenti invariati – «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», recita infatti il comma 8 dell’articolo 25 bis –, devono forzosamente attivarsi in virtù della grazia e dei soldi di un privato. Ma i privati non sono samaritani. Chiederanno qualcosa in cambio? E cosa?

Questo, non lo sappiamo.

Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza sull’efficacia o meno che avrà la riforma. A noi, invece, qualche considerazione di contesto. È una legge che vorrebbe promettere molto. Promette il CLIL – per adesso limitato a licei e istituti tecnici – anche negli istituti professionali; promette di condensare in quattro anni la preparazione che si svolge in cinque; promette, sulla base della sua filosofia di pensiero, di formare operai e tecnici per le imprese. Promette, promette, promette: e chissà se mantiene, mentre il pensiero corre a studenti che ancora negli anni del triennio non riescono a comprendere un articolo di fondo di un giornale; che, quando giungono al primo anno di un professionale, devono essere educati innanzitutto a star seduti, e a interagire in armonia con gli insegnanti e con i compagni. Il CLIL è un tetto che si innalza su una casa non terminata; non può, pertanto, che crollare, e andare in rovina.

E quindi, alcuni pensieri sparsi. Non possiamo ricostruire e allargare il secondo piano di una casa senza riconsiderarne le fondamenta; non possiamo riformare gli istituti tecnici e professionali senza considerarne la base: le medie (o, come si chiamano adesso, secondarie di primo grado), questo “ventre molle” del nostro sistema di istruzione che ancora conserva nella sua struttura molte delle tracce che più di ottanta anni fa Bottai, allora Ministro dell’Educazione Nazionale, desiderò imprimergli. Le scuole medie erano, all’epoca, esplicitamente destinate alle élite; maggiore era la quota di chi percorreva le strade della più popolare scuola di avviamento; e preponderanti erano, infine, chi interrompeva gli studi dopo la quinta elementare, a scapito e a dispetto di un obbligo scolastico che già la Legge Gentile aveva fissato a quattordici anni. Molta è l’acqua che è trascorsa sotto i ponti: la guerra che era appena cominciata è finita; il regime che aveva approvato la legge è caduto; anche il Re che ha firmato il decreto, pure lui è caduto. Simile è stato il destino delle scuole che “stornavano” dalle medie tutti quegli elementi giudicati, per condizioni economiche e sociali, non adatti a proseguire: ultima tra queste è stata la scuola di avviamento con la legge 1859/1962. Restano dunque le scuole medie: inamovibili, come testimonia l’ingloriosa fine, nel 2001, della riforma Berlinguer; e quindi ritoccate, ma fisse nella loro struttura, benché la società intorno a loro sia cambiata, e cambiati siano anche i suoi studenti.

Scarsa è stata la riflessione su questo punto. Ancora più scarsa la volontà di riformare guardando a chi ha dovuto, prima delle scuole medie e del biennio delle superiori, affrontare le sfide e l’impegno della scolarizzazione di massa: le elementari, felicemente contaminate, soprattutto dagli anni Settanta, da nuovi approcci e pratiche didattiche, che, se non hanno raggiunto tutte/i le/gli insegnanti e non tutte/i in egual misura, certo hanno colpito, e lasciato il segno. La “scuola integrata” che, proposta da Giacomo Cives nel 1967, prospettava un’istituzione scolastica capace, nelle sue attività educative pomeridiane, di non lasciare nessuno indietro, deve costituire uno degli spunti di riflessione per un nuovo modo di fare scuola alle medie e nei primi anni delle superiori. Scuole medie “integrate”, con attività educative (dalla visione di film ad attività ludiche e informali) pomeridiane. Educative e non didattiche: perché alcune scuole medie a tempo pieno esistono, ma sono troppo poche, troppo legate alle esigenze lavorative dei genitori, e risultano troppo spesso fedeli a una concezione esclusivamente didattica del tempo scuola. Similmente dovrebbe muoversi il biennio dell’istruzione professionale, dove più acute sono le mancanze, e le carenze, affettive, sociali, culturali: non meno scuola, ma più scuola, se possibile con attività predisposte da educatori e pedagogisti; spazi dedicati esplicitamente all’apprendimento informale, quello veicolato da letture, film e altri contenuti culturali di cui spesso questi studenti non hanno neanche il sentore. Per non lasciare indietro nessuno, certo. Ma anche per riqualificare un’istruzione da sempre considerata di serie C; per imprimere, finalmente, una svolta al suo secolare percorso.

 

 

Breve bibliografia

  • G. Cives, Scuola integrata e servizio scolastico, La Nuova Italia, 1967.
  • C. Martinelli, Educare alla tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica”, McGrawHill, 2023.
  • S. Oliviero, Una scuola democratica per una società democratica. La scuola media unica nelle pagine di «Scuola e città», Astarte, 2023.

1 Tecnica di restauro giapponese che consiste nel riparare le scheggiature degli oggetti di ceramica riempiendoli con una polvere d’oro. Gli oggetti vengono perciò impreziositi.